Questa situazione aveva a corollario alcuni effetti impliciti. Il più rilevante,
naturalmente, era la capacità di controllo: essendo molto limitati i punti di
emissione, non risultava difficile controllarli ed omologarli. Il processo di
agenda setting è sempre stato in grado di definire con buona precisione quali
temi dovevano essere messi all’attenzione dell’opinione pubblica e quali non
dovevano. L’attento lavoro degli uffici stampa consentiva di intervenire sul
flusso depurando, correggendo, filtrando. La cultura è costruita sulla base delle
informazioni messe in circolo poiché il 99% della cultura di un individuo (e per
esteso di un gruppo sociale) non è di prima mano, non è basata su
esperienze dirette.
I Mass Media erano la verità. La verità mediata attraverso cui un Paese
costruiva la sua visione del mondo, le sue regole, i suoi comportamenti sociali.
Ed era una verità pulita, asettica, che nessuno poteva mai mettere in
discussione: per avere accesso ai grandi media (e quindi al pubblico) la strada
era complicata da mille barriere ed una volta dentro, le regole da seguire erano
ferree. Il pubblico si raggiungeva tramite investimenti, il pubblico era audience
e quindi fonte e causa del reddito che permetteva la sopravvivenza della
televisione o del giornale. Con un po’ di provocazione potremmo dire che la
visione del mondo, i miti, le mode ed i punti di riferimento erano costruiti su
un budget. Se l’immaginario di molti italiani comprende la D’Eusanio e le
ragazze di “Non è La Rai”, è perché in una stanza in cui si sommavano numeri
qualcuno ha stabilito che producessero ascolti più alti.
Era un modello pulito ed impersonale. Laddove esigenze particolari non erano
pianificate appositamente per produrre eccezioni (mi riferisco allo pseudo
italiano di Biscardi), in televisione tutti parlavano un italiano standard, avevano
una dizione curata ed un tono formale. Sui giornali e sulle riviste la scrittura
era curata e sottomessa a regole di stile. Questo non si dice, questo non si fa.
Una finestra rassicurante sul mondo in cui alcune immagini non si vedevano,
altre avevano il bollino rosso, altre ancora erano lì per tutti. Un racconto a
poche voci in cui i contenuti venivano vagliati e ripuliti.
Ma facciamo due passi indietro nella storia degli strumenti di comunicazione.
Peppino Ortoleva, studioso di storia e teoria dei mezzi di comunicazione, nel
13
suo libro “Mediastoria” individua quattro periodi “esplosivi” negli ultimi due
secoli, in cui si sono addensate e sovrapposte l’una all’altra le innovazioni nel
campo della comunicazione:
1. 1830-’40: sperimentazione del telegrafo, introduzione del francobollo e
delle tecniche di fotografia;
2. 1875-’95: nascono la linotype, le macchine di piegatura veloce dei
giornali, la macchina da scrivere, il fonografo, il grammofono, il
cinema, il telefono, la telescrittura e la radiotelegrafia;
3. 1920-’35: compaiono la stampa a rotocalco, la telegrafia, la
fotocopiatrice, si sviluppano le reti di radiodiffusione circolari, si
attuano le prime sperimentazioni televisive, il cinema sonoro ed a
colori;
4. quello che stiamo vivendo.
Uno dei molti effetti della televisione sulla radio è stato quello di trasformarla
da medium di svago in una specie di sistema nervoso di informazione: i
notiziari, i segnali orari, le informazioni sul traffico ed i bollettini
meteorologici hanno ora la funzione di accentuare l’originario potere di
coinvolgere le persone. Medium caldo che tocca intimamente, personalmente,
quasi tutti, in quanto presenta un mondo di comunicazioni sottintese tra
l’insieme scrittore-speaker e l’ascoltatore. E’ questo il suo aspetto immediato:
un’esperienza privata.
La radio fornì la prima grande esperienza di implosione elettronica, cioè di un
totale capovolgimento degli indirizzi e dei significati della civiltà occidentale
alfabetizzata. Inizialmente forte fu il suo potere di ritribalizzare l’umanità, di
capovolgere quasi istantaneamente l’individualismo nel collettivismo. Oggi
essa offre ancora lo stretto legame tribale che deriva dal mondo del mercato,
della canzone e della risonanza ma nello stesso tempo, e soprattutto, la privacy
dell’uso individuale e privato.
In quanto medium freddo la Tv, a parere di molti, ha introdotto nella politica
una specie di “rigor mortis”: è il livello straordinario di partecipazione del
pubblico a questo medium che spiega la sua incapacità di affrontare argomenti
14
scottanti.
Le tecnologie determinano un’amplificazione piuttosto esplicita dei singoli
sensi: la radio è un’estensione dell’udito, la fotografia della vista… Ma la Tv è
soprattutto un’estensione del tatto che implica un minimo di azioni reciproche
tra tutti i sensi.
Per l’uomo occidentale però, l’estensione onnicomprensiva era avvenuta con la
scrittura fonetica che è una tecnologia per estendere la vista: essa è la sola che
possa separare e frammentare i sensi nonché superare le complessità
semantiche. Tutte le forme di scrittura non fonetica sono invece modi artistici
che conservano una grande varietà di orchestrazione dei sensi. La forma a
mosaico dell’immagine televisiva esige partecipazione e coinvolgimento in
profondità dell’intero essere, come il senso del tatto, per trasformare estensioni
frammentate e specialistiche in una rete compatta di esperienze. Viceversa
l’alfabetismo, estendendo il potere della vista all’organizzazione uniforme del
tempo e dello spazio, sul piano psichico come su quello sociale, apportò una
capacità di distacco e di non coinvolgimento. Dunque la Tv è un medium
tattile-auditivo che richiede una reazione creativamente partecipazionale ad un
particolare fatto o evento proposto.
Internet ha progressivamente sconvolto tutto questo. Ci sono voluti alcuni anni
ma il sogno di Tim Berners-Lee (informatico inglese co-inventore, insieme a
Robert Cailliau, del World Wide Web) di creare uno spazio in cui tutti
potessero scrivere e leggere con la stessa facilità si è realizzato. Non è più una
questione di strumenti ma di una piccola variazione procedurale che, per il
semplice fatto di coinvolgere attivamente milioni di persone, ha modificato alla
base la costruzione di una visione sociale collettiva.Prima avevamo dei
mediatori con la patente, oggi in Rete abbiamo i materiali grezzi, i mattoni
dell’immaginario, buttati lì alla rinfusa. Anche i materiali mediatici, piccole
costruzioni senza alternativa fino a pochi anni fa, oggi sono solo ulteriori
contributi alla costruzione. Siamo noi che dobbiamo mediarci la nostra realtà e
non c’è bisogno di conoscerne le regole, non si tratta di questo. Occorre
saperne interpretare il linguaggio.
Il potere della comunicazione (mediale) deve essere considerato in termini di
15
influenza mediata, anche nel caso degli effetti a lungo termine sui processi di
costruzione della realtà. La loro influenza oscilla tra l’importanza che hanno le
“autorità” (oggi gli opinion leader) del proprio circolo primario nella
formazione delle opinioni di ciascuno e tra la rilevanza dei media quando
riescono ad adottare simboli e stereotipi già presenti ed attivi nella mentalità
dei propri lettori o spettatori. Naturalmente l’influenza tende ad aumentare in
periodi in cui i valori dominanti in una società o in determinati gruppi sociali
sono in crisi, quando le “autorità” (ad esempio la classe dirigente) sono
screditate, cioè nei periodi di transizione.
La transizione da una società delle telecomunicazioni, in cui una significativa
quota di esseri umani è nella condizione di produrre e di fruire ogni possibile
informazione attraverso una molteplicità di mezzi di comunicazione, ad una
società telematica incentrata sul prefisso e-, corrispondente alla possibilità data
ad ogni produttore ed a ogni fruitore di informazioni di dialogare e di
scambiarsi i ruoli, in quanto elementi di una rete indefinitamente estensibile
nella quale possono collocarsi una molteplicità di mediatori con l’intento di
fornire ogni possibile servizio, si sta compiendo.
La società telematica ha le sue infrastrutture nella Rete ed ha sviluppato un
ambiente nel cyberspazio che, ormai, è una possibilità aperta a tutti: possiamo
anche non frequentarlo mai ma non possiamo evitare di sapere che esiste e che
la vita, al suo interno, è ricca di opportunità e di occasioni.
Entrando in Rete, da qualche tempo, la sensazione è quella di avere accesso ad
una stanza quasi infinita e piena di persone che parlano ognuna per conto
proprio. È la complessità toccata con mano, la nostra. Non abbiamo più
mediatori che fanno il lavoro per noi: dobbiamo “rimboccarci le maniche” e
mettere ordine, capire, farci delle idee. Certo, potremmo rifiutare la sfida e
spegnere il computer. Tornare al nostro rassicurante Telegiornale e dimenticare
che lì fuori c’è qualcuno che amplia, discute ed approfondisce o critica il
racconto di tre minuti che la televisione dedica alle elezioni americane o al
tema di turno. Ma è una scelta perdente: il mondo oggi è questo anche se
manteniamo gli occhi chiusi. L’alternativa è faticosa ma probabilmente l’unica
possibile: Internet sta segnando il passaggio dal “dato” al “metodo”. E chi ha
16
metodo, vince.
È la realizzazione pratica del passaggio dal cittadino informato (participio
passato, voce verbale passiva) al cittadino monitorante (participio presente,
voce verbale attiva), teorizzato dal sociologo Michael Schudson. Gli equilibri
basati sulle tecnologie e sulle capacità cognitive umane si ridisegnano per
definizione in ogni istante.
Non è certamente più possibile raccontare i processi di elaborazione delle
coscienze collettive (le “culture”, le “società”) senza tenere conto della
presenza pervasiva di un luogo di confronto pubblico, che agisce
trasversalmente su tutti i settori ed i campi dell’attività umana. Se da un lato la
Rete sta raccogliendo la sfida di dominare ed organizzare la complessità,
dall’altro i settori più tradizionalisti stanno cominciando ad accettare che c’è
una nuova avventura pronta anche per loro e che, con o senza buona volontà, il
termine informazione sarà spiegato sempre più attraverso connotazioni
personali e sempre meno attraverso i concetti di massa e di messaggio. E
poiché è sull’informazione (e quindi sulla conoscenza) che si costruiscono le
cose del mondo, la sfida è aperta per tutti noi. Non ci resta che raccoglierla o
far finta di niente.
17
CAPITOLO 1
Il modo in cui il mondo viene immaginato determina in ogni momento il
comportamento dell’uomo. Non determina quello che gli uomini
conseguiranno: determina i loro sforzi, i loro sentimenti, le loro speranze ma
18
non le conquiste ed i risultati.
Walter Lippmann
La storia delle democrazie è storia di una battaglia contro la complessità.
Sebbene non vi sia un nesso chiaro di causa ed effetto, è comunque rilevante
che la democrazia ateniese, nel V secolo a.C., abbia trovato il suo punto di
maggiore splendore proprio mentre si realizzava la prima rivoluzione
mediatica. Fu proprio in quel periodo che la scrittura, inventata secoli prima,
cominciò a diffondersi. In fondo le leggi, per essere condivise, dovevano essere
scritte ed essere trasparenti. Anche la credibilità politica passava per la
trasparenza e questa (come il controllo, altro diritto democratico), passa
attraverso l’informazione. Lo stesso Tucidide racconta che Pericle aveva
fondato l’autorità politica sulla sua trasparente incorruttibilità.
La complessità, che si traduce sempre in un problema di gestione delle
informazioni, diventa il primo nemico della democrazia. Diventa l’argomento
principale su cui si appoggiano le posizioni antidemocratiche, a partire
dall’anonimo oligarca autore della Costituzione degli ateniesi in poi.
Il governo della moltitudine appariva disordinato e caotico. Venivano invocati
principi di efficacia che passavano attraverso canoni di semplicità. Era
l’information overload degli antichi: troppe opinioni, troppi punti di vista,
troppe informazioni da considerare.
Nel passaggio dalla polis alle repubbliche, con la crescita dei numeri, la
soluzione migliore che venne trovata fu la democrazia rappresentativa ovvero
l’esistenza di alcune persone delegate a decidere per conto dei cittadini, che
però godevano di uno scarso potere di intervento: potevano influire solo a
posteriori con il voto. E non partecipare alle discussioni.
Il problema della sovrabbondanza di informazioni da gestire influisce sul
funzionamento della democrazia anche da un altro punto di vista. Le decisioni,
tutte le decisioni, sono il risultato delle informazioni di cui si dispone al
momento. Oggi, semplificando al massimo, chi governa non ha informazioni
su come la pensano i cittadini che rappresenta, se non attraverso sintesi
statistiche che sono però anch’esse opinioni (e non dati). Ed il cittadino, al
19
momento di prendere le sue decisioni per il voto, non ha (quasi mai) tutte le
informazioni di cui potrebbe (e dovrebbe) disporre. Moses Finley, storico
statunitense di origine russa, già nel 1972 scriveva: “Il punto è stabilire se nella
situazione odierna questo stato di cose è necessario e auspicabile o se le forme
nuove di partecipazione popolare, ateniesi nello spirito se non nella sostanza
-se così mi posso esprimere- devono invece essere inventate”.
Queste nuove forme di partecipazione popolare, direi che possiamo affermarlo,
oggi ci sono.
Se accettiamo questa lettura, esistono una serie di approcci (più) facili che però
non pagano fino in fondo:
a) probabilmente il vero dato non è la capacità di utilizzare la Rete per fare
propaganda. E’ abbastanza noto che la Rete non è un luogo per la
comunicazione politica in cui l’obiettivo possa essere vincere con il 50% +1.
Questo stesso approccio è stato già provato e scontato sul piano della
comunicazione commerciale. Internet non è un luogo di marketing, sebbene il
marketing sia un approccio possibile e probabilmente il più facile da
immaginare.
b) con ragionevole probabilità il vero dato non è nemmeno la presenza dei
politici in Rete. Se accettiamo il fatto, abbastanza incontrovertibile, che
Internet è un medium discorsivo, il weblog di un singolo politico (o di tanti
politici) non modifica realmente lo scenario.
Aggiunge probabilmente trasparenza alla sua personale attività politica e se ben
utilizzato (come ha fatto nelle primarie più il senatore John Edwards che non
Howard Dean) può diventare un grandissimo strumento organizzativo. In Italia
è un po’ più complicato raccogliere fondi ma con uno staff capace si può
organizzare il sostegno (sia a livello di opinione che di manodopera) e come
hanno dimostrato le elezioni americane, si possono ottenere importanti
endorsement. In ogni caso, il weblog di un politico è una voce che parla
esattamente come tutte le altre e che ottiene credito ed autorevolezza nella
misura esatta in cui è capace di incontrare altre visioni ed altre sensibilità. Se
infatti la Rete non è un luogo di marketing, è un luogo di reputazione.
In una prospettiva più generale però, il dato sostanziale viene da una
20
negazione: i weblog politici non esistono, di sicuro non come “punti deputati
alla discussione politica”. Esistono persone che parlano più spesso di politica e
persone che ne parlano con minore frequenza ma tutta la Rete (tutta, non solo
alcuni suoi nodi), essendo un luogo in cui si discute sul mondo e sulle cose che
vi accadono, è un luogo di discussione politica che gestisce informazioni utili a
creare, modificare e formare opinioni politiche.
Torniamo allo schema illustrato precedentemente:
a) chi governa non ha informazioni sugli individui che rappresenta (non sa cosa
desiderano, non conosce i loro problemi e le loro opinioni);
b) chi è governato non ha informazioni precise su ciò che fa (come e perché)
chi lo rappresenta. I media tradizionali non hanno spazio e tempi per raccontare
con la giusta complessità ciò che avviene nel mondo. Inoltre ci sono alcune
complicazioni strutturali (i più macroscopici: la par condicio per cui c’è
l’obbligo di dare in tre soli minuti notizia e panorama sulle opinioni di tutti i
soggetti politici o l’agenda setting che decide cosa raccontare e cosa non
raccontare). Ed infine non offrono possibilità di interazione, per cui non si può
rispondere, correggere, approfondire.
In un simile contesto, la Rete si sta installando come fattore trasversale:
21