Un legame particolare e strettissimo quello tra regista e compositore, antico e
durevole, che nel ricordo della moglie assume sfumature di una precisa intimità:
Mozart era il terzo lato del nostro matrimonio. […] Quando lavorava su Mozart era
felice e sereno in un modo del tutto particolare, un'esperienza artistica che lo
occupava in modo totale. Era in assoluto la personalità artistica che preferiva. Lo
chiamava "il mio angelo custode" […] Si riempiva di felicità ad ascoltarlo, ma anche di
una tristezza che gli faceva bene2.
Un rapporto che risale all'infanzia del regista, nato da una famiglia di
musicisti e cresciuto “in una casa in cui c'era sempre musica3”
I miei rapporti con Mozart sono antichi, risalgono all'infanzia. I miei primi anni, a
Trieste, sono stati accompagnati dai quartetti e dalle sonate di Wolfgang Amadeus, e
rappresentano il tessuto profondo della mia vita. Ma solo con la maturità, una certa
maturità, mi sono accostato a Mozart, nel teatro, e ho cercato di interpretare in forma
scenica il suo genio4.
Benché il teatro musicale di Mozart sia affrontato da Strehler solo cinque
volte nella sua maturità e in maniera meno continuativa e sistematica rispetto ad
esempio alle grandi stagioni della ricerca brechtiana, il musicista accompagna, in
maniera più o meno velata, tutta la carriera del regista, sia nel teatro lirico sia in
quello di prosa.
È significativo che la vita del primo stabile italiano, il Piccolo di Via Rovello, si
apra sulle note di una serenata di Mozart prima ancora che si alzi il sipario
sull'Albergo dei poveri di Gorkij, così come l'inaugurazione del Nuovo Piccolo,
teatro di prosa atteso per un ventennio, avvenga con una sua opera lirica
integrale, il Così fan tutte.
Figura chiave con cui Strehler ricerca continuamente un dialogo impossibile5
e genio musicale assoluto. Perché allora affrontarlo così tardi, con una scelta
apparentemente contraddittoria?
Si potrebbe pensare a una sottostima del teatro musicale di Mozart rispetto
2 Andrea Jonasson, Mozart, il suo dottor Freud, intervista di Maurizio Porro, “Corriere della Sera”,
26/01/1998, pag. 25.
3 Giorgio Strehler, Per un teatro umano, a cura di Sinah Kessler, Milano, Feltrinelli, 1974, pag.
205.
4 Giorgio Strehler, Rivista del Museo Teatrale alla Scala, n. 2, 1989.
5 Il regista in occasione del Don Giovanni 1987 arriverà persino a scrivere direttamente una
lettera a Mozart. Cfr. Giorgio Strehler, Fratello Mozart perdonateci, “Corriere della Sera”,
06/12/1987, pag. 17.
5
alle composizioni sinfoniche, ma anche le opere liriche sono considerate da
Strehler di valore assoluto, con la partitura orchestrale in grado di approfondire e
compenetrare il fatto drammatico in una continua integrazione. L'attesa andrà
quindi ricercata in una complessa serie di concause.
Mozart non fallisce un punto nella dimensione dello spettacolo. Là dove il testo è
troppo semplicistico, [...] lo rende estremamente complesso e profondo. [Per questo]
ho atteso lungo tempo prima di affrontare Mozart6.
Proprio questo continuo gioco di corrispondenze e di approfondimenti
reciproci tra musica e azione sarà la chiave interpretativa fondamentale per
comprendere il percorso strehleriano alla ricerca del processo di unificazione tra
golfo mistico e palcoscenico: la riforma radicale del teatro lirico che lo impegnerà
per tutta la sua carriera.
Del resto è la natura stessa dell'opera lirica a offrire numerosi stimoli alla
ricerca strehleriana, grazie alla sua particolare commistione estetica di parola,
musica e gesto, in grado di porre le basi per sfide registiche illimitate e
difficilmente risolvibili.
L'opera è un meraviglioso equivoco che si perpetua da secoli e che ha dato a noi
capolavori che ci accompagnano nel nostro cammino umano, ma che ciò nonostante
si porta sempre dietro certi suoi peccati d'origine. In me, teatrante, l'opera lirica ha
sempre lasciato una sua particolare “insoddisfazione” o infelicità, una sua impossibilità
di essere risolta tutta, completamente in musica e spettacolo, in musica e teatro7.
L'unione di musica e teatro era risolvibile solo con la strettissima
cooperazione di due forti personalità, dalle visioni difficilmente conciliabili: due
registi per un solo spettacolo, il regista e il direttore d'orchestra, costretti a
sacrificare il proprio egocentrismo per il fine superiore dell'Arte, realizzabile solo
con un'interpretazione comune, unitaria e coerente del Testo, latore della verità
ultima dell'opera.
[…] solo il testo possiede la verità. Il regista, come l'attore, come il direttore
d'orchestra, sono dei mediatori. La loro è una creazione a posteriori. Gli interpreti
hanno un solo dovere, quello di dare una realtà fisica, plastica, visiva, vocale, ad
un'opera che devono trasmettere8.
6 Giorgio Strehler, Per un teatro umano, cit, pag. 209.
7 Ivi, pag. 214.
8 Giorgio Strehler, Palchi da un milione Versailles per Mozart messo in scena da Strehler,
intervista di Lorenzo Bocchi, “Corriere della Sera”, 27/03/1973, pag. 13.
6
Strehler lotterà con un'intera generazione di direttori d'orchestra, tra cui
autorità internazionali del peso di Georg Solti e Herbert von Karajan, prima di
raggiungere questa unione ideale con Claudio Abbado e Riccardo Muti.
Un'epoca che svanisce però molto rapidamente per i contrasti con i circuiti
delle star internazionali; un'armonia che si perde col rifiuto delle modalità
produttive degli enti lirici. Alla fine degli anni ottanta per Strehler si chiudono per
sempre le porte di un mondo certamente popolato da divi capricciosi e palchettisti
snob, ma anche e soprattutto da direttori d'orchestra con le giuste affinità
intellettuali, gli unici collaboratori all'altezza di realizzare l'ideale Teatro d'Arte.
Il regista impiegherà i suoi ultimi dieci anni di vita nel tentativo di ricreare
quelle condizioni con un gruppo giovane e al di fuori dei grandi circuiti
internazionali. Una sfida lanciata al futuro, una scommessa in cui l'amato Mozart è
per l'ultima volta protagonista, compagno e sostegno di una svolta che voleva
essere epocale.
Se l'incontro con Mozart risale all'infanzia, Strehler lo porta però in scena
solo nel 1965, all'età di quarantaquattro anni.
Per un regista che ventiseienne era già presenza fissa alla Scala, è lecito
avanzare l'ipotesi che volesse maturare una solida esperienza nel teatro lirico
prima di approcciarsi all'amato compositore, in modo da poterlo nobilitare col
bagaglio accumulato in un ventennio di ricerca.
È d'altra parte altrettanto probabile che le politiche d'opera italiane non
offrissero l'opportunità di programmare in cartellone spettacoli di un autore fuori
moda, al quale si preferivano i contemporanei e il grand-opéra ottocentesco.
In effetti la prima regia mozartiana di Giorgio Strehler, la Entführung aus dem
Serail del '65, debutta all'estero, al Festival di Salisburgo, senza eco alcuna sulla
stampa italiana, e non giunge da noi fino al Maggio musicale fiorentino del '69, e
alla Scala solo nel '72.
La lunga attesa giova comunque al risultato finale: bisogna riconoscere a
questa regia il suo indubbio valore artistico, un vertice raggiungibile solo con
l'esperienza accumulata in vent'anni di carriera. Infatti oltre a diventare sin dal
debutto un classico e un metro di paragone per tutte le sue prove successive, Il
Ratto dal serraglio '65 porta già in sé a livello maturo tutti gli elementi che
7
caratterizzeranno l'intero corpus degli allestimenti mozartiani: importanza del gesto
attoriale e poetica delle luci su tutti.
La Entführung anticipa inoltre in maniera straordinaria le soluzioni del Così
fan tutte '98, l'ultimo atto che contemporaneamente chiude il suo percorso di
ricerca e la sua vita di uomo.
Strehler sviluppa parallelamente l'attività di regista lirico e drammatico, con
un impatto sulla cultura operistica italiana ingiustamente sottostimato rispetto ai
risultati raggiunti nel teatro di prosa.
Se al regista va riconosciuto il merito di aver introdotto il concetto di teatro
stabile in un Paese che pagava lo scotto di una forte arretratezza culturale rispetto
alla media europea, anche il suo intervento nelle modalità produttive del teatro
d'opera dev'essere collocato in un'ottica altrettanto innovativa.
La portata rivoluzionaria della sua Traviata alla Scala nel 1947 è riassunta
dal titolo in prima pagina della rivista Pattuglia: “Alla Scala si prepara una Traviata
senza precedenti9”.
La definizione giornalistica di Rubens Tedeschi è forse sproporzionata
rispetto ai risultati scenici effettivamente raggiunti in quell'occasione da Strehler,
ma ciò che segnava una svolta nella storia della lirica italiana era il semplice fatto
che un regista di prosa facesse il suo ingresso nel tempio conservatore dell'Opera.
Mi chiamò Ghiringhelli alla Scala ed era la prima volta che un teatro lirico italiano si
affidava a un regista, non a un direttore di scena, a un facitore di movimenti. Avevo
ventisei anni. La mia "Traviata" non ha avuto la risonanza di quella Visconti-Callas che
ha fatto una piccola parte di storia. Ma è stata importante. Feci recitare Margherita
Carosio e Tito Gobbi. Da allora, è cominciato il mio lavoro nella lirica: cinquanta
opere10.
Proprio quella che oggi sembra un'annotazione banale, l'aver fatto “recitare”
dei cantanti, era all'epoca una novità eccezionale in grado di segnare un punto di
rottura con la tradizione; con Strehler si pretendevano per la prima volta da tenori
e soprani delle prestazioni da veri e propri attori, quando per contro la gestualità
convenzionale si limitava agli stereotipi “affetto – mani al cuore; disperazione –
9 Rubens Tedeschi, Alla Scala si prepara una Traviata senza precedenti, “Pattuglia”, n. 3,
13/02/1947, pag. 1.
10 Giorgio Strehler, Muti – Strehler, felici, intervista di Guido Verga, “la Repubblica”, 09/12/1987,
pag.24.
8
braccia al cielo”11.
Il lavoro alla Scala si sviluppa negli anni successivi di pari passo con quello
al Piccolo Teatro, introducendo a poco a poco le novità della regia d'autore
all'interno di produzioni tradizionali, senza alterare troppo l'impianto complessivo
dell'opera: il pubblico scaligero non avrebbe tollerato scelte troppo eclatanti e
l'equilibrio tra recitazione, canto e scena andava calibrato minuziosamente.
Il percorso di rinnovamento trovava però terreno ostile se dopo quasi un
decennio di lavoro ininterrotto alla Scala, nel 1955, in occasione dell'allestimento
de Il matrimonio segreto di Cimarosa, il suo ruolo di regista veniva ancora definito
da Orio Vergani quello di “collaboratore scenico”12, con un richiamo alla
terminologia tradizionale della regia anonima propria del Ventennio.
La collaborazione con la Scala continua ininterrottamente fino al Fidelio del
1990, anno in cui il regista taglia radicalmente con le modalità produttive dello star
system e si avventura nel tentativo di una rifondazione da zero del teatro lirico al di
fuori dei grandi circuiti internazionali.
Alla base della rottura stavano due visioni inconciliabili del vivere il teatro: per
le star dei grandi circuiti internazionali una serie di impegni vorticosi in un'agenda
sempre troppo piena da una capo all'altro del globo, per Strehler un continuo
lavoro di ricerca con un gruppo stabile che crea un legame indissolubile tra la
propria vita di uomo e il palcoscenico:
Ho sempre considerato il teatro come una metafora del mondo. So che c'è molto
teatro nella vita, e credo che la vita prema continuamente sul teatro. Guai se non
fosse così. […]. Il teatro è una funzione sacerdotale, l'uomo di teatro è come un prete.
Un prete autentico dev'essere pronto a fare dei sacrifici. […] Arrivato al punto in cui
sono, credo di aver sacrificato parecchie cose al teatro13.
Da questa visione del regista nasce la sua necessità di ricorrere a tempi di
prova lunghi, gli unici in grado di creare un gruppo affiatato e unito, non una serie
di primedonne abituate a replicare migliaia di volte lo stesso spettacolo, in maniera
sempre uguale, in teatri sempre diversi.
11 Rubens Tedeschi, art. cit.
12 Orio Vergani, “Corriere della Sera”, 18/12/55, in AA. VV., Giorgio Strehler alla Scala. 1947-
1997, a cura di Pasquale Guadagnalo, Milano, Edizioni del Teatro alla Scala, 1998, pag. 72.
13 Giorgio Strehler, Io Strehler, una vita per il teatro. Conversazioni con Ugo Ronfani, Milano,
Rusconi, 1986, pagg. 276-277.
9
[…] venticinque giorni di prove. Mettere in scena una compagnia di gente che si
conosce appena, farla muovere, cantare, recitare in così poco tempo significa poter
realizzare solo in parte ciò che deve essere il teatro d' opera moderna, dove la voce
resta il fattore più importante, ma non si può prescindere dalla recitazione. E costa
fatica14.
All'interno di modalità produttive dai tempi ristrettissimi era impossibile per
Strehler raggiungere risultati di sufficiente 'attorialità' nei cantanti, ma la carenza
del gesto non era l'unica condizione a venir meno: per creare un vero teatro d'Arte
fruibile da ampi strati di pubblico anche le modalità distributive dovevano cambiare
radicalmente.
Gli ingenti investimenti degli enti lirici davano vita a spettacoli di alto livello,
ma con un numero limitatissimo di repliche, dovuto agli impegni internazionali dei
cantanti. Tale sistema, oltre a essere antieconomico, permetteva la fruizione della
lirica solo per un ristretto numero di fortunati.
Una distribuzione di lunga durata avrebbe invece permesso, oltre alla
dilatazione dei tempi di ammortamento, anche una fruizione da parte di fasce più
ampie di pubblico, continuando nel mondo lirico la democratizzazione già messa
in atto dal sistema degli stabili di prosa.
Il percorso mozartiano, iniziato fuori dal sistema italiano, si conclude a Milano
con una scommessa azzardata: il Così fan tutte della svolta chiamato a inaugurare
la sede del Nuovo Piccolo Teatro, la lirica in una sede di prosa, con le modalità
produttive e distributive del teatro drammatico.
L'ultima scelta di Strehler apriva prospettive inedite e coraggiose nel
panorama internazionale. Una sfida lanciata al futuro, il primo passo per un vero
teatro lirico d'Arte, popolare, per tutti.
14 Giorgio Strehler, Muti-Strehler, felici, cit.
10
Le regie liriche prima degli allestimenti
mozartiani (1947-1964)
Milano, 6 marzo 1947. La traviata di Giuseppe Verdi inaugura l'attività di
Giorgio Strehler al Teatro alla Scala, a un anno dalla sua prima prova lirica1.
L'evento è eccezionale non tanto per scelte registiche provocatorie o di
rottura, destinate per il momento a rimanere intenzioni programmatiche, bensì dal
fatto stesso che un regista affermato nel teatro di prosa sia chiamato a portare la
propria esperienza nel particolare mondo della lirica.
È oggi difficile cogliere la novità della Traviata '47, abituati come siamo a
vedere in cartellone prove intellettualizzanti e fintamente provocatorie, destinate a
un pubblico incapace di cogliere l'attualità di un testo senza vederselo palesato,
tra un Flauto magico ambientalista2 e decine di Don Giovanni in giacca e cravatta.
Tuttavia, in tempi lontani da quel debutto e in un mondo certamente
cambiato, è lo stesso Strehler a darci la misura innovativa del suo allestimento:
1 La Giovanna d'Arco al rogo di Arthur Honegger, andata in scena al Teatro Lirico di Milano nella
Stagione dei Concerti sinfonici di marzo-aprile, il 19 marzo 1946.
2 Die Zauberflöte, regia Jean-Louis Grinda, Grimaldi Forum di Montecarlo, stagione 2008/2009, in
cui Papageno diventa un paparazzo e Sarastro uno scienziato in una base al Polo, istituendo un
parallelo tra la massoneria e la scienza, entrambe viste in chiave attuale come missioni
salvifiche per l'umanità.
11
È una cosa abbastanza comune che i registi di prosa in questi ultimi venti, venticinque
anni facciano anche dell'opera lirica. Quando io ho cominciato a fare il Piccolo Teatro
era invece una cosa assolutamente straordinaria: il teatro lirico viveva una sua vita
molto particolare e non si avvaleva del lavoro e dell'apporto dei registi di prosa. Credo
anzi di essere stato storicamente forse il primo in Italia; il primo regista di teatro
drammatico che abbia allestito un'opera alla Scala3.
Il regista, ventiseienne ma con già una solida reputazione nel teatro
drammatico, fa il suo ingresso in questo ambiente così peculiare dalla porta
principale, nel tempio dell'opera italiana, con una tempistica che precede persino
l'inaugurazione del Piccolo4, sebbene di pochi mesi.
Teatro esclusivo per le prove drammatiche resterà sempre la sede di Via
Rovello, così come il luogo di elezione per quelle liriche sarà per più di
quarant'anni la Scala, fino alla rottura segnata dal Fidelio 1990.
Ciò non significa che il rapporto con la Scala fu esclusivo, come non lo fu
quello col Piccolo, - basti citare le esperienze alla Biennale di Venezia, oppure il
Gruppo Teatro e Azione dal '69 al '72 - ma la ricerca del regista si mosse sempre
tenendo presente i luoghi 'stabili' della sua Milano.
Milano, cui ho dedicato il novanta per cento delle mie energie teatrali sprigionatesi tra
Via Rovello e Piazza della Scala5.
La Traviata del '47 indica comunque già un'impronta precisa del lavoro
registico futuro; se non nella forma, certamente nella chiave interpretativa
attribuita al testo:
Un regista può fare due cose: mettere in scena il dramma secondo la concezione che
egli ne ha; la Traviata, per esempio, è un dramma sociale in cui diverse concezioni
della vita e della morale, quella del padre e quella di Violetta cozzano, mentre Alfredo
ondeggia, incerto e smarrito tra loro. Il regista può creare questo ambiente e, senza
forzare, naturalmente, il testo, mettere in luce questo significato che la convenzione
lirica generalmente trascura6.
Ben conscio di non poter attuare la propria visione in maniera troppo
3 Giorgio Strehler, Prossimamente Strehler, intervista video Rai, 1976.
4 L'inaugurazione avviene il 14 maggio 1947 con L'albergo dei poveri di Gorkij.
5 Giorgio Strehler, Strehler: “ Che mistero il Don Giovanni!”, intervista di Maurizio Porro, “Corriere
della Sera”, 05/12/1987, pag. 24
6 Giorgio Strehler, Alla Scala si prepara una Traviata senza precedenti, intervista di Rubens
Tedeschi, “Pattuglia”, n. 3, 13/02/1947, pag. 1.
12
radicale, Strehler precisa subito la necessità di adattarla alle modalità proprie della
tradizione scaligera
Alla Scala questo costituirebbe però una rivoluzione tale da terrorizzare il
tradizionalismo degli abbonati. Al regista rimane quindi il secondo compto [sic], più
modesto, ma non volgare. Cercare almeno di ripulire l'esecuzione da quanto di trito e
di convenzionale gli anni vi hanno accumulato: costituire una scena più “vera”, che
possa essere goduta anche dal pubblico delle gallerie, […] che realizzi l'atmosfera
intima del dramma7.
È proprio questa attenzione nei confronti del “pubblico delle gallerie” in un
teatro che tradizionalmente non ne aveva tenuto troppo conto ad anticipare, in
embrione, il progetto irrealizzato dei suoi ultimi anni di vita: la volontà di riformare il
teatro lirico in senso popolare, coerentemente con la scelta di creare al Piccolo un
“teatro d'Arte, per tutti”.
Del resto, sempre in questa breve intervista, il regista prefigura già gli ostacoli
che incontrerà nel suo percorso riformatore, le difficoltà intrinseche al sistema
produttivo del teatro lirico che l'accompagneranno per gran parte della carriera: la
scarsa attitudine dei cantanti ad essere anche attori credibili e la sistemica
inconsistenza del periodo di prove.
[…] coristi perfetti dal lato vocale non sanno spogliarsi da quella serie di movimenti
stereotipati che costituiscono l'incrollabile tradizione della scena lirica: affetto – mani al
cuore; disperazione – braccia al cielo. Fuori di qui non si va. Gli artisti stessi sembrano
ormai affondati in questa carreggiata da cui stentano a liberarsi. […] Di più le prove
sono poche di numero e di durata, per evidenti ragioni di spesa, e manca il tempo per
realizzare quanto si vorrebbe […] si potrebbe fare infinitamente di più e si deve
limitarsi invece a ripulire, a levare le scorie8.
Sebbene la formazione attoriale dei cantanti non fosse in grado di rinnovarsi
fino almeno alla generazione seguente – e oltre se si confrontano gli sfoghi del
regista per le Nozze di Figaro del '73 –, Strehler già a partire dalla sua seconda
regia alla Scala comincia a proporre un repertorio più vicino al suo parallelo lavoro
al Piccolo: nel dicembre seguente porta infatti in scena L'amore delle tre
melarance9, la favola di Prokofiev ispirata al canovaccio di Carlo Gozzi, che gli
7 Rubens Tedeschi, Alla Scala si prepara..., cit., pag.1
8 Ibidem.
9 Debutta il 30 dicembre 1947. Nella stagione 1974-75 riporterà in scena quest'opera con un
impianto scenico rinnovato in chiave costruttivista.
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