aspetti pertinenti soprattutto “the public visage” dei luoghi visitati, la summa degli
attributi esteriori del mondo urbano civilizzato. Per analoghe ragioni dettagliatamente
indagate, oltre alle quali l’attrazione per l’arte classica in cui l’Enlightenment ritrova i
principi di funzionalità e di razionalità che lo contraddistinguono, si è poi assimilata a
tale prototipo di viaggiatore la figura del grandtourist nella sua concezione originaria,
prima cioè che il successo dell’opera sterniana A Sentimental Journey through France
and Italy (1768) intervenga a mutare radicalmente concezione e modalità della
tradizione granturistica.
Le nuove inclinazioni legate alla carica sentimentale e alle tonalità emozionali su
cui Sterne pone l’accento, assegnando ad esse, e non più dunque ad un impartecipe e
distaccato spirito di informazione e di conoscenza, il compito di guidare il viaggiatore
da lui concepito nell’esplorazione della realtà circostante verranno poi, di lì a poco,
riversate verso un nuovo apprezzamento degli scenari naturali. Nell’intento di
sottolineare ancor più l’importanza fondamentale che modelli letterari rivestono dunque
nel dirigere l’evoluzione dell’approccio al viaggio verso un nuovo e soggettivo sentire
estetico, ho mostrato come il sorgere di quest’ultimo possa essere scorto sin dalla
poetica naturalistica di inizio secolo, soprattutto a fronte della sua graduale acquisizione
di un sapore vernacolare e dell’allontanamento dalla rivisitazione di modelli classici
(celebranti paesaggi che, anche se britannici, sono caratterizzati dalla trasposizione di
un’aura mediterranea classica).
Successivamente a tale tipo di poetica, che trova in James Thomson uno dei suoi
più rappresentativi esponenti, sarà una letteratura più venata di Preromanticismo come
la poesia cimiteriale ed ossianica, congiuntamente a trasformazioni storiche e
all’influenza di concezioni filosofiche di ascendenza roussoviana, a condurre al pieno
rigoglio la nuova sensibilità verso la scoperta estetica della natura, fino al suo culmine
nel cosiddetto “scenic tourism”. Il culto della natura di cui ho rintracciato l’evoluzione
sin dall’epoca dei Lumi, non volendo considerare quest’ultima come segnata
esclusivamente da una concezione del mondo naturale in termini razionalistico-
utilitaristici, trova cioè il suo apice in questa forma di viaggio che fa di colui che decide
di intraprenderla una sorta di proiezione del cosiddetto “sentimental traveller”,
quantunque alcune sue propensioni mi abbiano permesso, in misura minore, di
accostarlo anche al man of taste illuminista.
Conclude l’ultima parte del primo capitolo un’approfondita analisi di come
l’evolvere della sfera di indagini dei voyageurs settecenteschi, nonché della prospettiva
dalla quale esse vengono compiute, si ripercuota e si traduca nella scrittura odeporica
dell’epoca, trasformando progressivamente le convenzioni che la presiedono.
Considerato il rilievo a cui assurge la contemplazione estetica della natura sul
finire del secolo, si è voluto dedicare il secondo capitolo all’esame delle categorie di
gusto del pittoresco e del sublime, rappresentando esse i principali approcci dell’epoca
alla percezione del paesaggio. Poiché tali modelli di gusto si fondano
sull’apprezzamento di proprietà sino ad allora ritenute estranee alla sfera del piacere
estetico, si è proceduto innanzitutto con l’individuare nel contesto storico le ragioni di
ordine filosofico e culturale che più direttamente ne hanno favorito il sorgere, avendo
progressivamente condotto a valutazioni più soggettive e meno aderenti a parametri
razionali standard nel riconoscimento di ciò che produce piacere estetico. Questo
graduale allontanamento delle norme estetiche da regole condivise razionalmente è
peraltro comprovato dalla continua riconfigurazione degli stessi ideali estetici del
pittoresco e del sublime da parte di vari trattatisti avvicendatisi nel corso del secolo.
Lungi dunque dal configurare tali ideali come concetti omogenei, ne ho tracciato
l’evoluzione dalle meno meticolose riflessioni di Gilpin alle più sistematiche
concettualizzazioni di Price e Knight, così come da quelle che si possono ritenere
formulazioni embrionali di sublime ad opera di Addison alle più articolate elaborazioni
del concetto di hypsous da parte di Burke e Kant. In particolare, una volta delineato il
contesto di incubazione di entrambe queste categorie estetiche –vale a dire una precisa
sensibilità pittorica quale matrice del pittoresco e l’ambito di un particolare linguaggio
poetico ed oratorio all’origine del sublime–, ho profuso considerevole attenzione
all’analisi delle fonti che generano il loro piacere estetico, ravvisabili in talune proprietà
di elementi del mondo oggettuale esterno prima di venire individuate da Knight e da
Kant in due diversi processi mentali, in capacità, comunque, interiori all’uomo e da lui
dipendenti.
A ciò segue una disamina degli effetti indotti dalle esperienze del pittoresco e
del sublime sull’intero organismo psico-fisico dell’uomo, sia, cioè, sotto il profilo
psicologico che fisiologico, sino a dimostrare come tali esiti, ad eccezione di quelli
generati dall’esperienza del sublime burkiana, rispondano pienamente agli intenti della
più generale estetica del tempo, volta ad esaltare il dominio del soggetto estetico su
quanto è a lui esterno. Prima, però, di proseguire sulla scia delle implicazioni socio-
politiche sottese a tale esaltazione, giacché essa è intesa riflettere la posizione di
effettivo dominio occupata nella sfera pubblica dai prototipici soggetti estetici
dell’epoca, in virtù della loro provenienza da élites sociali, e prima di esaminare,
attraverso l’esperienza della Wollstonecraft, come la diversa posizione sociale delle
viaggiatrici donne le farà scendere a termini con tale attitudine, preciso che l’esame
dello spettro categoriale del gusto settecentesco è proceduto attraverso altri piani di
confronto.
Le categorie del pittoresco e del sublime –inclusa quella del bello nella
concezione burkiana– sono, infatti, state poste a confronto, con particolare riferimento
sia alle ragioni del loro allontanamento dai canoni dell’antecedente estetica neoclassica
–quantunque abbia ravvisato una traccia di continuità tra i processi mentali di
percezione nelle ideologie neoclassica e pittoresca– sia, per converso, ai motivi che le
avvicinano alla successiva estetica romantica. Nell’attuare questi raffronti, ho, in
particolare, messo in luce anche la diversità delle ideologie del pittoresco e del sublime
nell’opposta dose di considerazione delle qualità formali rispetto a quelle emozionali
degli scenari paesaggistici, misura che, come si vedrà, comporta per tali modelli di
gusto specifici benefici e svantaggi.
Comun denominatore è invece, come si è già accennato, l’asservimento dei
principi delle loro ideologie all’intento di sancire la posizione sociale di potere del
soggetto estetico e, per esteso, delle élites da cui tale soggetto si considera provenga.
Esempio fra molti è, nell’ideologia pittoresca, la raccomandazione a porre l’attenzione,
pur da una certa distanza, sui cosiddetti rural dwellers quando questi si presentano in
atteggiamento ozioso. Tale attitudine raccomandata, lungi dall’essere dettata dalla
volontà di contrastare l’intransigente capitalismo agricolo dell’epoca, è, infatti,
funzionale a questo sottaciuto scopo giacché, comportando il mancato riconoscimento
della fatica lavorativa del volgo, ne favorisce lo sfruttamento da parte delle ruling
classes.
Simili convenzioni estetiche, frutto, dunque, di un sistema ideologico di
impronta conservatrice volto al mantenimento dello status quo –finalità, quest’ultima,
che, come si vedrà, si ripercuote anche in talune prassi legate al landscape gardening di
fine secolo–, saranno infrante dalla nostra viaggiatrice che, con esse, attaccherà le
concezioni politiche sottesevi. La sua deliberata enfasi sulle faticose ed indigenti
condizioni esistenziali dei rural dwellers, in passaggi descrittivi che rivelano
un’osservazione ravvicinata quasi a dimostrare una sorta di coinvolgimento emotivo in
esse, tanto esecrato dall’ideologia del pittoresco, è solo uno dei tanti modi con cui ella,
smantellando l’amoralità e l’antiutilitarismo di quest’ideologia estetica, rivelerà nella
SRSND il reiterarsi, seppure in modo velato, indiretto, delle proprie concezioni liberali
apertamente espresse nell’antecedente Vindication of the Rights of Men (VRM, 1790).
Parte della mia analisi in merito al travel book di Mary Wollstonecraft è infatti
rivolta ad esplorarlo alla luce del suo liberalismo radicale e delle concezioni femministe
da ella esposte nella Vindication of the Rights of Woman (VRW, 1792). Tale
esplorazione, illustrando uno dei due volti dell’autrice, quello di una girovaga filosofa
illuminista, mi condurrà, da ultimo, anche a scoprire l’esito sorprendentemente ambiguo
della sua concezione dell’Altro, poiché il suo apparente filantropismo verso le fasce
sociali che ella si propone di riscattare è infatti oscurato dal trapelare di un senso di sua
superiorità rispetto ad esse. Questa sorta di “doppia alterità” nell’approccio all’Altro
verrà vista, nella parte conclusiva del mio lavoro, contrassegnare le esperienze di
viaggio tipicamente femminili dell’epoca e sarà espressa attraverso una significativa
concettualizzazione.
Completano l’illustrazione del volto della scrittrice rappresentazioni
paesaggistiche che, presentandoci effusioni di suoi stati emotivi, ci dischiudono
straordinarie rivelazioni riguardo alla sua sensibilità personale, femminile e
preromantica. Tali rappresentazioni, backdrops di suoi “inner-scapes”, sono state da me
presentate senza celarne i loro complessi risvolti. Esse sono infatti il frutto di esperienze
estetiche che ho ravvisato essere pervase da una profonda ambiguità tra aderenza alla
tradizionale considerazione tardo-settecentesca del paesaggio in accordo con le
convenzioni estetiche del pittoresco e del sublime e un peculiare approccio ad essi
attraverso una personale riconfigurazione di queste stesse convenzioni; tra la volontà
tradizionalmente maschile di dominio sulla natura contemplata e il desiderio più
tipicamente femminile di lasciarsi cullare e coccolare dalla protezione materna della
natura, cercando in essa, anziché alture elevate, luoghi di riparo quasi a reiterare la
rassicurante dimensione domestica; tra il convenzionale appello alla sola facoltà visiva e
al limite a quella uditiva allo scopo di evitare un coinvolgimento con quanto il
paesaggio offre tale da destabilizzare l’illusione di dominio su di esso e, d’altro lato, il
ricorso ad una più estesa gamma di facoltà sensoriali per lasciarsi passivamente
pervadere da tutte le suggestioni offerte dal mondo naturale.
Esemplare è in particolare lo statuto delle sue esperienze sublimi che ella è
noncurante di vivere nell’intento prescritto dalla generalità degli estetologi dell’epoca
eccetto Burke, imponendo e rinsaldando, cioè, il proprio dominio su ciò che in natura,
nell’ispirare sublimità, minaccia di sopraffarla e di destabilizzare la coscienza della
propria superiorità. Scoprire che Mary vive invece il processo di trascendenza sublime
nella ricerca di un’armonica fusione del suo essere con altri elementi dell’ordine
naturale-animale del cosmo o che proietta immaginativamente in scenari sublimi propri
affetti familiari, con l’effetto di addolcirne la percezione, mi permetterà, nella parte
conclusiva, di caratterizzare diverse sue esperienze estetiche in termini di “horizontal
sublime”. In sintesi, ho cioè giudicato appropriato ricondurre le esperienze sublimi
dell’autrice ad un paradigma, espressamente formulato per connotare modalità
femminili di relazionarsi nelle dinamiche spaziali, segnato dall’espansione del soggetto
estetico verso la molteplicità degli elementi esterni, anziché teso ad imporre su di essi la
propria egocentrica supremazia, tendenza, quest’ultima, che può essere espressa in
termini di “vertical sublime” e che, secondo teorie psicoanalitiche, è vista più
connaturata ad esperienze maschili. Non ho tuttavia spiegato questi speculari approcci al
paesaggio solo alla luce delle asimmetrie stabilite da assunti psicoanalitici tra le
personalità e le modalità relazionali femminili e maschili, ma ho anche sottolineato
come tali approcci si prestino ad essere considerati come esito di strutture socio-
culturali, vista la rigida separazione delle funzioni sociali in base al gender nella cultura
anglosassone settecentesca.
Tali aspetti rappresentano comunque solo una delle molteplici sfaccettature a cui
mi ha condotto l’esplorazione delle esperienze estetiche della Wollstonecraft nel porle
criticamente a confronto sia con il quadro generale delle convenzioni stabilite dagli
estetologi dell’epoca, sia con talune conclusioni a cui sono pervenute critiche
femministe. (Un’altra chiave di lettura è stata, ad esempio, l’analisi della sua
configurazione della natura come materna, concezione che ho spiegato ricorrendo ad
alcune teorie legate all’esperienza della maternità, quale quella che si trova a vivere
l’autrice all’epoca del suo viaggio).
Sempre all’insegna di raffronti critici volti a non occultare risvolti complessi e
talvolta contraddittori della sua avventura nordica, ho delineato anche la sua figura di
viaggiatrice (osservando come la Wollstonecraft compendi in sé il quadruplo ordine di
categorie tipologiche esposto nel primo capitolo) ed il derivante reportage odeporico,
con riferimento alle implicazioni delle strategie retoriche con cui ella cerca di aprirsi un
varco nel genere del travel writing e al modo in cui si rapporta all’evoluzione
settecentesca delle convenzioni letterarie che lo presiedono.
Nella conclusione, ho dapprima indagato la liminalità del mondo femminile
rispetto alla dimensione dell’iter dalle più antiche attestazioni dell’immaginario poetico
della cultura greca e di quelle della tradizione cristiana, sino ad esplorarne le cause nel
contesto culturale anglosassone del XVIII secolo. In seguito, ho rapportato ognuno dei
quattro principali aspetti attorno a cui ho concentrato l’analisi del viaggio scandinavo di
Mary Wollstonecraft –vale a dire la figura tipologica di viaggiatrice, il resoconto
odeporico, la percezione del paesaggio e l’approccio all’Altro– a generali paradigmi in
cui si possono racchiudere le settecentesche esperienze di viaggio al femminile, sulla
base di linee di tendenza ricorrenti e, per quanto riguarda gli ultimi due aspetti, sulla
base di significativi assunti psicoanalitici. Questa parte conclusiva non sarà tuttavia
volta a stabilire una pedissequa aderenza dell’autrice a tali paradigmi; le eventuali
corrispondenze che verranno riscontrate saranno, infatti, frutto di un attento confronto
critico.
(A seguire uno stralcio del capitolo 1.1.2.)
1.1.2. Verso la nuova sensibilità sentimentale e preromantica
Mentre la parabola dell’Illuminismo ancora non ha esaurito il suo ciclo vitale,
durante la seconda metà del XVIII secolo vengono profilandosi nuove tendenze legate
alla valorizzazione della sensibilità e al gusto del sentimentale, in conformità con
l’emergere della corrente preromantica che si connota per la sua reazione al
razionalismo, all’utilitarismo e al materialismo di cui è fortemente impregnato il
preesistente movimento illuminista. Ad essere più precisi, gli albori della nuova corrente
preromantica possono essere rintracciati fin negli anni Quaranta del ‘700 con la
pubblicazione dei romanzi di Samuel Richardson
1
che, mostrando un’acuta percezione
dell’animo femminile, predetermina in parte le nuove tendenze dando espressione ai
sentimenti e ai moti del cuore. Non è da dimenticare infatti che proprio la letteratura
rappresenta l’ambito privilegiato di affermazione e di diffusione del nuovo sentire
caratterizzato dalla sfiducia nell’onnipotenza della ragione e, per converso,
“dall’esigenza di un’esplorazione delle zone segrete della coscienza, al fine di restituire
alla vita sentimentale un posto essenziale nella dimora spirituale dell’uomo”
2
.
La pubblicazione, nel 1768, dell’opera letteraria di Sterne, A Sentimental Journey
through France and Italy
3
, è solo un altro importante contributo a questa emergente
sensibilità, mostrando come il paradigma di un viaggiatore guidato esclusivamente dal
proprio arbitrio emotivo nella percezione della realtà esterna possa rivoluzionare le
concezioni del viaggio fino ad allora imperanti. Grazie al suo contributo, cioè, il senso
del viaggiare, precedentemente impostato entro il binario della conoscenza e della
formazione dell’individuo, viene ri-orientato verso motivazioni prettamente soggettive,
inclinazioni legate alla tonalità sentimentale, all’aspetto emozionale e a un nuovo sentire
estetico.
Nel tratteggiare l’originale figura del “sentimental traveller” inaugurata da Sterne,
intendo iniziare considerando l’oggetto delle indagini dell’itinerante protagonista
dell’opera, un ecclesiastico a cui Sterne fa compiere il Grand Tour in età avanzata,
1
Pamela: Or Virtue Rewarded (1740); Clarissa: Or the History of a Young Lady (1748). Nel capitolo
1.1.3. si vedrà come anche il romanzo epistolare di Jean-Jacques Rousseau Julie ou la Nouvelle Heloïse
(1761) si possa considerare archetipo di questa nuova corrente sentimentale.
2
Santoro, Mario, Illuminismo, Neoclassicismo, Romanticismo, Liguori Editore, Napoli, 1968, p. 4.
3
Si vedano dettagli relativi alla sua composizione nel capitolo 1.1.4.
quasi in una sorta di parodia della consuetudine vigente
4
. È bene precisare, tuttavia, che
l’analisi degli oggetti di osservazione prediletti da tale tipologia di viaggiatore non potrà
più essere compiuta generalizzando sui gusti e sugli atteggiamenti affini e ricorrenti di
diversi voyageurs della stessa epoca –procedimento seguito nel presentare il
“philosophical traveller”–, giacché la figura del viaggiatore proposta da Sterne è
assolutamente innovativa. La mia analisi sarà dunque limitata alle tendenze che su tale
figura si possono desumere da questa specifica opera che, pionieristicamente,
influenzerà sia l’approccio al viaggio di considerevoli stuoli di viaggiatori successivi,
sia il contenuto e gli aspetti formali dei loro travel books.
Prima di procedere a considerare la sfera degli interessi del viaggiatore
sentimentale, occorre inoltre tener conto del fatto che l’autore non racconta direttamente
in prima persona le esperienze che cogliamo nella sua relazione di viaggio, bensì
costruisce la tipologia del “sentimental traveller” su di un personaggio romanzesco, una
sua creazione letteraria. Conseguentemente, ne deriva che l’opera sterniana suscita forti
interrogativi circa la misura in cui le osservazioni e le esperienze di Yorick, il
viaggiatore sentimentale, vengano romanzate, sebbene l’autore attinga ad esperienze
personali vissute sia nel suo primo soggiorno in Francia (1762-64), dalle quali aveva
peraltro già tratto ispirazione per comporre il settimo volume del Tristam Shandy, sia
nel suo secondo viaggio sul continente (1765-66)
5
. Ignorare quanto le esperienze
raccontate siano aderenti al vero non impedisce certo di riconoscere che esse possono
essere almeno probabili, diversamente da narrazioni di viaggio dichiaratamente
immaginarie quali quelle contenute nei Gulliver’s Travels (1726) di Swift, ricche di
elementi fantastici (isole volanti, individui dalle dimensioni assurde, mostruosi e bestiali
esseri tra lo scimmiesco e l’umano). Ciò nonostante, la possibile verosimiglianza delle
descrizioni sterniane non sembra sufficiente al critico Charles Batten per ricondurre tale
opera alla categoria della nonfiction travel literature, ambito generale in cui si è andato
indirizzando il presente mio studio, a causa delle loro violazioni delle convenzioni
tradizionali sia sul piano formale, che su quello contenutistico
6
.
4
Effettuare il viaggio continentale in età avanzata, pur essendo possibile, non è usualmente praticato
essendo il Grand Tour originariamente concepito come completamento della formazione scolastico-
culturale dei giovani rampolli aristocratici e, di conseguenza, previsto ordinariamente tra i 16 e i 21 anni.
Vi è addirittura chi, come Locke, lo consiglia a un’età più acerba, tra i 7 e i 16 anni, per la maggiore
facilità ad apprendere e a riprodurre i veri accenti delle lingue straniere e per la maggiore propensione a
sottostare all’autorità del tutor. (Cfr. Locke, John, “Some Thoughts Concerning Education”, in The
Harvard Classics, op. cit., sezione 212, vol. XXXVII, part 1).
5
Sertoli, Giuseppe, “Introduzione” al Viaggio Sentimentale di Laurence Sterne, op. cit., pp. XI-XII.
6
Batten, Charles L., Pleasurable Instruction, op. cit., pp. 19-24.
Desumendo da quest’ultimo piano l’oggetto delle osservazioni del “sentimental
traveller”, appare subito evidente come il suo atteggiamento si discosti fortemente
dall’attitudine del tipico viaggiatore illuminista interessato soprattutto a ciò che
abbiamo precedentemente definito come “the public visage” dei luoghi attraversati,
ovvero gli attributi esteriori pertinenti la civiltà urbana. Contrariamente a quest’ultimo,
il viaggiatore sterniano va innanzitutto ad innestarsi, sebbene per poi spingersi oltre, nel
solco di quel cambiamento di interessi che aveva preso avvio già intorno alla metà del
secolo, quando l’attenzione si era spostata dalle istituzioni e dalle produzioni artistiche
di un paese alla caratterizzazione dell’elemento umano dei luoghi
7
. I prodromi della
nuova sensibilità preromantica avevano cioè fatto scaturire uno straordinario interesse
per il temperamento, l’indole, gli usi, i costumi stranieri, da ricercarsi prevalentemente
tra “the common folk”, la popolazione comune, considerata, in base ad idee di
ascendenza roussoviana, la più autentica rappresentante del carattere di una nazione
8
.
(continua)
7
Sertoli, Giuseppe, “Introduzione” al Viaggio Sentimentale di Laurence Sterne, op. cit., pp. XIV-XV.
8
Barton, Arnold H., Northen Arcadia, op. cit., pp. 81, 95; Batten, Charles L., Pleasurable Instruction, op.
cit., p. 96.
(A seguire uno stralcio del capitolo 3.3.1.“My soul diffused itself in the scene”)
... La descrizione che ella ci offre del fiordo norvegese di Tønsberg –luogo prediletto,
durante la permanenza in questa città, delle sue peregrinazioni solitarie alla ricerca di una
pace che possa calmare “the impetuous tide”
9
delle sue ardenti passioni– mostra infatti
come il desiderio di immergersi in una natura che, lungi dal configurarsi come oggetto
passivo di un “mastering gaze”
10
, attivamente la culla e la conforta, sia tale da indurla a
sognare un’autentica diffusione e dispersione in essa:
Here I have frequently strayed, sovereign of the waste, I seldom met any human
creature; and sometimes, reclining on the mossy down, under the shelter of a rock,
the prattling of the sea amongst the pebbles has lulled me to sleep – no fear of any
rude satyr’s approaching to interrupt my repose. Balmy were the slumbers, and
soft the gales, that refreshed me, when I awoke to follow, with an eye vaguely
curious, the white sails, as they turned the cliffs, or seemed to take shelter under
the pines which covered the little islands that so gracefully rose to render the
terrific ocean beautiful. The fishermen were calmy casting their nets; whilst the
seagulls hovered over the unruffled deep. Every thing seemed to harmonize into
tranquillity – even the mournful call of the bittern was in cadence with the tinkling
bells on the necks of the cows, that, pacing slowly one after the other, along an
inviting path in the vale below, were repairing to the cottages to be milked. With
what ineffable pleasure have I not gazed – and gazed again, losing my breath
through my eyes – my very soul diffused itself in the scene – and, seeming to
become all senses, glided in the scarcely-agitated waves, melted in the freshening
breeze or, taking its flight with fairy wing, to the misty mountains which bounded
the prospect, fancy tript over new lawns, more beautiful even than the lovely
slopes on the winding shore before me. – I pause, again breathless, to trace, with
renewed delight, sentiments which entranced me, when, turning my humid eyes
from the expanse below to the vault above, my sight pierced the fleecy clouds that
softened the azure brightness; and, imperceptibly recalling the reveries of
childhood, I bowed before the awful throne of my Creator, whilst I rested on its
footstool
11
.
9
Wollstonecraft, Mary, SRSND, op. cit., lettera 8, p. 111.
10
Tale espressione viene spesso utilizzata da Sara Mills. (Cfr. Mills, Sara, “Written on the Landscape”,
op. cit., pp. 22-23).
11
Wollstonecraft, Mary, SRSND, op. cit., lettera 8, p. 110.
Ricorrendo ad un linguaggio in cui dispiega tutta la sua arte poetica e la sua vena
sentimentale, fin dall’inizio ella si descrive muoversi in un paesaggio della cui solitudine
ed immensità si sente assoluta sovrana, lasciando così trasparire una latente volontà di
dominio sul mondo esterno, come peraltro sembra suggerire Raoul Granqvist, il quale,
malgrado l’anti-convenzionalità del posizionamento della viaggiatrice nel paesaggio
infranga la tradizionale distanza raccomandata dagli estetologi settecenteschi, asserisce
che tale collocazione la pone comunque al centro degli scenari permettendole di rivestire
nel momento in cui li descrive il ruolo di unica protagonista e di “pining heroine”
12
.
Se dunque tale sarebbe a prima vista la volontà dell’autrice, personalmente
ritengo che il luogo che ella elige a “sitedness of looking” dell’intera scena rappresentata
riveli una più ambivalente relazione tra un simile intento e l’esigenza più tipicamente
femminile di protezione e di riparo. Contrariamente alla preferenza dell’archetipico
viaggiatore maschile settecentesco per vedute prospettiche da posizioni elevate, la
Wollstonecraft, rifiutando di osservare l’intera scena dall’alto di un promontorio della
cui adiacenza alla baia fa precedentemente esplicita menzione
13
, sceglie invece di
posizionarsi al riparo di una roccia sul fondo del litorale costiero, posizione di
“arrendevolezza” che mi sembra peraltro accentuata dal suo descriversi talvolta distesa
su di un tappeto muschioso. Tale scelta non farebbe che richiamarmi alla mente la tesi
sostenuta da Jacqueline Labbe la quale individua come specificamente femminili punti di
vista “low, confined and narrow”
14
in quanto, seppure spesso inconsciamente, sono
frequentemente prediletti in poesie e in descrizioni paesaggistiche di donne giacché
replicherebbero la rassicurante sfera domestica. Proprio la ricerca nella natura della
reiterazione di una simile dimensione mi sembra si addica inoltre particolarmente al caso
della Wollstonecraft considerando quanto ella abbia sofferto fin dalla tenera infanzia
oltre che della mancanza di un mondo familiare sereno ed affettuoso, dell’assenza stessa
di una dimora fissa
15
.
12
Granqvist, Raoul, “Her Imperial Eyes: a Reading of Mary Wollstonecraft's Letters Written during a
Short Residence in Sweden, Norway and Denmark”, in Moderna Språk, 91, 1997, p. 22.
13
Wollstonecraft, Mary, SRSND, op. cit., lettera 8, p. 110.
14
Labbe, Jacqueline M., Romantic Visualities, op. cit., pp. 3, 15.
15
Tale era infatti la frequenza con cui il padre, uomo dal temperamento fortemente incostante,
avventurandosi in diverse attività agricole, si trasferiva con moglie e figli da una località all’altra
dell’Inghilterra e del Galles, che ella dichiarerà a Godwin di non sapere con esattezza neppure il luogo di
nascita, se a Londra o in una fattoria nella foresta di Epping. (Cfr. Godwin, William, Memoirs of the
Author of the Rights of Woman, op. cit., pp. 207-208). Successivamente, brevi saranno le illusioni di
felicità familiare accordate dalla convivenza con Fanny e successivamente con Imlay a causa della
prematura scomparsa dell’amica di gioventù e dell’abbandono di colui con il quale tuttavia sperava
ancora di condividere un pacifico modello di vita agrario ritirandosi in una fattoria in America. (Su questo
ultimo punto si veda Swaab, Peter, “Romantic Self-Representation”, op. cit., p. 24).
Il rifugio che abbiamo riportato in un precedente stralcio essere da lei ricercato
tra le ombre dei pini che circondavano le verdi vallate di un paesaggio svedese, rifugio
che veniva da lei letteralmente “rubato” a testimonianza di quanto agognato fosse tale
desiderio
16
, viene dunque ora trovato nel cavo di una roccia, dal quale ella si abbandona
alla contemplazione di ciò che la attornia facendo appello ad una più vasta gamma di
facoltà sensoriali rispetto a quelle convenzionalmente raccomandate dagli estetologi
settecenteschi. (Si pensi a John Baillie, il quale nel suo Essay on the Sublime (1747)
aveva così affermato: “the eyes and ears are the only inlets to the sublime. Taste, smell
nor touch convey nothing that is great and exalted”
17
).
Ponendosi dunque in controtendenza rispetto alle convenzioni dell’epoca, ella,
non accontentandosi di descrivere ciò che i suoi occhi vedono e ciò che le sue orecchie
odono –come il chiacchiericcio delle onde marine nel loro dolce fluire e rifluire fra i
ciottoli della baia, nuovamente reso attraverso l’uso del verbo “to prattle” quasi a voler
rendere umano il loro balbettio inarticolato–, sembra quasi volerci trasmettere la
sensazione tattile della sofficità e della morbida e quasi vellutata consistenza del tappeto
muschioso sul quale è distesa in atteggiamento di completa arresa alle carezze di una
natura che la avvolge con la fragranza della sua brezza rinfrescante. In altri passi, Mary
farà più esplicito riferimento alla sensazione olfattiva della freschezza dei venti nordici
che sono soliti trasportare e diffondere nell’aria la delicata fragranza della rugiada
mattutina che esala dall’erba appena falciata
18
o “the wild perfume” e “the thousand
nameless sweets”
19
del sottobosco delle pinete che si sprigionano a seguito della caduta
di una lieve pioggerella che ella ha spesso visto scendere accompagnata dai raggi del
sole
20
.
È dunque una natura connotata da caratteristiche di grazia, soavità e dolcezza,
quella che sembra qui confortarla, avvolgerla e permeare tutto il suo essere, offrendo
contemporaneamente una simile protezione alle vele bianche che Mary intravede in
lontananza doppiare i promontori quasi alla ricerca del riparo da un sublime oceano che
gli “invitanti” pini di alcuni isolotti sembrano provvedere, mitigando la terrificità ispirata
dal mare. Il carattere della scena osservata, configurabile come pittoresco (in quanto si è
già avuto occasione di rilevare in un precedente stralcio che ella considera tale
16
Si veda l’ultima frase dello stralcio più sopra analizzato tratto dalla lettera 5.
17
Boden, Helen, “Matrilinear Journalising: Mary and Dorothy Wordsworth’s 1820 Continental Tours and
the Female Sublime”, in Women’s Writing, 5:3, 1998, p. 348.
18
Wollstonecraft, Mary, SRSND, op. cit., lettera 2, p. 75.
19
ibidem, lettera 6, p. 99.
20
ibidem, p. 99.
appellativo appropriabile a paesaggi che come questo presentano una commistione di
bellezza/fertilità unitamente a caratteristiche sublimi) mi sembra peraltro accentuato
dall’aura deliziosa e soave che spira dalla veduta rappresentata, richiamandomi
personalmente alla mente il ricordo di una serie di incantevoli vedute portuali illuminate
da struggenti tramonti dorati che sono state dipinte da Claude Lorrain durante la sua
prolifica attività artistica.
Nonostante un lieve senso di movimento permei l’intera scena, sensazione
suggerita ad esempio dal volteggiare dei gabbiani e dal navigare dei velieri,
l’impressione generale che tale descrizione mi comunica è infatti quella di una serena
tranquillità: quieta si prospetta essere l’attesa dei pescatori dopo aver gettato le loro reti,
così come placido è il pascolare delle mucche probabilmente sui “lovely slopes” che si
stendono sinuosi davanti a lei, “lovely” forse perché, per la loro fertilità, tali declivi
provvedono al nutrimento degli animali, così come i piccoli isolotti disseminati
nell’oceano sono connotati similmente dagli attributi di grazia e di bellezza perché
provvedono la linfa vitale ai pini che su di essi si stagliano in tutta la loro magnificenza.
In una natura in cui ogni elemento del mondo naturale-animale è in perfetta
armonia con il mondo umano –conciliazione che trovo possa vedersi simbolicamente
riflessa nel fatto che il luttuoso suono del tarabuso è modulato secondo una cadenza
simile al suono artificiale dei “tinkling bells” applicati dall’uomo al bestiame allevato–,
la Wollstonecraft, dal suo rappresentarsi collocata nell’ambiente presentatoci, spezza
risolutamente ogni residuale separazione con l’ambiente “tuffandosi” prontamente in
esso per prender parte a questa armonizzazione. Ciò che ci presenta è allora un’autentica
dispersione della sua più intima essenza, la sua anima, che, diffondendosi nella scena,
scivola sulle onde lievi e si scioglie nei venticelli freschi accompagnata da una fantasia
che, quasi personificata come una creatura infantile attraverso l’uso del verbo “to tript”,
saltella su magnifici prati, dopo aver preso il volo su magiche ali verso montagne
caliginose, che con le loro vette, si protendono verso l’azzurra volta celeste di fronte alla
cui immensità Mary, commossa e quasi senza respiro, prova un’estasi sublime.
La sua ferace immaginazione l’ha dunque condotta dalla visione di un paesaggio
pittoresco alla trascendenza di un’esperienza sublime, trascendenza che si traduce in una
riverente sottomissione rispecchiata dall’atto del suo genuflettersi al cospetto
dell’immaginato trono del Creatore. Lungi dal rivendicare qualche pretesa di superiorità
su ciò che osserva, la sua esperienza sublime si conclude quindi in una sorta di auto-
annichilimento di fronte all’autorità patriarcale per eccellenza, il supremo Dio del creato.
(continua)