il legislatore verso un definitivo abbandono di tale “avventura” normativa.
Appare, infatti, in dirittura di arrivo l'approvazione del disegno di legge,
presentato dal Governo il 2 luglio 2008 alla Camera dei deputati, contenente
importanti modifiche anche in materia di Giustizia.
L'originario testo del DDL, inizialmente titolato “Disposizioni per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione
della finanza pubblica, e la perequazione tributaria”, è stato profondamente
modificato dagli emendamenti effettuati dalle Camere.
In particolare, e per quel che qui interessa, notevole rilevanza assumono gli
ultimi interventi del Senato, dal momento che, nel testo approvato dalla
Camera e trasmesso al Senato nulla era previsto in tema di processo
commerciale, salvo il disposto dell'art. 39 (ora art. 61), contenente la delega
al Governo ad adottare decreti legislativi in materia di mediazione e
conciliazione in ambito civile e commerciale. In particolare la lettera c) del
terzo comma prevede ancora oggi, tra i criteri direttivi cui il Governo dovrà
attenersi, la possibilità di disciplinare la mediazione “anche attraverso
l'estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n.
5”.
Al contrario, nel testo approvato dal Senato e rinviato alla Camera per la
seconda lettura appare una nuova disposizione dedicata al rito formale misto.
In tale testo è stato introdotto ex novo l'art. 55, rubricato “delega al governo
per la semplificazione dei procedimenti civili”, nel quale è previsto al comma
5° che “gli articoli da 1 a 33, 41, comma 1, e 42 del decreto legislativo 17
gennaio 2003, n. 5, sono abrogati”.
Tale emendamento sembra peraltro esser stato accolto con favore dalla
Camera, in quanto nel testo approvato in seconda lettura non compare alcun
emendamento circa l'articolo in questione.
Attualmente il disegno di legge è stato rinviato al Senato, al quale in data 5
maggio 2009 è stato assegnato, in seconda lettura, l'esame del testo n. 1082-B,
esame che tuttavia non è ancora iniziato.
Qualora, come è presumibile, l'attuale contenuto del disegno di legge, n.
1082-B, dovesse essere definitivamente approvato, ne deriverebbe
l'abrogazione del processo commerciale, e con essa verrebbero meno tutti i
problemi ad esso connessi, tra cui quello che costituisce l'oggetto di questo
lavoro.
Tuttavia, per effetto della previsione contenuta nel comma 6°, del medesimo
art. 55, l'attualità del lavoro qui presentato è tutt'altro che da escludersi. É
infatti previsto in tale disposizione che “gli articoli da 1 a 33, 41, comma 1, e
42 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, continuano ad applicarsi alle
controversie pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge”.
Ne deriva che per tutti i processi commerciali già instaurati, nonché per
tutti quelli che saranno instaurati sino alla data di entrata in vigore di tale
legge, continuerà a trovare applicazione la disciplina introdotta nel 2003,
sopravvivendo con questa tutti i problemi interpretativi che l'accompagnano,
compreso quello che si vuole affrontare con questo lavoro.
05/05/09
Corrado Mattarelli
Capitolo I - Individuazione e delimitazione del
problema della sentenza non definitiva nel rito
commerciale.
Paragrafo 1- Introduzione al problema.
Uno dei tanti problemi che sono sorti a seguito dell'introduzione del
processo formale misto è dato dalla cittadinanza o meno, in tale rito, della
sentenza non definitiva. Ed infatti, anticipando brevemente quanto verrà detto
avanti, una infelice formulazione dell'articolo 11 del decreto legislativo 17
gennaio 2003, n. 5, ha portato la dottrina a dividersi tra sostenitori della
inapplicabilità dell'istituto della sentenza non definitiva e sostenitori della tesi
opposta.
In particolare l'articolo citato, dopo aver previsto al comma primo una serie
di questioni che possono essere oggetto di decisione anticipata del collegio e
per la presentazione delle quali viene imposta la precisazione integrale delle
conclusioni, prescrive, al secondo comma, che “Il tribunale provvede con
ordinanza non impugnabile in ogni caso in cui, decidendo le questioni di cui al
comma 1, non definisce il giudizio”. Analizzando il primo comma si può notare
da subito l'eterogeneità delle questioni elencate in esso; abbiamo infatti, da un
lato, questioni strettamente istruttorie, tra cui questioni relative al
contraddittorio, alla partecipazione di terzi al processo, o all'ammissibilità delle
prove, dall'altro questioni astrattamente idonee a definire il giudizio e, cioè,
questioni pregiudiziali e preliminari di merito. Il primo gruppo di questioni
costituisce quindi a norma delle regole generali del codice di rito il tipico
oggetto del provvedimento avente la forma dell'ordinanza (art. 279, comma 1, e
art. 176, comma 1, c.p.c.) ed è, per quel che qui ci interessa, caratterizzato dalla
mancanza di astratta idoneità a definire il giudizio. Non si pongono dunque, in
relazione a tali questioni, particolari problemi per quanto attiene la previsione,
di cui all'art. 11 d.lgs n. 5 2003, della forma dell'ordinanza per il relativo
1
provvedimento decisorio1, non avendosi in tal caso divergenza tra disciplina
generale del codice e disciplina speciale del processo commerciale.
Per il secondo gruppo, che è invece caratterizzato dalla astratta idoneità di
tali questioni a definire il giudizio, il codice di rito all'art. 279 c.p.c. prevede
che il relativo provvedimento decisorio debba rivestire la forma della sentenza,
e più in particolare della sentenza non definitiva, qualora il giudice decidendo
tali questioni non definisca il giudizio. Il problema sorge, dunque, in relazione
alla previsione del secondo comma dell'art. 11, nella parte in cui rinvia a tutte
le questioni elencate nel comma primo, in quanto, prescrivendo la forma
dell'ordinanza non impugnabile anche nei casi di decisione non definitiva su
questioni pregiudiziali o preliminari di merito, pone una notevole deroga a
quello che è il dettato dell'art. 279 c.p.c..
Ed è proprio la portata di tale deroga a costituire l'oggetto principale
dell'indagine che questo lavoro si propone di affrontare.
Difatti, una volta appurata l'esistenza di tale deroga ai dettami codicistici, si
tratterà di vedere se questa costituisca una regola generale del rito
commerciale, e dunque applicabile a tutti i casi in cui il tribunale si trovi nella
condizione di dover emanare un provvedimento decisorio non definitivo su
questioni pregiudiziali e preliminari di merito, o se questa costituisca all'interno
del rito stesso una mera eccezione, idonea a trovare applicazione solo in
presenza di specifiche e determinate ipotesi, lasciando quindi spazio in via
generale alla disciplina di cui all'art. 279 c.p.c..
Si tratta di un problema di non facile soluzione. La previsione di ordinanza
non impugnabile su tali questioni, ancorchè formulata in termini
apparentemente onnicomprensivi, viene inserita dal legislatore all'interno di un
articolo dedicato ad una fattispecie particolare di “rimessione al collegio” della
causa per la decisione, essendo infatti l'art. 11 rubricato “Istanza congiunta di
fissazione di udienza”. Se ne potrebbe dunque ricavare tanto una
interpretazione restrittiva di tale disposizione, con applicazione strettamente
legata alle sole ipotesi in cui il tribunale si trovi a decidere su questioni
proposte per mezzo di istanza congiunta, tanto una interpretazione estensiva, la
quale, facendo forza sulla formulazione piuttosto generica della norma,
1 Sui problemi che si pongono invece in relazione alla previsione della non impugnabilità di
tale ordinanza vedi infra.
2
porterebbe a ritenere applicabile tale disciplina a tutte le ipotesi di decisioni
non impedienti su questioni astrattamente idonee a definire il giudizio, e quindi
tanto alle ipotesi di istanza congiunta quanto a quelle di istanza singola.
Una volta appurata l'eventuale permanenza della sentenza non definitiva nel
rito in esame, sarà necessario poi procedere ad un'analisi della disciplina ad
essa applicabile al fine di sottolineare eventuali particolarità, rispetto alla
disciplina codicistica, che tale istituto può presentare nel caso di specie.
Un ulteriore problema che si può porre in relazione alla sentenza non
definitiva è infatti dato dal regime impugnatorio applicabile. Ciò in quanto l'art.
20 del decreto, rubricato “forma dell'appello”, nel prevedere al comma secondo
che “si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 341 e seguenti del codice
di procedura civile”, omette il richiamo all'art. 340 c.p.c., dedicato alla riserva
facoltativa di appello contro le sentenze non definitive. Anche qui, laddove non
lo si voglia imputare ad una semplice svista del legislatore, si pongono
all'interprete più soluzioni, potendo l'omesso richiamo rappresentare tanto una
manifestazione della volontà del legislatore delegato di abbandonare
definitivamente la sentenza non definitiva, quanto, al contrario la volontà di
escludere la possibilità di applicare l'art. 340 c.p.c. alle sentenze non definitive
emanate nel corso di tale rito.
Ai fini di un'esaustiva trattazione del fenomeno, sarà poi necessario
analizzare il particolare iter formativo di tale provvedimento, partendo dunque
dalle ipotesi in cui si potrà avere sentenza non definitiva, ed analizzando le
peculiarità che inevitabilmente derivano dalla struttura del processo
commerciale.
Paragrafo 2- Delimitazione oggettiva della
problematica.
Prima di passare all'analisi delle problematiche esposte nel paragrafo
precedente sembra opportuno procedere ad una delimitazione oggettiva di
queste, in quanto, a ben vedere, il problema della cittadinanza della sentenza
non definitiva nel processo commerciale non sembra ricomprendere tutte le
3
ipotesi per le quali il codice di rito prevede l'emanazione di tale
provvedimento.
Norma di riferimento, in tal senso, è sicuramente fornita dal codice all'art.
279 (così come modificato dalla legge 14 luglio 1950, n.581), il quale, sotto la
rubrica “forma dei provvedimenti del collegio”, non solo fornisce un
importante criterio distintivo sulla forma che i provvedimenti, emanati dal
collegio, devono rivestire, ma fornisce anche un fondamentale criterio
distintivo all'interno del più importante tra tali provvedimenti del giudice: la
sentenza. In particolare, dopo l'elencazione dei casi in cui il collegio emana
sentenza definitiva2, al punto quarto del secondo comma è previsto che il
collegio pronuncia sentenza, (anche) “quando decidendo alcune delle questioni
di cui ai numeri 1, 2, 3, non definisce il giudizio e impartisce distinti
provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa”.
Tale disposizione introduce chiaramente nel codice di rito la dicotomia tra
sentenze definitive e sentenze non definitive e, per affrontare la questione
relativa all'ambito oggettivo della deroga posta dall'art. 11 del d.lgs 2003,
sembra opportuno muovere proprio dalla casistica offerta dallo stesso articolo
279 c.p.c., al fine di ricercare, dunque, eventuali ipotesi di sentenza non
definitiva previsti dal codice e non derogati dal decreto in esame.
Dall'analisi dell'art 279 n. 4 possiamo dire che il collegio emanerà sentenza
non definitiva:
1) quando decidendo questioni di giurisdizione o di competenza, non
definisce il giudizio;
2) quando decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o
questioni preliminari di merito, non definisce il giudizio;
3) quando non decidendo totalmente il merito non definisce
(totalmente) il giudizio3.
2 Ex art. 279, comma secondo, “Il collegio pronuncia sentenza: 1) quando definisce il
giudizio, decidendo questioni di giurisdizione o di competenza; 2) quando definisce il
giudizio, decidendo questioni pregiudiziali attinenti al processo o questioni preliminari di
merito; 3) quando definisce il giudizio, decidendo totalmente il merito”.
3 É questa la lettura invertita dell'art. 279, comma 2, n. 4, nella parte in cui rinvia al n. 3 dello
stesso comma. Al n. 4 è previsto che il collegio pronuncia sentenza, “quando, decidendo
alcune delle questioni di cui ai numeri 1, 2 e 3, non definisce il giudizio”. Al n. 3 è previsto
che è emanata sentenza “quando (il collegio) definisce il giudizio, decidendo totalmente il
merito”.
4
Ora dalla comparazione dell'art. 279 c.p.c e dell'art.11 appaiono evidenti due
elementi: il primo, dato dal fatto che il legislatore nella formulazione dell'art.
11 ha voluto, almeno nei casi di proposizione di istanza congiunta per la
risoluzione di questioni, derogare al dettato dell'art. 279 c.p.c comma 2, nella
parte in cui esso dispone l'emanazione di sentenza non definitiva per decisioni
relative ai punti 1 e 2. Tale evidenza risulta dal combinato disposto del comma
1 e comma 2 dell'art. 11, da cui si evince che il tribunale provvederà con
ordinanza non impugnabile (in luogo della sentenza non definitiva prescritta
dal codice) in ogni caso in cui, decidendo le questioni di cui al comma 1, non
definisce il giudizio. Avendo già visto che tra le questioni elencate nel primo
comma vi sono quelle pregiudiziali di rito o preliminari di merito, sembra
sufficiente qui sottolineare come in tale formulazione risulti espressa la deroga
ai dettami dell'art. 279 c.p.c., non essendovi alcun dubbio sulla possibilità di
ricomprendere nel concetto di “questioni pregiudiziali di rito e preliminari di
merito”(di cui all'art. 11), tanto le questioni di giurisdizione e di competenza,
quanto le questioni pregiudiziali attinenti al rito e preliminari di merito, di cui
all'art. 279 c.p.c..
Il secondo elemento che appare evidente è dato dal fatto che dall'espressa
deroga ai dettami dell'art. 279 c.p.c. rimane esclusa la terza ipotesi in cui il
collegio emana sentenza non definitiva. Tale terza ipotesi è desumibile dal
combinato disposto dell'art. 279 c.p.c., comma 2, n. 4, nella parte in cui rinvia
al n. 3 dello stesso comma, in cui si disciplina il caso in cui il giudice, non
decidendo totalmente il merito, non definisce il giudizio. Premettendo
brevemente che tali ipotesi sono da ricondursi ai casi di decisioni limitate al
solo an debeatur, di cui all'art. 278 c.p.c, e di decisioni su alcune delle
domande proposte, di cui all'art. 277 c.p.c., comma 2, si deve qui rilevare come
nell'art. 11 tali ipotesi non siano assolutamente contemplate, così come non vi è
in tutta la regolamentazione del processo commerciale nessuna norma che
contempli tali provvedimenti. Dalla mancanza di una qualsivoglia
manifestazione del legislatore di predisporre particolari regole per tali
provvedimenti sembra doversi desumere che questi, anche nel rito in esame,
continueranno a trovare applicazione nelle forme previste dal codice.
5