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su quell’attività che più di tutte ci consente di esercitare la virtù e di raggiungere la
felicità, il fine della nostra esistenza: l’attività contemplativa. E’ proprio attraverso
un’attenta analisi di tale attività che potremo evidenziare il ruolo svolto dai beni esterni
e quindi dalla ricchezza nella teoria etica di Aristotele e più generalmente nella nostra
stessa ricerca della felicità. Vedremo l’ambivalenza dell’approccio aristotelico nei
confronti dei beni esterni presentati, per certi aspetti, come elementi indispensabili per
l’esercizio della virtù e per altri come strumenti che potrebbero diventare persino
dannosi qualora non fossero utilizzati nel modo a loro consono o se fossero confusi con
la felicità; sarà interessante, a questo proposito mostrare il vicendevole rimando tra beni
esterni e virtù, evidenziando, da un lato, i rischi che potrebbero insorgere nel caso in cui
un uomo possedesse la ricchezza in assenza di virtù, dall’altro, mettendo in luce
l’impossibilità, per un uomo povero, quindi privo di beni esterni, di esercitare la virtù e
di essere felice. A proposito del rapporto tra beni esterni e virtù analizzeremo poi, in
conclusione del capitolo, le virtù etiche e i relativi vizi che riguardano nello specifico il
denaro e la ricchezza: liberalità e magnificenza.
Il secondo capitolo si baserà principalmente sul confronto tra l’impostazione
politico-economica dello Stagirita e que lla di alcuni suoi predecessori; in particolare
verranno sviluppate le critiche aristoteliche nei confronti de la Repubblica di Platone e
quelle riguardanti le teorie politiche di Falea di Calcedone ed Ippodamo di Mileto. A
proposito della critica a Platone, mostreremo il diverso approccio dei due filosofi nei
confronti della proprietà e porremo in luce le diverse ragioni addotte da Aristotele per
preferire la proprietà privata, e dal suo maestro Platone per optare per la condivisione
totale di donne, figli e beni. Il capitolo presenta degli elementi di continuità con il
precedente poiché alcune delle considerazioni apportate dallo Stagirita a favore della
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proprietà privata, fanno preciso riferimento alla teoria aristotelica in ambito etico. A
questo proposito mostreremo le conseguenze che si potrebbero produrre in campo etico
qualora la proprietà privata fosse sostituita da quella pubblica: oltre alle conseguenze di
tipo pratico, che sembrerebbero portare ad una peggiore gestione della proprietà
pubblica rispetto a quella privata, la proprietà comune eliminerebbe gran parte delle
virtù etiche riguardanti il rapporto con i beni esterni e, di conseguenza, renderebbe più
difficoltoso il cammino verso la felicità. Dopo aver passato in rassegna le proposte
costituzionali di Platone, ci soffermeremo su altri due progetti, meno utopici rispetto al
progetto platonico e quindi più aderenti alla realtà: parleremo, infatti, dei progetti
costituzionali di Falea di Calcedone ed Ippodamo di Mileto, i quali verranno, così come
il progetto costituzionale della Repubblica di Platone, sottoposti al vaglio critico dello
Stagirita. Anche in questo caso vedremo proposte diverse soluzioni riguardanti la
suddivisione della proprietà tra i cittadini che in alcuni casi saranno soddisfacenti
secondo l’impianto aristotelico, mentre in altri casi non saranno in grado di fornire una
giusta risposta ai problemi alla base delle ingiustizie e delle violenze presenti nelle
città, le quali vedono la loro origine nel desiderio umano “di avere”.
In conclusione del capitolo dedicheremo la nostra attenzione a due costituzioni
realmente esistenti prese in considerazione dallo Stagirita: Sparta e Creta.
Il terzo capitolo si soffermerà sugli aspetti strettamente economici della teoria
aristotelica: verranno infatti ripercorse le diverse fasi dello sviluppo dell’attività
economica, parallelamente alle fasi di sviluppo della comunità politica. Il percorso avrà
inizio dalle forme più elementari di comunità, quelle rappresentate dal semplice
rapporto tra padrone e schiavo, per poi procedere con le prime rudimentali forme di
baratto, finalizzate alla semplice sussistenza della famiglia e del villaggio. Metteremo
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in luce la differenza che intercorre tra il valore d’uso e il valore di scambio, tra
l’amministrazione domestica e la crematistica, mano a mano che ci soffermeremo sulle
tipologie di scambio più complesse, che prevedono l’introduzione della moneta e il
commercio non più destinato al semplice sostentamento della comunità politica, ma
all’accumulo della ricchezza. Attraverso questo processo si giungerà infine alle forme
peggiori di commercio, le quali hanno ormai perso definitivamente il contatto con tutto
ciò che è naturale: è questo il caso dell’usura e del prestito a interesse, dove il denaro
viene totalmente svicolato da quello che era il suo ruolo originario, ovvero quello di
mezzo per rendere i prodotti commensurabili e quindi scambiabili, e diventa l’unico
protagonista, la ragione per cui la transazione stessa viene effettuata. Alla fine del
capitolo vedremo come, a proposito delle forme più degenerate di commercio, ci siano
delle importanti conseguenze sul piano etico nella teoria aristotelica.
Il quarto capitolo si propone di analizzare le implicazioni della ricchezza e della
povertà nella determinazione del regime politico che si andrà a creare in una certa città.
A questo proposito analizzeremo le diverse forme costituzionali, distinguendo tra
regimi retti e regimi deviati, mostrando quali siano i requisiti richiesti agli appartenenti
alla comunità per poter prendere parte alle attività politiche, e quindi quali condizioni
debbano essere rispettate per potersi fregiare del titolo di cittadini di pieno diritto. A
questo proposito vedremo quali delle forme costituzionali presentate faranno diretto
riferimento a ricchezza e povertà come requisiti da possedere per poter accedere alle
cariche politiche; in conclusione analizzeremo le cause che portano alla rovina le varie
costituzioni e riporteremo alcune soluzioni proposte dallo Stagirita per sopperire a tali
problematiche.
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Il quinto capitolo, infine, non farà che completare questo argomento: la prima
parte riguarderà principalmente la migliore costituzione nelle circostanze in cui gli
uomini si trovano solitamente a vivere; soppeseremo, a questo proposito, i vantaggi,
soprattutto in termini di stabilità della costituzione stessa, apportati da una comunità
politica nella quale il governo è gestito da coloro che sono mediamente abbienti rispetto
a quelli di una costituzione in cui governano coloro che sono troppo ricchi o troppo
poveri. La seconda parte del capitolo verterà, invece, sulla costituzione migliore in
circostanze ottimali e anche in questo caso ci soffermeremo sull’importante ruolo
ricoperto dalla ricchezza e dalla povertà nella gestione della città stessa: metteremo in
luce le caratteristiche, in termini di ricchezza e prosperità che dovranno essere
possedute dal territorio su cui sorge la città, valuteremo l’impatto di ricchezza e povertà
sulla concessione della cittadinanza e mostreremo come questi fattori non siano
assolutamente da trascurare anche in una costituzione che sceglie, come primo requisito
per accedere alle cariche politiche, la virtù e non direttamente la ricchezza.
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Capitolo 1
I beni esterni e il loro rapporto con felicità e virtù.
1.1 Il concetto aristotelico di felicità.
Interrogandosi sul fine della politica e sul bene cui essa mira, Aristotele mostra come
la maggioranza degli uomini tenda di primo acchito ad individuare tale fine nella
felicità; a questa certezza non segue però una chiara spiegazione di cosa
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effettivamente la felicità sia, anche se, complessivamente, gli uomini considerano il
termine felicità un sinonimo di “star bene” o “ vivere bene”.
Il concetto di felicità non è determinato, ma varia da uomo ad uomo e spesso anche lo
stesso uomo, in circostanze diverse della sua vita, la definirà in maniera diversa:
quando, infatti, sarà malato, identificherà la felicità con la salute, mentre, ad esempio,
in un momento di povertà la identificherà con la ricchezza 1.
Gli uomini definiscono la felicità in modo diverso anche secondo il livello culturale e
sociale che hanno occupato, ad esempio, le persone rozze, appartenenti alla massa, e
quindi presumibilmente povere, hanno una concezione della felicità mo lto diversa da
quella delle persone colte che conducono una vita agiata: mentre i primi tendono a
identificare la felicità con il piacere dei sensi, i secondi la identificano con l’onore2.
Entrambe queste concezioni della felicità sono criticate da Aristotele: quando gli
uomini identificano la felicità con il piacere non fanno altro che abbassarsi al livello
degli animali i quali possiedono solo questo tipo d’attrattiva nella loro esistenza,
mentre quando identificano la felicità con l’onore, in realtà ricercano soltanto un
riconoscimento, da parte di chi è virtuoso, della loro stessa virtù. Sebbene
l’identificazione della felicità con l’onore sia preferibile rispetto a quella con il piacere
sensoriale, entrambe sono molto superficiali e non possono quindi essere prese in
considerazione per la nostra definizione della felicità.
Alcuni uomini si credono felici dedicando la loro vita alla ricerca della ricchezza, ma
anche questa tipologia d’esistenza è considerata da Aristotele in modo totalmente
negativo: il desiderio di ottenere sempre nuovi guadagni conduce ad una vita di
costrizione; tale desiderio può diventare una vera e propria schiavitù, dal momento che
1
Cfr. EN I 4, 1095a, trad. it. a cura di Claudio Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, p. 57.
2
Cfr. EN I 5, 1095b, trad. it. cit. p. 57.
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non si esaurisce e non raggiunge mai uno stato di soddisfazione piena. Questo modo di
condurre la propria esistenza è considerato dallo Stagirita come una prerogativa della
massa e quindi della parte più rozza della popolazione: “Gli uomini della massa si
rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie”3.
Per definire il concetto di felicità, Aristotele comincia col chiedersi quale sia il
fine per il quale compiamo tutte le nostre azioni, tale fine, infatti, proprio per questa
sua peculiarità, costituirà il bene. I fini sono molteplici e spesso non sono ricercati per
se stessi, bensì in vista di qualcos’altro che desideriamo: tali fini non potranno
costituire il bene, e quindi la felicità, poiché sono imperfetti e non sufficienti a
costituire da soli, in virtù delle loro caratteristiche, il fine cui tende la totalità delle
nostre attività. Tra questi fini “imperfetti” rientra anche la ricchezza; quest’ultima,
così come l’onore, l’amicizia, la nobiltà, è sempre ricercata come mezzo per ottenere
altri beni o altre ricchezze ed è per tale motivo che Aristotele considera negativamente
l’esistenza dedicata alla ricerca del guadagno. Il fine che sembra possedere le
caratteristiche necessarie per essere considerato il fine più alto, è proprio la felicità:
l’uomo non ricerca la felicità per ottenere attraverso essa altre cose, come la ricchezza
o l’onore, ma la ricerca per la sua perfezione. D’altro canto, gli altri fini, pur non
costituendo singolarmente ciò che noi chiamiamo felicità, possono, tutti insieme,
concorrere al suo raggiungimento.“Di tale natura è, come comunemente si ammette, la
felicità, perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro, mentre onore e
piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per se stessi (sceglieremmo,
infatti, ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient’altro), ma li scegliamo
anche in vista della felicità, perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici.
3
EN I 5, 1095b 19-20 trad. it. cit. p. 57.