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natura interna ed inferenziale, privata; non è una condotta, né si evidenzia con
comportamenti specifici.
Con il proseguire degli studi sull’empatia si è giunti ad un approccio di tipo
multidimensionale, sia in campo teorico che applicativo, che meglio riporta la
complessità di tale costrutto.
Negli ultimi anni, a causa delle mutate condizioni sociali, che portano a dover
gestire situazioni sempre più complesse, si è giunti alla consapevolezza e certezza
che la capacità di saper condividere i sentimenti altrui rappresenti uno dei
meccanismi più importanti che contribuiscono a regolare le relazioni sociali, la
comunicazione umana, lo scambio tra simili.
Anche in Italia quindi, seppur più recentemente rispetto ai paesi di lingua anglo-
americana, si è sentita l’esigenza di intensificare gli studi sull’empatia. Nel nostro
Paese i flussi immigratori negli ultimi quindici, vent’anni si sono intensificati, con
ripercussioni sia in ambito politico ed economico, sia in ambito psicosociale
(Albiero & Matricardi, 2006). Oggi vi si trovano a convivere culture diverse, che
devono fare i conti con le reciproche differenze culturali, le quali possono generare
pregiudizi che rendono complessa una pacifica integrazione delle diversità culturali.
L’empatia, perciò, avrebbe in questo senso un ruolo importante nel ridurre il
pregiudizio verso gli immigrati.
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CAPITOLO 1-L’EMPATIA
Stein (1917), parlando di empatia, dice che la gioia o la sofferenza della persona che
osservo non mi appartiene; il contenuto del suo vissuto emotivo lo sento
interiormente non come se fosse mio, ma lo accolgo dentro di me come emozione
dell’altro. Empatia quindi vuol dire allargare la propria esperienza (Boella &
Buttarelli, 2000).
Per meglio comprendere il significato dell’empatia può essere utile differenziarla da
altri processi, usati spesso come sinonimi, ma che descrivono in realtà fenomeni
diversi.
Una prima differenza da fare è quella tra empatia e simpatia. La simpatia non
implica di vivere vicariamente la stessa emozione di un’altra persona, anche se
spesso, come sostengono Eisenberg e Strayer (1987), è una conseguenza
dell’empatia. La simpatia implica, invece, il provare interesse o preoccupazione nei
confronti degli altri. E’ una risposta affettiva orientata al vissuto dell’altro. Si può
parlare, quindi, di un “sentire come” nel caso dell’empatia, e di “sentire per” nel
caso della simpatia (Albiero & Matricardi, 2006; Bonino et al., 1998).
Un’altra differenziazione da fare è quella con il concetto di role taking, ovvero la
capacità di mettersi nei panni dell’altro. Anche se all’interno del role taking si
possono identificare tre dimensioni, emozionale, percettiva e cognitiva, è la
presenza di quest’ ultima che permette forme di empatia più sofisticate. Il role
taking, quindi, è una componente dell’empatia, e di per sé non implica un
coinvolgimento affettivo (Albiero & Matricardi, 2006). A questo proposito Strayer
(1989; 1993) e Feshbach (1982) hanno sottolineato che avere una buona capacità di
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identificare le emozioni altrui non implica la loro condivisione, elemento invece
essenziale dell’empatia.
Gli aspetti cognitivi fungono perciò da mediatori.
Nella maggior parte dei modelli elaborati a partire circa dagli anni Ottanta si ha la
compresenza di aspetti affettivi e cognitivi; si parla quindi di modelli
multidimensionali. La prima autrice che si è orientata in questo senso è stata Norma
Feshbach. Nel suo modello prevale la componente affettiva dell’empatia, ma è
comunque un costrutto a più componenti, per l’esattezza tre, e sono: il
riconoscimento dei sentimenti, la capacità di assumere il punto di vista dell’altro e
la responsività emotiva. Le prime due fanno riferimento ad abilità cognitive, mentre
la terza componente è di tipo affettivo ed emotivo. Feshbach, quindi, combina le
componenti emotive con le capacità di comprensione sociale (Bonino et al., 1998).
C’è da dire però che l’autrice tratta ancora le capacità cognitive coinvolte
nell’empatia come costrutti monodimensionali, mentre è ormai riconosciuto il loro
carattere multidimensionale
Inoltre, per Feshbach l’empatia non può apparire prima del superamento
dell’egocentrismo, attorno ai 6 anni, in quanto perché vi sia empatia è necessario
che ci sia una chiara distinzione tra sé e l’altro. Infatti, per Feshbach non può esserci
empatia senza una chiara volontà del gesto empatico, e senza la consapevolezza
della prospettiva dell’altro (Albiero & Matricardi, 2006).
Autori successivi, che hanno considerato l’empatia in una prospettiva evolutiva,
definiscono empatici anche comportamenti che coinvolgono processi cognitivi più
semplici del role taking. Il modello di Feshbach non spiegherebbe così forme di
condivisione rudimentali che appaiono già nei primi anni di vita. Hoffman (1977)
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sostiene, infatti, che lungo lo sviluppo si manifestino diverse forme di empatia, e si
modifichino i tipi di mediazione cognitiva. Non è perciò indispensabile riuscire a
mettersi nei panni dell’altro.
Nel modello di Hoffman (2001), quindi, i processi cognitivi rivestono un ruolo
importante, ma non determinano di per sé l’esperienza empatica. Egli colloca
quest’ultima già nei primissimi giorni di vita, dove la dimensione affettiva ha un
ruolo predominante, mentre quella cognitiva è assente; si verificano solo reazioni
automatiche e involontarie. Con lo sviluppo i processi di mediazione cognitiva
diventano più maturi, permettendo una progressiva distinzione tra sé e altro, e con
essi si combinano diverse modalità di condivisione empatica, attraverso una
sequenza ben definita di tappe o stadi. L’empatia, quindi, è un’abilità che evolve.
Inoltre, l’esperienza dell’empatia può motivare a mettere in atto comportamenti di
tipo prosociale e cooperativi. Non a caso l’autore inserisce l’abilità empatica nel
quadro dello sviluppo morale (Hoffman, 1977).
Un’altra autrice che ha affrontato il tema dell’empatia in un’ottica evolutiva è Janet
Strayer (1987a). Anch’essa sostiene che durante lo sviluppo le componenti
cognitive si integrino con quelle affettive, dando forma via via a modalità empatiche
sempre più mature. A differenza di Hoffman, però, Strayer sostiene che perché ci
sia una vera esperienza empatica debba esserci una qualche forma di mediazione
cognitiva. Pertanto, non prende molto in considerazione forme rudimentali, come il
contagio emotivo, tipiche dei neonati, ma riconosce solo due forme di vera
condivisione empatica: la condivisione parallela, mediata da processi cognitivi
meno sofisticati, e quella partecipatoria, forma più complessa.
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Negli anni Novanta, Davis (1994) ha proposto un modello più ampio, che delinea
un quadro completo delle diverse reazioni empatiche. Egli offre un approccio
integrato, in cui aspetti affettivi e cognitivi concorrono nel definire i processi
empatici, e pone l’attenzione anche ai fattori interpersonali. L’esperienza empatica
porta a diverse reazioni, diversi tipi di comportamenti interpersonali (ad esempio
comportamenti prosociali o di disagio personale), determinati dalle interazioni dei
costrutti empatici (Albiero & Matricardi, 2006).
Recentemente gli studi in questo campo si sono intensificati, portando nuove
conoscenze. Vreeke e Van der Mark (2003) coinvolgono nel processo empatico un
importante aspetto, il contesto comunicativo in cui la risposta empatica si evolve.
L’empatia viene così vista come una risposta comportamentale ed emotiva adeguata
ai bisogni degli altri. Ovviamente sono coinvolti molti aspetti, tra cui le
caratteristiche del soggetto, i suoi vissuti affettivi ed emozionali e le caratteristiche
del contesto. Il contesto comunicativo, quindi, interviene nella regolazione del
mantenimento o del cambiamento delle risposte empatiche (Albiero & Matricardi,
2006). Questo aspetto, a mio parere, è molto importante, soprattutto se si pensa alla
possibilità di apprendere e poter dare risposte più adeguate dinnanzi alle necessità
che insorgono in nuovi contesti comunicativi, soprattutto avendo oggigiorno sempre
maggior contatto con culture diverse dalla propria.
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CAPITOLO 2-L’EMPATIA ETNOCULTURALE
Nonostante l’empatia sia un costrutto ormai da tempo conosciuto, solo recentemente
alcuni studiosi hanno volto lo sguardo sulle diverse forme che essa può assumere in
base a contesti specifici, come quello culturale ed etnico. Essendo l’empatia
etnoculturale un concetto nuovo nella letteratura psicologica, non c’è ancora una
terminologia precisa a riguardo. Genericamente, però, si parla di empatia culturale,
quando c’è capacità di provare interesse e accettare abitudini, pensieri,
comportamenti tipici di culture diverse dalla propria. Quando questa responsività
empatica si rivolge non solo a gruppi culturali diversi, ma anche ad etnie diverse
dalla propria, si tratta di empatia etnoculturale (Albiero & Matricardi, 2006).
Numerosi studi hanno rilevato che l’empatia riduce i comportamenti di tipo
aggressivo, e che promuove anche comportamenti di tipo prosociale (Sànchez-
Queija, Oliva & Parra, 2006). Feshbach a sua volta sostiene che l’empatia abbia un
ruolo importante nel promuovere le relazioni sociali di accettazione reciproca
(Bonino et al., 1998). E’ in quest’ottica, quindi, che l’empatia etnoculturale riveste
la sua importanza. Stephan e Finlay (1999), proprio in base a questa funzione
dell’empatia, discutono il ruolo che essa può avere nelle relazioni tra i gruppi etnici.
Come l’empatia può promuovere comportamenti prosociali, l’empatia etnoculturale
potrebbe ridurre i pregiudizi che si hanno nei confronti dei membri di etnie diverse
dalla propria (Albiero & Matricardi, 2006).
Quintano (1994) parla di ethnic perspective taking, riferendosi all’empatia
etnoculturale come ad un’abilità cognitiva a più livelli evolutivi (Wang et al., 2003).
Gli autori che hanno, però, delineato un quadro più completo e complesso di questo
costrutto sono Ridley e Lingle. Essi riprendono la concezione generale dell’empatia
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di Duan e Hill (1996), che consisterebbe in due componenti, una emotiva e una
intellettuale. Da qui, Ridley e Lingle, nel loro modello dell’empatia etnoculturale,
aggiungono una terza componente, costituendo così un modello trifattoriale
composto da una dimensione cognitiva, detta “intellettuale”, una emotiva e una
comunicativa. L’empatia intellettuale è definita come “l’abilità di comprendere il
pensiero e/o il sentimento di una persona diversa per razza o etnia”. Inoltre, è anche
l’abilità di percepire le differenze etniche e razziali, “vale a dire un ethnic
perspective taking” (Wang et al., 2003, p. 222). L’empatia emotiva riguarda
“l’attenzione ai sentimenti di una persona o più persone di un altro gruppo
etnoculturale, che permette di provare la condizione emotiva di un altro dal punto di
vista culturale della razza o dell’etnia di quello. Inoltre, fa riferimento alla risposta
emotiva di una o più persone di un altro gruppo etnoculturale” (ivi, p. 222). La
componente dell’empatia comunicativa è “l’espressione dei pensieri empatici
etnoculturali (empatia intellettuale) e sentimenti (empatia emotiva) verso i membri
di gruppi etnici o razziali diversi dal proprio. Questa componente può essere
espressa attraverso parole o azioni” (ibid.).
Wang e collaboratori (2003), attraverso vari studi sull’argomento, giungono alla
conclusione che le componenti dell’empatia etnoculturale potrebbero essere
comunque più complesse del modello proposto da Ridley e Lingle. Secondo Wang
(2003), ad esempio, la componente comunicativa riguarda anche la capacità di
essere informati sugli eventi politico-sociali più salienti di altri gruppi etnici.
In base a questi riferimenti teorici è stato costituito uno strumento per la
misurazione di tale costrutto.