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condurlo in uno stato di estasi mistica, portandolo sullo stesso livello
della potenza (divina) produttrice di questo sentimento.
Dopo secoli di silenzio, il sublime rivive e giunge in Inghilterra sul finire
del diciassettesimo secolo, grazie alla traduzione del francese Nicolas
Boileau (1674), e trova proprio in Burke uno dei suoi principali
teorizzatori.
Il primo capitolo di questo lavoro è quindi dedicato ad un’attenta analisi
del testo burkeano e in particolare di quell’aspetto che così
specificamente lo caratterizza e cioè il legame del piacere col terrore. Il
sublime burkeano è infatti tutto ciò che è terribile o che è ad esso in
qualche modo associato; è ciò che desta un senso di pericolo e di
orrore, pur senza minacciare in modo diretto e concreto; è ciò che
invade la mente e procura un senso metaforico di annichilimento e
morte; ed è anche ciò che allo stesso tempo procura un piacere di tipo
particolare. Esso non conduce all’estasi, come in Longino, ma provoca
un annientamento e un depotenziamento, metafora dell’esperienza
della morte, il quale produce un brivido di piacere causato dal fatto di
non essere mai direttamente e concretamente minacciati.
Si è voluto analizzare anche la parte riguardante il bello, allo scopo di
sottolineare le differenze di questa qualità nei confronti del sublime e
della diversa esperienza estetica che ne deriva. Si è ritenuto
interessante inoltre dimostrare come in quest’autore la concezione
classica della bellezza venga fondamentalmente criticata o comunque
pensata in modo diverso.
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Una teoria così originale, sviluppata peraltro tramite metodi d’indagine
altrettanto originali (mediante anche un’analisi psico-fisiologica) ha
destato in me la curiosità di sapere se e in che modo, all’epoca di
Burke, l’argomento “sublime” fosse stato trattato da altri autori.
E’ nato così lo studio di un testo veramente poco noto, scovato quasi
per caso durante le mie ricerche bibliografiche: Del Bello e del Sublime
(1810) di Ignazio Martignoni, intellettuale comasco. Data la scarsa
diffusione del testo, la bibliografia critica è pure piuttosto scarsa, ma si
è tentata comunque un’analisi, giustificata anche dal fatto che si tratta
di una delle pochissime opere italiane sull’argomento di quel periodo.
Dall’esame di quest’opera è scaturito un interessante confronto con il
testo burkeano, che lo stesso Martignoni ammette di conoscere e di
ritenere, fino a quel momento, il più autorevole in materia.
Anche questo autore italiano dedica una parte della sua trattazione
all’analisi dell’origine e della natura del bello, identificandone il principio
costituente nei concetti di armonia, simmetria, ordine e proporzione e
dimostrandosi così, al contrario di Burke, ancora fondamentalmente
legato alla concezione tradizionale della bellezza classica. Non
mancano però in questo testo spunti di modernità: nel bello viene fatto
rientrare anche il concetto di varietà e il senso della rovina, ma è nella
sezione dedicata al sublime che Martignoni si rivela più moderno. In
accordo con Burke, considera il sublime ciò che eleva, trascende,
tende all’infinito. Ciò che rende peculiare la sua teoria rispetto a quella
di Burke, è il collegamento diretto dei concetti di vastità e infinità (in
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entrambi cause del sublime) all’idea di Dio, considerato quest’ultimo
l’oggetto sublime in assoluto. Ecco perché ciò che si manifesta in un’
esperienza sublime è da Martignoni definito un “religioso terrore”.
L’attrito più grande tra i due autori si verifica nell’ambito della
definizione della relazione tra il bello e il sublime. Fondamentalmente
distinti e incompatibili in Burke, in Martignoni questi due concetti
vengono avvicinati dal fatto di tendere allo stesso scopo:
“l’egregiamente perfetto”. Pur trattandosi di due sentimenti di indole
profondamente diversa, il bello ha in sé la possibilità di elevarsi e
giungere proprio al grado di sublime.
Il concetto di piacevole terrore voleva essere l’elemento conduttore
dell’intero lavoro, e dato il mio interesse per gli scenari naturali e il
paesaggio, ho deciso di dedicare il secondo capitolo ad uno studio di
questo concetto in relazione a determinati luoghi naturali e alla storia
del loro apprezzamento estetico.
Ho così cercato di applicare la teoria burkeana del sublime
all’esperienza estetica che l’uomo può vivere durante la
contemplazione di paesaggi estremi, tracciando (in base ad una
bibliografia selezionata) la storia e l’evoluzione del gusto per questi
scenari “insoliti” e così distanti dall’ideale classico della bellezza.
Si è trattato di un compito anche interpretativo, in quanto Burke nella
sua Enquiry fa solo un piccolo accenno al sublime naturale; credo però
che la sua teoria sia perfettamente applicabile anche in questo ambito,
e cercare di dimostrarlo, analizzando la reazione emotiva dell’individuo
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che si ritrova davanti ad oceani, deserti o montagne, è stato uno degli
scopi della tesi.
I testi-guida di riferimento sono stati alcuni autorevoli studi considerati
ormai dei classici, nello specifico Le Territoire du vide (1990) di Alain
Corbin per la parte relativa agli oceani e Mountain Gloom and
Mountain Glory (1959) di Marjorie Hope Nicolson per quanto
riguarda la montagna.
Per quanto riguarda i deserti, sulla base di testimonianze dirette,
sull’opera Quadri della natura (1808) di Alexander Von Humboldt e
sullo studio critico di uno studioso orientale, Yu-Fu Tuan, si è cercato
di dimostrare l’ambivalenza di questi luoghi estremi, i quali pur
essendo fortemente inospitali, acquistano dal diciassettesimo secolo in
poi un interesse, sia nel campo scientifico che nel sentire comune.
Per quanto concerne il mare, è stato analizzato il percorso che ha
portato da una originaria repulsione verso gli oceani e i litorali ad un
apprezzamento estetico, avvenuto a partire dall’inizio del Settecento,
che eleggerà questi luoghi fra i prediletti dagli artisti romantici. L’origine
della repulsione è da rintracciarsi nelle influenze culturali esercitate
dalle interpretazioni delle Sacre Scritture e dalle teorie cosmogoniche
elaborate dagli scienziati nel diciassettesimo secolo, le quali,
presentando considerazioni fortemente negative riguardo il Diluvio
Universale e le conseguenze che esso ebbe, certo non
predisponevano alla formulazione di giudizi positivi nei confronti di
acque, mari e spiagge. Solo dal diciassettesimo secolo la prospettiva
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comincia a mutare, grazie alla diffusione della teologia naturale, ai
progressi nell’oceanografia e grazie ad alcuni artisti francesi ed
olandesi, tra i primi a concretizzare nelle loro opere le sensazioni non
più di repulsione ma di fascino che suscitavano questi luoghi. Le rive e
i mari divengono da questo momento in poi, “luogo di cura” per il corpo
e per la mente, territori illimitati che procurano un brivido che porta alla
contemplazione e al confronto dell’io con gli elementi.
Anche la montagna si è resa protagonista di una valorizzazione
estetica che l’ha portata a essere considerata da luogo inutile,
inospitale, infecondo, deforme, terrificante, a luogo per eccellenza del
sublime, simbolo del divino, dell’eternità e dell’infinità.
Attraverso le riflessioni e le esperienze di scienziati, esploratori, critici,
filosofi e artisti, il brivido provato al cospetto di queste grandiose opere
della natura diventa, sempre a partire dagli inizi del Settecento,
protagonista non più di un’esperienza solamente negativa, ma di un
piacere particolare, un terribile diletto, caratteristica principale del
sublime.
L’accento dell’intero secondo capitolo è stato posto in particolar modo
sulla dialettica finito – infinito (grazie soprattutto ai contributi molto
validi della critica contemporanea) e sull’ambivalenza delle sensazioni
(piacere – terrore) vissute durante le esperienze sublimi.
Sono state analizzate opere piuttosto note di autori del diciassettesimo
e diciottesimo secolo, lambendo solo di sfuggita il romanticismo, onde
evitare di sconfinare in un terreno che sicuramente in poche pagine di
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un capitolo non avrebbe trovato sicuramente il giusto spazio. Sono
state considerate le principali testimonianze di un nuovo sentire, di un
nuovo modo di percepire la natura e di considerarne gli aspetti più
selvaggi e inusuali, e proprio per questo, particolarmente significative
ai fini della mia analisi.
Un’eccezione è stata fatta per il romanzo Frankenstein (1818) di Mary
Shelley; le ultime pagine della tesi sono costituite infatti da
un’appendice, risultato di “un esercizio” che ha avuto come oggetto di
riferimento proprio questa estremamente nota opera.
La scelta è ricaduta su questo romanzo principalmente in quanto la
vicenda ha come scenario di sfondo le Alpi Svizzere e i ghiacci del
Polo Nord, luoghi quindi “del terrore”, e definibili sublimi. E’ inoltre
abbastanza palese il parallelo che è possibile tracciare tra il carattere
estremo dell’esperimento di Victor Frankenstein, evento scatenante
della storia, e le caratteristiche altrettanto estreme dei luoghi in cui
essa si sviluppa.
Dopo una premessa volta a contestualizzare l’opera narrativa
all’interno della corrente “gotica” nella quale si è soliti inserirla, ho
cercato di analizzare, attraverso alcuni studi recenti, il ruolo che
rivestono le descrizioni paesaggistiche presenti nel romanzo. Si è
palesata così la possibilità di considerare i paesaggi sublimi un
parallelo dello stato mentale dello scienziato, dalla cui contemplazione
egli ricava un certo conforto, ma anche una certa esasperazione; si
tratta quindi di una situazione nella quale solo paesaggi estremi si
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rivelano adatti a rappresentare adeguatamente il carattere lacerante
del dramma interiore che Victor si trova a vivere.
Si è voluto anche semplicemente analizzare testualmente i passi di
descrizione dei paesaggi più significativi del romanzo, prestando
particolare attenzione alla terminologia utilizzata dall’autrice, in quanto
fortemente rivelatrice per rispondere alla domanda se gli scenari in
questione potessero effettivamente essere considerati sublimi.
Ho costantemente cercato di tenere presente la dinamica della
fruizione del sublime secondo l’ottica burkeana, operando anche in
questo caso un confronto con le reazioni di Frankenstein, dato che
proprio il concetto burkiano di terrore ha voluto rappresentare una
sorta di filo conduttore per l’intera tesi, rivelandosi in alcuni frangenti
anche quasi una sfida, o comunque un interessate spunto di
riflessione.