4
4
tenendo in conto le certezze offerte dalla “cultura medicalizzata del parto”.
Lo scopo finale che ho inteso perseguire è il seguente:
• individuare le aree di intervento, per migliorare l’esperienza di maternità
attraverso l’analisi del vissuto di chi tale esperienza la vive
Lo strumento d’inchiesta, utilizzato come metodo di feedback informazionale e
destinato agli operatori sanitari, è il questionario autosomministrato, previsto in
forma anonima e strutturata.
Con un primo questionario ho indagato l’esperienza di gestazione, evidenziando le
caratteristiche socio-anagrafiche di coloro che partecipano al corso di preparazione
al parto, organizzato presso la struttura ospedaliera in esame. Inoltre ho
considerato due modelli di identità sociale delle gestanti, e due tipi di ansia
preparto che le caratterizza.
Quindi, con un altro questionario, ho indagato modalità e vissuti dell’esperienza di
parto e di puerperio, evidenziando alcuni elementi in grado di determinarne la
qualità percepita: dal tipo di parto, all’aiuto ricevuto, ai fattori attribuzionali, al
servizio di rooming-in.
La prova delle ipotesi è stata ottenuta sia attraverso l’analisi dei dati di ogni
singolo questionario, sia mediante il confronto tra pre- e post-parto, relativo ad un
sub-campione di soggetti, che li hanno compilati entrambi.
I risultati, complessivamente positivi, inducono a predisporre strategie di
miglioramento del corso preparto e del servizio di rooming-in.
5
5
Parte Iª L’esperienza di maternità dalla gestazione al puerperio
Parole chiave: birth, confinement, coping, emotion, gestation, hospital, maternity,
nursing, organization, pregnancy, prophylaxis, rooming-in, stress, suckling
(PsycLIT Database della American Psychological Assn.)
Premessa
Il problema trattato in questa prima parte è quello di definire un contesto
bibliografico, individuando gli argomenti che hanno ispirato la ricerca esposta
nella parte IIª. Nel primo capitolo viene discussa l’esperienza di maternità con
argomentazioni teoriche, su basi culturali ed emozionali. Nel secondo capitolo
vengono presentate alcune ricerche sul vissuto ospedaliero del parto
Cap. 1° Psicologia della maternità
1.1) Il dilemma ostetrico e le “culture” del parto
Affrontiamo il discorso sulla maternità partendo dal cosiddetto “dilemma
ostetrico”: il rapporto non ottimale tra le dimensioni del bacino materno e quelle
della testa del bambino, al momento del parto (Rellini e O. Ferraris, 1991).
L’evoluzione fisica e cerebrale della nostra specie ha complicato la gestazione ed il
parto, ma la capacità del cervello di riorganizzare se stesso ha selezionato individui
sempre più abili culturalmente. La riduzione della pressione selettiva sul genoma
ha condotto al linguaggio (Chiarelli, 1989), capace di comunicare e tramandare
nozioni. Così il patrimonio intergenerazionale di conoscenze, comprese quelle sul
parto, è stato trasmesso intriso dei valori caratteristici di ciascun popolo.
La drammaticità dell’esperienza di parto ha imposto per millenni tassi di mortalità
enormi a madri e figli, e le comunità di individui hanno spesso cercato spiegazioni
trascendenti. Solo verso la fine del XIV° sec. la cultura occidentale ha superato la
concezione “naturalistica” del parto: l’impotenza umana, conseguenza del peccato
originale, ha ceduto il passo alla preoccupazione per la salute della donna. La
priorità non è più la continuazione della specie ma l’integrità dell’individuo
(Rellini, 1992). Dopo la metà del ‘600, nella Francia settentrionale, è nata
l’ostetricia come scienza e pratica medica (essenzialmente di competenza
6
6
maschile), mentre la quasi totalità delle nascite rimase, fino al XVIII° sec., nelle
mani delle levatrici o mammane.
I primi grandi successi della medicina risalgono alla seconda metà del XIX° sec.,
con la sconfitta della febbre puerperale e con alcune pratiche tra cui il taglio
cesareo e l’anestesia. Solo dagli anni ‘50 del XX° sec., nei paesi industrializzati, la
nascita è diventata un fatto ospedaliero.
Gli studi antropologici delineano la “nascita” come evento biologico, psicologico e
sociale. Nello Yucatan, ad esempio, le donne sono abituate a partorire nei propri
villaggi, inginocchiate al suolo, insieme al marito, alle madri ed alla levatrice, nella
tradizione degli sciamani (Jordan, 1989). In Italia è consuetudine diffusa partorire
in ospedale, con l’assistenza delle ostetriche. L’Olanda invece è all’avanguardia
nella possibilità socialmente assistita del parto a casa, almeno quando la situazione
si presenta senza problemi; la percentuale di cesarei è tra le più basse al mondo
(10%). Ciascun paese propone una propria concezione del parto, confacente al
proprio contesto sociale, ambientale e culturale. Nello Yucatan infatti la rinuncia a
recarsi presso un centro medico dipende dalla paura di un’entità soprannaturale,
che impone di non “contaminare” lo spirito del nascituro esponendolo a degli
estranei. E’ ipotizzabile che la mamma italiana trovi in ospedale quel che la
mamma dello Yucatan ha nella sua tenda: il “sentirsi sicura”. La qualità oggettiva
del parto si configura come una condizione necessaria ma non sufficiente: essa va
supportata da una qualità “percepita”, quindi psicologicamente rilevante.
In relazione ai cosiddetti “rituali sociali del parto”, è importante la posizione della
partoriente. A grandi linee si distinguono (Rellini e O. Ferraris, 1991):
• parto solitario: tipico di alcune società africane; la donna partorisce
accovacciata ed è in balìa degli eventi: in compenso viene paragonata in
coraggio al guerriero
• parto sociale: pratica molto più diffusa; la posizione può essere in ginocchio,
accovacciata-e-sostenuta, seduta, in piedi (posizioni che si prestano all’aiuto)
• parto in posizione litotomica: inventato dai medici francesi del XVII° secolo
per avere la massima accessibilità alle pratiche ostetriche di trazione del feto.
Quest’ultima posizione, benché non priva di svantaggi, è quella che ha scandito la
storia dell’ostetricia moderna. Solo nel 1985 l’Organizzazione Mondiale della
Sanità ha invitato a riconsiderarla, ad incoraggiare il movimento della donna e la
7
7
scelta libera delle posizioni da assumere durante il travaglio.
Il parto in ospedale si presta ad alcune considerazioni critiche perché ad esso sono
imputati alcuni svantaggi (Rellini, 1992):
• nel caso di parto fisiologico ci sarebbe comunque una rinuncia all’autonoma
capacità generativa
• “ospedalizzare” provocherebbe un isolamento psicologico ed affettivo della
donna dal suo ambiente;
• sarebbe sacrificata l’interazione precoce madre-bambino; su questo punto il
contributo della psicologia ha condotto all’introduzione di pratiche come il
rooming-in.
In generale sembra che l’ospedale privi il processo generativo dei fattori
fisiologici, istintivi ed emotivi, in funzione del controllo medico. Da molti anni si
parla infatti di “demedicalizzazione razionale” del parto (Odent, 1976).
La complessità dell’assistenza ostetrica richiede attenzione al contesto ed al
significato dell’evento, così centrale nella vita delle persone. Si tratta di un campo
di incontro elettivo dell’area medica e di quella psicologica, che però
tradizionalmente espone a sovrapposizioni di competenza e di potere tra le figure
professionali (Capello e Gagliardi, 1993). Sembra addirittura che all’ambiente
ospedaliero sia da attribuire un forte potenziale nel generare conflitti (Elfant,
1985). La ricerca psicologica sulla maternità è stata condotta prevalentemente in
ottica psicoanalitica, e per arginare le conseguenze negative della cosiddetta
“medicalizzazione” è sorta una disciplina denominata “psico-profilassi ostetrica”
(P.P.O.). Si tratta di una via metodologica e concettuale per migliorare l’approccio
della donna al parto (Russo et al., 1992). L’idea di fondo consiste in un supporto
psicologico-sociale, che tenti di sostituire i secolari meccanismi di trasmissione
della conoscenza, per offrire la sicurezza soggettiva. La PPO vorrebbe quindi
essere il luogo della sinergia tra un’impostazione di tipo medico ed una di tipo
psicologico, che sfoci in una cultura della genitorialità (Capello e Gagliardi,
1993). La vera utilità della PPO, secondo i suoi sostenitori, passa attraverso una
équipe multidisciplinare, ove ginecologi ed ostetriche, psicologi e pediatri,
anestesisti ed assistenti sociali, possano comunicare tra loro e con le donne.
8
8
1.2) L’elaborazione delle emozioni
1.2.1) Il contributo della chiave di lettura psicoanalitica
I mesi della gestazione servono al feto per formarsi ed alla madre per fare in conti
con se stessa. La donna appare regredire sia per la rielaborazione del proprio ruolo
di figlia, sia per trovare empatia col feto, manifestando una certa introversione. E’
una “palestra” emotiva che richiede un buon esame di realtà, altrimenti si rischia di
scivolare in un quadro psicopatologico di compiacimento narcisistico (Zanelli
Quarantini, 1988). Lo stato regressivo sarebbe dimostrato dalle coincidenze fra i
tracciati R.E.M. della madre e del bambino, nel periodo tra il settimo mese di
gestazione e le prime due settimane postparto (Miraglia, 1986).
Vediamo in sintesi come si caratterizzano i tre trimestri di gestazione:
• 1° trimestre: in genere è più forte la manifestazione psicosomatica di sensazioni
e fantasie, ma se l’elaborazione è corretta, nei mesi successivi i disturbi
tendono a scomparire. I conflitti e le angosce possono manifestarsi in forme
lievi o forti: è ipotizzato che ci sia un “linguaggio psico-somatico”, un vero e
proprio codice materno trasmesso culturalmente (Franzoni e Jacobone, 1977).
E’ stata dimostrata una significativa correlazione tra eventi stressanti,
indesiderabili, incontrollabili, e l’aborto spontaneo psicogeno (Santonastaso et
al., 1983): le cause vengono ricercate nelle dinamiche ritentive ed espulsive
vissute a livello orale (ad esempio nausea, vomito, preferenze alimentari, etc.).
• 2° trimestre: i primi movimenti intrauterini rendono “reale” il feto, e finisce la
totale simbiosi iniziale. La madre comincia a “parlare” col bambino,
distinguendo “tu” ed “io”. L’ecografia contribuisce sia a questa sensazione di
entità fisica del feto, sia alle fantasie materne ambivalenti (positive e negative).
Secondo qualche autore l’esperienza ecografica non sarebbe priva di rischi
psicologici: in alcuni soggetti potrebbe bloccare la corretta dialettica tra
fantasia e realtà (Benvenuti et al., 1988), se non addirittura aumentare
l’angoscia eventuale (Stewart, 1986). I dati della mia inchiesta rilevano un 6%
di gestanti per cui l’ecografo è “abbastanza” preoccupante (in un caso
“molto”). Viene ipotizzato un conflitto paranoideo tra madre e feto, perché il
loro legame mette a rischio entrambi. L’instaurarsi di un rapporto armonioso
impone di spostare all’esterno le sensazioni negative: questa “bonifica” passa
di norma per il padre del bambino, che funge da contenitore dell’ansia
9
9
persecutoria e depressiva (ecco perché viene favorita la presenza del padre in
sala parto).
• 3° trimestre: diventa rilevante il problema del distacco, ed emergono varie
paure ad esso legate. Al momento decisivo le paure vengono equilibrate dalla
spinta creativa, ma il crescendo del travaglio può ricostituire una situazione
regressiva e molto ansiogena. E’ necessario evitare l’angoscia di
frammentazione (cioè della separazione del duo in simbiosi) con un sostegno
attivo, partecipe, informato. La donna non deve identificarsi con il bambino che
sta partorendo, va aiutata a tenere “sveglia” l’identità adulta. L’angoscia
persecutoria caratterizzerebbe la fase dilatante, generando una minore
attenzione al bambino ed una sorta di egoismo centrato sul proprio dolore;
l’angoscia depressiva viene imputata invece alla fase espulsiva, per il timore di
danneggiare il bambino con le contrazioni.
Per migliorare il benessere emotivo in gravidanza, travaglio e parto, una soluzione
di chiara derivazione psicoanalitica è l’ipnosi, ed in particolare la tecnica
ipnoreflessogena (Werner et al., 1982), a cui è attribuita la capacità di
neutralizzare la paura, sedare il dolore, prevenire danni per il neonato ed il rischio
di depressione postpartuale nella madre.
1.2.2) Relazione tra vissuto soggettivo e dolore nel parto
Alla base della vita psicologica umana c’è un’angoscia esistenziale, legata a
qualsiasi evento cruciale, che non può essere eliminata e che va assecondata nel
suo giusto spazio. In gravidanza si distinguono (Revault D’Allones, 1988):
• “paure reali”: bambino anormale, ammalato, morto, prematuro, etc.
• “paure fantasmatiche”: senso di estraneità, paura del distacco
• “paure interne”: legate al Super-io ed alle pulsioni
Solamente alle prime la tecnologia medica spesso sa rispondere. Parte
dell’esperienza del dolore può essere interpretata come una soluzione inconscia per
affrontare alcune paure: il meccanismo consiste nell’oggettivare una sofferenza
che altrimenti “verrebbe dal nulla”. Il dolore si configura quindi come scappatoia
psicosomatica dell’angoscia (Battagliarin, 1995). Se la donna giunge al parto con
un’angoscia forte, può succedere che la personalità si destrutturi di fronte alle
pulsioni contrapposte, le quali si giocano in una contemporanea identificazione:
• in verticale col figlio nascente (la donna è a sua volta figlia)
10
10
• in orizzontale con la propria madre (in quanto partoriente)
Le identificazioni possono riguardare anche altre persone, come l’ostetrica o il
marito. Le “vie d’uscita” dall’angoscia tendono ad essere le seguenti:
a) Il dramma: sfoghi, grida, il vissuto dell’evento in termini assoluti e tremendi
b) La neutralizzazione: l’anestesia è in grado di chiudere il tutto tra parentesi, nella
più indolore delle soluzioni
c) Il controllo: il padroneggiamento del proprio corpo e delle dinamiche emotive;
se riesce è la via del “trionfo”.
La natura somatica, vegetativa e psichica dell’emozione spiega come questa possa
condurre ad una riduzione del controllo di sé, ad una astrazione dal contesto, alla
difficoltà di articolazione logica, alla ridotta capacità di metodo e di critica.
La psicologia sociale ha dimostrato il ruolo della mediazione corticale nella
determinazione del vissuto emotivo, che può quindi essere letto come segnale della
qualità relazionale organismo-ambiente. E’ su queste basi che il vissuto emotivo
soggettivo viene indagato in ottica culturale e psico-sociale.
Le influenze cognitivo-sociali giocano un ruolo importante nella componente
emotiva del dolore attraverso fattori come: convinzioni, credenze, racconti, senso
di adeguatezza, etc. L’ospedale stesso sembra inoltre connotato da una valenza di
“luogo della sofferenza”. E’ quindi ipotizzabile che si determini un’emozionalità di
tipo protocritico, diffusa e poco identificabile, ad elevato potenziale destrutturante
per la donna. Quale compito centrale della PPO (psicoprofilassi ostetrica) una
corretta elaborazione può condurre ad un’emozionalità di tipo epicritico,
circoscritta ed identificata. Il dolore viene combattuto anche sul fronte della
socializzazione dell’ansia, ed in questo senso l’impostazione psicoprofilattica di
gruppo si è rivelata vincente (Codispoti Battacchi, 1985). E’ però ipotizzabile che
la PPO perda valore quando i suoi contenuti si trovassero in antitesi con quella che
poi è l’esperienza vera di travaglio e parto, in quanto si può instaurare una
dissonanza cognitiva molto disagevole.
In tema di sofferenza nel parto va ricordato il cosiddetto “ciclo vizioso” di Read
(Orlandini, 1988):
• la paura genera tensione neuromuscolare la quale provoca dolore, che accresce
la paura in un sistema autorinforzante.
La PPO può arginare questo fenomeno a patto che si possano individuare i
“soggetti a rischio”, costruendo da lontano un rapporto tra gestante ed operatore
11
11
(Battagliarin, 1995). Questo punto sottolinea quel che di positivo ha dalla sua la
mamma in Yucatan: al momento del parto viene assistita da qualcuno in cui crede,
che conosce, che la capisce. Da noi invece il rapporto tra gestante e struttura può
risultare deindividualizzante.
Riguardo alla funzione del dolore, la psicoanalisi vede in esso la sublimazione
della componente negativa dell’ambivalenza materna verso il figlio. L’etica della
psicoprofilassi giudica infatti negativamente l’anestesia, per almeno due motivi:
• il primo, suggerito dall’esperienza (Miraglia, 1995), tiene in considerazione
quelle donne che, in occasione di gravidanze successive alla prima, vogliono
partorire in pienezza di coscienza e sensibilità, a dispetto dell’inevitabile dolore
• il secondo, suggerito dalla psicologia, rifiuta l’anestesia quando con essa la
donna fugge dalla paura e, lungi dal vincere le ansie, capitola privandosi di
emozioni irripetibili.
A mio avviso l’argomento psicologico secondo cui partorire con dolore serva a
sublimare l’esperienza ed a sentire il bambino “più proprio”, è affascinante ma non
è scientificamente dimostrato: l’analisi della letteratura in materia dimostra che chi
ha battuto tali strade non è approdato a risultati concreti. Non è nemmeno provato
che i bambini nati mediante taglio cesareo siano meno amati oppure svantaggiati.
La ricerca di ipotesi alternative ci porta ad allargare il contesto socioculturale
dell’evento-nascita.
Una cultura è tale quando costruisce un sistema di valori coerente e fornisce
modelli di identificazione definiti e riconoscibili (Siri, 1995). Attualmente ci
troviamo in una fase in cui l’identità sociale delle persone è in balia di due modelli
antitetici (Capello, 1997):
• uno “romantico” di sentimento, volontà, valore morale ed “eroismo”, detto
anche “Codice del Sé”; esso è femminile, passivizzante, fondato su un’etica del
sacrificio
• uno “performativo” di efficienza, potere, successo in chiave tecnologica, detto
anche “Codice dell’Io”; esso è maschile, attivante, fondato sull’etica
dell’autonomia e della competenza.
Il moderno ruolo della donna è esemplare nell’evidenziare questa dicotomia: deve
essere femminile, materna e naturale, però al contempo razionale, programmatrice,
professionale. Il dilemma, che non è quello famoso “ostetrico”, ma che finisce col
diventarlo, è questo: quale donna incontriamo in sala parto ? Quella romantica e
12
12
sacrificale, o quella moderna ed efficientista ?
La risposta, che non può essere solo dicotomica, si dovrebbe muovere su un piano
bidimensionale, generalistico e culturale da un lato, individualistico e
personologico dall’altro. La strada ideale appare quella del “recupero della
bipolarità” (Capello, 1997), ovvero rispondere alle esigenze sia in funzione del
contesto che dell’individuo. Con la mia ricerca ho cercato una conferma
dell’esistenza dei due modelli.
La “umanizzazione” del parto dovrebbe passare per un approccio che sia moderno
e tecnicistico, ma che contemperi la modulazione in chiave psico-sociale, senza
guardare alla partoriente come fosse un’entità fuori dallo spazio e dal tempo.
1.3) Problemi ed aspettative
1.3.1) L’esperienza esclusiva
Il parto è oggi eccessivamente idealizzato quale prova, tappa biografica da
affrontare con grande preparazione e responsabilità della gestante (Rose, 1994). La
cultura dell’autodeterminazione consente di usare il proprio consenso
subordinando l’autorità medica. La responsabilità ha però un suo peso: se la qualità
del parto dipende dalla donna in prima persona, l’evento fisiologico si carica di
contenuto simbolico e finisce col diventare una prova iniziatica, una dimostrazione
di forza. Il fatto rilevante è che questo processo implica la “competenza” della
partoriente. Sul tema della nascita da tempo si producono pubblicazioni di tutti i
generi, che in parte compensano il venir meno del tradizionale sapere
intergenerazionale, ed in parte soddisfano l’esigenza di conoscenze tecniche. Si
assiste alla creazione di un nuovo ruolo, che precede quello di madre: l’essere
gestante. E’ l’estremo opposto della medicalizzazione, ovvero la personalizzazione
del parto. La conseguenza psicodinamica è l’aumento dell’interesse tecnicistico
della donna (specie se primipara), la quale si accosta alla psicoprofilassi con un
impegno notevole. Purtroppo le tecniche di rilassamento e respirazione sono
spesso più difficili del previsto, e si manifesta la contraddizione di un parto che,
per essere “naturale”, necessita di un rigoroso addestramento. L’etica della PPO
tende a sfavorire l’assunzione di antidolorifici proprio in nome della travolgente
“esperienza esclusiva”.