nello scrivere questa tesi è dunque in parte anche quella di dare un piccolo e modesto contributo alla
ricerca italiana in questo campo, che appare spesso limitata.
Il primo capitolo della dissertazione è una descrizione della tratta schiavistica nel passato. Il primo
paragrafo analizza l’istituzione fino alla fine del XVIII secolo. Il secondo descrive il fenomeno nel
XIX secolo, dedicando ad esso un intero paragrafo, per l’ampiezza che questo raggiunse e come
base di paragone per gli aspetti contemporanei di schiavitù. Il terzo analizza il periodo del
Condominio Anglo-Egiziano (1899-1955) operando due linee di ragionamento: la prima sottolinea
come la schiavitù persista all’interno del dominio britannico, benché formalmente fosse stata abolita,
per ragioni di tipo economico; la seconda mette in evidenza come il tipo di amministrazione
coloniale volto alla separazione tra Nord e Sud e alla differenziazione abbia accentuato la dicotomia
Nord-Sud, che si rivela preponderante nei fenomeni contemporanei di schiavitù.
Il secondo capitolo è dedicato agli aspetti delle moderne forme di schiavitù in Sudan, da cui prende
il titolo la tesi. Il primo paragrafo contestualizza l’analisi che viene svolta successivamente,
fornendo uno scenario storico del paese dall’indipendenza nel 1956 fino alla fine della seconda
guerra civile nel 2005. Nel secondo si analizza il fenomeno delle “abductions” nel Sud durante la
seconda guerra civile. Il governo sfruttava e sfrutta (lo fa ancora, in Darfur, dove il conflitto è
in corso) le inimicizie a livello locale ed arma le tribù di pastori nomadi musulmani, i quali
vanno a costituire milizie tribali che si integrano con le forze governative e che sono spinte a ridurre
in schiavitù le popolazioni considerate sostenitrici delle organizzazioni ribelli. Il governo consente
ed incoraggia inoltre la resa in schiavitù delle popolazioni che subiscono le devastazioni. Il
fenomeno delle “abductions” (rapimenti), si integra con quello dei “displaced” (rifugiati), di cui si
parla nel terzo paragrafo. I profughi provenienti dal Sud del paese sono costretti ad emigrare verso
Nord in cerca di lavoro, spinti dalla carestia e dalle devastazioni della guerra. Il tentativo, in
particolar modo da parte del governo sudanese, di ridurre questo processo ad una mera conseguenza
della guerra, cela in realtà una strategia precisa. I rifugiati sono spesso le stesse vittime degli
attacchi delle milizie tribali che vengono armate dal governo. Al Nord, queste popolazioni vengono
discriminate, private di diritti e della possibilità di ricoprire una posizione lavorativa “rispettabile”.
A causa del sovraffollamento di Khartoum negli anni ’80 da parte di popolazioni che provenivano
dal Sud, il governo optò per il rilocamento di queste in “campi di transizione”, che si traducevano
per le condizioni sanitarie e umane in campi di concentramento, e che servivano come serbatoio di
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manodopera a basso costo per i progetti di agricoltura meccanizzata al Nord. Entrambi i processi
esaminati dei rapimenti da parte delle milizie tribali e dei rifugiati, vengono definiti da parte di
molti autori come parte dello stesso meccanismo. Lo si può considerare un fenomeno di schiavitù in
senso classico, poiché deprivante della libertà personale, derivante da una concezione razzista e
dispregiativa per le popolazioni rese in schiavitù e poichè soprattutto ricorda in modo particolare le
razzie del XIX secolo e l’utilizzo nel campo agricolo e nell’esercito.
Il quarto paragrafo analizza invece i casi di schiavitù all’interno dell’SPLA, la principale
organizzazione ribelle sudista; è stato ritenuto necessario descrivere anche “l’altra faccia della
medaglia”, per non fare un discorso eccessivamente di parte. L’analisi che viene compiuta in
seguito tuttavia, si è concentrata sulle operazioni di matrice governativa,per l’ampiezza del
fenomeno che può essere messo in comparazione con il XIX secolo e per la strategia che sta alla
base dello stesso.
L’interrogativo scaturito dopo questa panoramica sull’attualità della pratica è stato il cercare di
capire in cosa costituiva l’elemento di trasformazione della schiavitù nella sua forma attuale.
L’obiettivo del terzo capitolo è quello di evidenziare proprio questo punto. Il primo paragrafo, dopo
aver riassunto i principali mutamenti subiti dall’istituzione della schiavitù nel corso dei secoli,
evidenzia come primo elemento di trasformazione attuale il radicalizzarsi delle due categorie di
“arabità” ed “africanità” in seno alla società sudanese. Il secondo paragrafo analizza l’introduzione
della legge islamica (Shari’a) nel 1983, ma in particolar modo dal 1989 con l’ascesa al potere di
Bashir, e l’impatto per i cittadini non musulmani o musulmani non estremisti considerati apostati. Il
terzo paragrafo, che è anche la conclusione di questo studio, associa le moderne pratiche di
schiavitù all’elemento religioso islamico nella sua versione più estrema, che si interseca con le più
concrete motivazioni economiche e politiche, che da sempre spingono alla ricerca di manodopera da
sfruttare.
Le pratiche analizzate riguardano il contesto della seconda guerra civile terminata nel 2005 con la
firma del Comprehensive Peace Agreement. Come si discute in questo studio tuttavia, il pattern
delle milizie trabali prosegue in Darfur e la pace tra Nord e Sud del paese segue equilibri precari.
Ma è soprattutto l’applicazione del codice penale di cui si discute nel terzo capitolo, basato su
un’intepretazione delle Shari’a molto estrema che rende difficile pensare che queste pratiche
possano scomparire in maniera improvvisa e definitiva.
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CAPITOLO 1
“La tratta nel passato”
Il primo passo verso la comprensione della tratta odierna all’interno del Sudan, comporta necessariamente una breve
panoramica del fenomeno nell’antichità, per soffermarsi poi in maniera più approfondita sulle connotazioni che ha
assunto nei secoli XIX e XX. L’importanza di un percorso storico
risiede nella convinzione che i fenomeni contemporanei di schiavitù abbiano un elemento di forte continuità con il
passato, e che siano caratterizzati da un sistema che molto probabilmente non è mai sparito in maniera definitiva.
1.1 La tratta degli schiavi dall’antichità alla fine del XVIII secolo
Dall’inizio della tradizione scritta e indubbiamente anche da prima, vi è stato un commercio in schiavi attraverso la
Valle del Nilo che si è diffusa nel Mar Rosso e nel Medio Oriente. Al tempo dei Faraoni la maggior parte degli schiavi
proveniva dalla Nubia
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e dall’Etiopia ed erano generalmente vittime di guerra, come l’Aida di Verdi dimostra
drammaticamente. Il controllo della Nubia rimase comunque sempre difficile e occorre tenere presente che per un certo
periodo fu proprio una dinastia Kushita
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a dominare l’Egitto.
Durante l’occupazione da parte dei Nabatei, dal II secolo d.C., la pratica schiavistica venne descritta da Erodoto in
maniera molto simile al baqt, il patto tra Arabi e la Nubiani stipulato nel VII secolo. Si parla di patto in riferimento ai
Nabatei poiché i contatti tra le due popolazioni consistettero nella creazione di un sistema di alleanze anche tramite una
politica di matrimoni interetnici. Con la parola baqt ci si riferisce più propriamente al trattato stipulato dagli Arabi con
la Nubia cristiana nel 652 d.C.; abbandonata l’idea di una conquista con la forza (gli Arabi giungono dopo la
conversione all’Islam nel VIII secolo, in seguito a guerre di espansione), il trattato impegnava entrambi in uno scambio
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Per quanto concerne la Nubia, gli scambi avvenivano con il regno di Kush. A cominciare dal Vecchio Regno (2700-2180 a.C.) le
attività economiche e politiche egiziane furono strettamente connesse a quelle della regione del Nilo Centrale, così come vi fu
un’influenza religiosa e culturale, anche nei periodi intermedi quando l’influenza egiziana diminuì. Nei secoli il commercio si
sviluppò, ed in particolare gli egiziani prediligevano oro e schiavi, che utilizzavano come servi domestici, concubine, e soldati per
l’esercito egiziano. I tentativi di penetrazione da parte egiziana furono molti, ma occorrerà aspettare il Nuovo Regno(1570- 1100
a.C.),con la ripresa del potere egiziano dopo il governo degli asiatici Hyksos, perchè Kush venga incorporata come provincia
egiziana governata da un vicerè. Benchè il governo effettivo si estendesse solo fino alla quarta cataratta, l’elenco dei distretti
tributari arrivava al Mar Rosso e a monte della confluenza dei fiumi Nilo Bianco e Nilo Blu. Le autorità egiziane si assicuravano la
lealtà dei capi locali arruolando i loro figli come paggi nelle corti reali, ma si aspettavano in cambio tributi in oro e schiavi dai capi
locali. In Helen Chapin Metz,(1991) Sudan: A Country Study , ed. Washington, DC: Federal Research Division of the Library of
Congress.
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Nell’undicesimo secolo a.C., l’autorità del Nuovo Regno diminuì, e portò a divisioni di potere all’interno dell’Egitto e alla
diminuzione del controllo su Kush. Per trecento anni non si hanno informazioni sulle attività del regno, si sa comunque che nell’VIII
secolo a.C. Kush riemerge come regno indipendente con sede centrale a Napata, con una linea aggressiva che mirava ad estendere il
proprio potere sull’Egitto. Nel 750 a.C. circa l’Alto Egitto fu conquistato da parte del re kushita Kashta e diventò re di Tebe
fondando una dinastia che durò per cent’anni. L’attività di conquista venne estesa anche alla Syria e questo fu causa di uno scontro
tra le due regioni. Quando i Syriani in rappresaglia invasero l’Egitto, l’ultimo faraone kushita fece ritirata verso Napata, dove
continuò a governare Kush ed estese il proprio dominio a sud e a est, divenendo nota con il nome di Meroe. In Helen Chapin
Metz,(1991) Sudan: A Country Study , ed. Washington, DC: Federal Research Division of the Library of Congress.
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