lavoro (obiettivi perseguiti, ipotesi formulate, metodo utilizzato), con
la presentazione dei risultati ottenuti e la discussione alla luce delle
teorie di riferimento.
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Capitolo 1 - LA RUMINAZIONE
1.1. La ruminazione: definizione e principali
caratteristiche
Certamente a chiunque è capitato di pensare inaspettatamente e
ripetutamente a qualcosa o qualcuno, a episodi passati o situazioni
future, che hanno una certa importanza in un dato momento della
propria vita. Spesso a dare inizio a questi pensieri non è la semplice
volontà, ma indizi esterni anche banali e fugaci, quali possono essere
un profumo, un’immagine, una sensazione corporea o addirittura una
semplice parola o frase sentita per caso. Quando questi pensieri
diventano piuttosto ricorrenti e non del tutto controllabili, si chiamano
ruminazioni.
La definizione più accreditata di ruminazione è quella fornita da
Martin e Tesser (1996), secondo i quali la ruminazione consiste in una
“classe di pensieri coscienti che ruotano intorno a un comune tema
strumentale e che ricorrono in assenza di richieste immediate
ambientali di quei pensieri” (Martin e Tesser, 1996 p. 7). L’ambiente
fornisce solo gli indizi indiretti che possono avviare la ruminazione,
ma è l’individuo che la prolunga, indipendentemente dall’esterno e
dalla sua volontà. E’ importante sottolineare, inoltre, che usare il
termine pensiero ruminativo non significa riferirsi solo ad un
contenuto di tipo verbale, ma anche a immagini, emozioni, sensazioni
corporee.
A partire da tale definizione, vari autori hanno proposto
concettualizzazioni anche molto diverse tra loro su quali siano le
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caratteristiche, le cause, gli effetti e i meccanismi coinvolti nel
pensiero ruminativo; sono tutti concordi, però, sul fatto che tale
pensiero sia prolungato nel tempo e soprattutto sia intrusivo, cioè
quasi sempre non si sceglie di ruminare, ma i pensieri entrano
prepotentemente nella mente di una persona, che trova molta difficoltà
ad interromperli.
Una curiosa caratteristica della ruminazione è che a volte essa
appare inutile: difatti spesso si rumina su cose che non si possono
cambiare, come quando tornano in mente immagini e sensazioni o si
fanno lunghe considerazioni su un rapporto ormai finito o su una
brutta figura che non può certo essere cancellata. Ovviamente non
tutte le ruminazioni sono di questo tipo: ci sono pensieri che
producono soluzioni appropriate ai problemi e ci si può anche
deliziare con idee positive, godendo della soddisfazione di un ottimo
risultato scolastico o di un complimento ricevuto. E’ stato dimostrato
da più autori, tuttavia, che la ruminazione che assume toni negativi è
più frequente e prolungata di quella dal contenuto positivo (Carver e
Scheier, 1990; Martin e Tesser, 1996); a sua volta uno stato d’animo
negativo è più probabile che attivi la ruminazione stessa, in un ciclo
auto-rinforzante da cui può risultare molto difficile uscire (Martin e
Tesser, 1996). Ancora, la ruminazione è stata vista come mediatrice di
disordini mentali, tra cui la depressione (Baum, Cohen e Hall, 1993;
Just e Alloy, 1997; Nolen-Hoeksema, Parker, Larson, 1994;
Pysczsynski e Greenberg, 1987) .
Non si deve, però, necessariamente pensare che la ruminazione
sia disfunzionale: se ruminare fosse solo negativo per la salute, allora
come si potrebbe spiegare la capacità della maggior parte delle
persone di venir fuori da questo ciclo di pensiero e di ritornarci in
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futuro per motivi differenti, senza alcuna conseguenza seria per il
proprio benessere? D’altronde ogni giorno sperimentiamo
ruminazioni, senza per questo credere che sia dannoso e senza sentirci
a disagio. Certo, quando i pensieri si ripetono troppo o troppo a lungo,
allora si può parlare di cattivo adattamento e disfunzionalità; ma ciò
non deve dare adito a generalizzazioni sull’intera popolazione.
La questione della funzionalità è solo uno dei tanti aspetti della
ruminazione su cui i ricercatori non sono affatto concordi. Nell'acceso
dibattito sull'argomento, molte domande fondamentali non trovano
risposte univoche e perciò, per analizzare la ruminazione, spesso
bisogna prendere in considerazione più approcci, a volte anche molto
diversi tra loro.
1.2. Differenti punti di vista sulla ruminazione
La prima domanda fondamentale che ci si può porre riguardo i
pensieri ruminativi è "Perché avvengono?". Anche qui non c'è una
sola spiegazione. Gold e Wegner (1995), al riguardo, hanno distinto
quattro grandi orientamenti teorici: le teorie del trauma, le teorie della
non rivelazione, le teorie dell’incompletezza e la teoria della
soppressione. A questi bisogna poi aggiungere un ulteriore
orientamento, che si caratterizza per lo stampo più clinico.
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1.2.1. Le teorie del trauma
Questo primo approccio vede la ruminazione come una reazione
agli eventi traumatici o spiacevoli, i quali provocano attivazione
emotiva così forte da lasciare un segno nella memoria a lungo termine
(James, 1890).
Rimé (1995) afferma che gli eventi negativi più importanti della
vita hanno un impatto a lungo termine sulle persone, che continuano
ad avere ricordi intrusivi, sogni angosciosi, flashback o reazioni
eccessive quando esposte ad indizi che ricordano loro le situazioni
traumatiche vissute. Secondo l’autore, infatti, indipendentemente dalla
natura positiva o negativa, gli eventi emotivi sono in gran parte seguiti
da pensieri ruminativi; inoltre, più un’esperienza emotiva è intensa e
più frequenti sono i pensieri intrusivi esperiti dall'individuo. Sembra,
quindi, che l’intensità delle emozioni provochi un ricordo
eccezionalmente forte, il quale si manifesta sotto forma di
ruminazioni.
Altri indirizzi di ricerca, invece, focalizzano l’attenzione sugli
schemi mentali in cui sono contenute le informazioni sul Sé e sul
mondo, passate e future: le persone ruminano per anni sui traumi
vissuti, perché questi provocano la distruzione delle “impalcature”
degli schemi mentali e attivano una ricerca di significati, che ha come
scopo la loro riorganizzazione, in modo da tener conto delle nuove
informazioni contenute nell’evento (es. Horowitz, 1986; Janoff-
Bulman e Frieze, 1983; Taylor, 1983).
Horowitz (1986), in particolare, afferma che gli individui
rispondono ad una situazione stressante dapprima con "ripetizioni
intrusive del trauma nel pensiero, nell’immaginazione, nell’emozione,
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nel comportamento". Poiché questa risposta è dolorosa, essi tentano di
"sopprimere queste intrusioni con meccanismi quali il diniego,
l’intorpidimento emotivo e il deliberato evitamento dei reminders"
(Greenberg, 1995 p. 1266). Horowitz (1986) individua anche le cinque
fasi cognitive che un individuo attraverserebbe prima di adattarsi al
trauma, quando, cioè, si ha una risoluzione di differenze tra le nuove
informazioni e i modelli mentali stabili.
In modo non dissimile da Horowitz, Janoff-Bulman parla delle
credenze di base delle persone (la benevolenza del mondo, il
significato nel mondo, il valore di sé), che vengono sconvolte dagli
eventi straordinari: gli individui, così, prima cercano di reinterpretare
il trauma in modi che sono meno incompatibili con le vecchie
assunzioni e poi, come ultima risorsa, rivedono le loro concezioni del
Sé e del mondo per adattarvi il trauma vissuto. Lo sviluppo di nuove
prospettive che possano tener conto dell’esperienza traumatica è
salutare, mentre fallire nel ricostruire i propri schemi mentali è
ovviamente non salutare (Janoff-Bulman, 1992; Janoff-Bulman e
Frieze, 1983).
Purtroppo, le teorie del trauma hanno il limite di non chiarire
perché ci siano differenze nelle reazioni individuali ad uno stesso
evento stressante e l’intensità o la durata dell’esperienza non bastano
come spiegazione dei pensieri ruminativi (Loftus e Kaufman, 1992).
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1.2.2. Le teorie della non rivelazione
Secondo questo orientamento, le ruminazioni accadono quando
gli eventi emotivi vissuti non sono rivelati agli altri, magari perché si
riferiscono ad argomenti tabù o perché non si trova un’audience
recettiva disposta ad ascoltare (Foa e Kozak, 1986; Pennebaker, 1985;
Stiles, 1987).
Fin dai lavori di Freud (Mitchell e Black, 1996), si è sempre
pensato che reprimere esperienze ed emozioni fosse negativo per la
salute mentale. Trascorriamo molto tempo cercando di dare un senso a
ciò che ci sconvolge o ci disturba, ma il più delle volte ruminare non
allevia la sofferenza, né risolve il problema, anzi si possono perdere di
vista aspetti essenziali della questione, che ci aiuterebbero a superare
il momento stressante.
Pennebaker (1985) sostiene che non discutere e non confidarsi
possano essere addirittura più dannosi del trauma stesso: il supporto
sociale aiuta le persone a superare il dolore emotivo e diminuisce la
quantità di ruminazione. L’autore ha anche condotto interessanti
ricerche sull’importanza dello scrivere come mezzo per superare il
trauma, perché scrivere aiuta a elaborare meglio l’evento traumatico,
sembra incoraggiare i cambiamenti cognitivi e permette di ruminare in
modi produttivi (King e Pennebaker, 1996). E difatti, già nel senso
comune è ben radicata l’idea che parlare dei propri problemi con
qualcuno non possa far altro che alleviare il dolore e la tensione, così
come non è insolito trovare persone che scrivono diari per “sfogare”
tutto ciò che di importante accade loro.
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E’ stato anche visto, tuttavia, che rivelare gli eventi traumatici
non sempre riduce la ruminazione. Terr (1983), ad esempio, ha
mostrato, in uno studio clinico su un episodio di sequestro
particolarmente grave, che non c’era differenza nelle conseguenze del
trauma tra le vittime incoraggiate a parlare e quelle che non lo
facevano.
1.2.3. Le teorie dell’incompletezza
I maggiori esponenti di tali teorie sono Martin e Tesser (1989;
1996). Le teorie dell'incompletezza guardano alla ruminazione
principalmente come una conseguenza del non raggiungimento degli
obiettivi che ciascuno si prefigge. I nostri pensieri, sentimenti e
comportamenti, infatti, sono guidati sempre da obiettivi, che ci
sforziamo di soddisfare (Klinger, 1975); a volte, però, le circostanze
non ce lo permettono e ciò causa ruminazione, che persiste fino a che
o riusciamo nel nostro intento o ci distraiamo con altri obiettivi o
ancora decidiamo di abbandonarlo.
Così, ad esempio, un ragazzo che soffre per la fine della
relazione con la propria fidanzata, può ruminare a lungo sulle cause
della rottura, sulle responsabilità e le colpe, su come avrebbe potuto
evitarlo, su cosa può fare per riconquistarla. In ogni caso, qualunque
sia il contenuto della sua ruminazione, i modi per fermarla sono:
ricucire il rapporto e tornare insieme alla fidanzata, distrarsi con altre
attività e pensieri oppure abbandonare definitivamente l'obiettivo,
cercando di dimenticarla.
Martin e Tesser (1996) affermano che si rumina più che altro
quando la quantità di progresso verso uno scopo non è quella che ci si
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aspetta. In altre parole, iniziamo un’attività ruminativa sia che
progrediamo più del previsto, sia che regrediamo dallo scopo.
Chiaramente le caratteristiche e i contenuti dei pensieri saranno
nettamente differenti nei due casi.
Di certo, però, le persone non ruminano su ogni singolo
obiettivo non raggiunto, ma su quelli che nella gerarchia personale
degli obiettivi sono più importanti e, quindi, quelli di ordine più alto
(Martin e Tesser, 1996): se uno studente viene bocciato ad un esame,
ad esempio, lo scopo non soddisfatto non è l’esame in sé, ma più
probabilmente la possibilità di terminare gli studi o la possibilità di
dimostrare a se stesso e agli altri le proprie capacità.
Il problema sorge quando non siamo consapevoli dei veri
obiettivi che guidano la nostra ruminazione: infatti, i pensieri vertono
normalmente sugli scopi che, secondo le nostre teorie implicite,
pensiamo siano stati ostacolati. Quando più di un obiettivo è
plausibile, le ruminazioni ruotano intorno a quello più saliente o più
accessibile. Ma cosa succede se il nostro povero studente è convinto
che il suo scopo sia terminare gli studi e invece la sua vera
preoccupazione è dimostrare di essere molto intelligente e capace?
Probabilmente la sua ruminazione non si fermerà, anche dopo aver
superato l’esame, perché la sua autostima è stata in ogni caso
indebolita dall’aver fallito la prima volta e, forse, continuerà
inconsciamente a dubitare della propria intelligenza.
A volte può anche succedere che siamo consapevoli sia della
ruminazione che degli scopi, ma non riusciamo a mettere in relazione
le due cose; oppure accade che la ruminazione sia il risultato della
somma di più obiettivi interrotti, ma l’unico di cui siamo consapevoli
è quello che materialmente l’ha avviata, come la punta di un iceberg
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