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nella sua vita, non etichetteremo un’opera come figlia di un modo di pensare
settoriale o di categoria, ma la considereremo come l’espressione contemporanea di
entrambe le anime di questo grande poeta che ora possiamo definire con il più ampio
e neutro termine di pensatore, giacché questo fu in ogni aspetto del suo scrivere.
Sarebbe capzioso intendere i Canti e gli Idilli come il risultato di una ricerca
prettamente poetica, avulsa da una indagine filosofica che, seppur non intesa nel
modo tradizionale e speculativo, fu sempre presente e volta alla comprensione
dell’essere umano e della sua presenza sulla faccia della terra (vedremo più avanti in
quali termini). Altrettanto controproducente risulterebbe leggere lo Zibaldone come
un diario (non che non sia presente una forte componente autobiografica, ma il dato
anagrafico non è mai fine a se stesso, serve, piuttosto, come punto di partenza per
arrivare al generale) o l’effetto di considerazioni personali, saltuarie ed estemporanee,
sia perché l’autore stesso non seppe dar nome a quest’informe materia, sia perché fu
diametralmente l’opposto, ossia una ricerca introspettiva che parte dall’individuale
per giungere ad un’analisi collettiva dell’intero genere umano.
Non potendo, ovviamente, ripercorrere le tappe che hanno contraddistinto l’esegesi
leopardiana, basterà, in questa sede, citare soltanto le due fasi principali, secondo un
ordine temporale ma anche qualitativo; opereremo i dovuti distinguo quando ci
addentreremo nell’argomentazione specifica.
La letteratura critica, fino ai primi decenni del secolo scorso, stazionava su posizioni
estetiche quasi manichee, facenti capo alle vedute di Benedetto Croce il quale, nella
sezione dedicata a Leopardi nel suo Poesia e non poesia, distingueva in maniera
precisa gli esiti letterari in base ad un’asettica classificazione, privando, dunque, la
poesia di spessore filosofico e, al tempo stesso, la riflessione dello Zibaldone e dei
saggi del gusto prettamente estetico, tutto in nome del principio di congruenza tra
forma e contenuto che derivava dalla tradizione critica ottocentesca e dal De Sanctis,
principio che cessa di essere giusto e utile quando compromette la piena fruibilità di
un’opera.
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Riguardo l’oggetto leopardiano, nella seconda metà del novecento, le interpretazioni
hanno prediletto una linea meno rigida, accostandosi diversamente alle varie
tematiche, ma pur sempre nel rispetto della complessità dell’autore; le linee guida, da
cui si traggono alcune considerazioni e riflessioni in questo testo, fanno capo
principalmente agli scritti di Luporini, di Solmi e di Timpanaro (e soprattutto alla
diatriba intellettuale tra questi ultimi, in merito alle due ideologie sulla natura), di
Colaiacomo e altri contributi che segnaleremo di volta in volta.
Oltre queste difficoltà generali e sistematiche, in Leopardi esiste almeno un’altra
problematica legata al rapporto contenuto-forma, dato che il primo (vale a dire quel
che troviamo scritto nei testi) complica l’estrinsecazione della seconda (ora intesa
come struttura da dare al nostro saggio). Per essere più chiari si potrebbe usare una
metafora di tipo spaziale: la fluidità del pensiero leopardiano s’esprime con carattere
orizzontale, cioè senza un preciso ordine cronologico di sequenzialità, ma disponendo
i concetti come su un piano, usufruendo del diritto di richiamo e del rimando
vicendevole tra i pensieri (ci stiamo riferendo allo Zibaldone ma non solo), mentre un
tentativo ermeneutico, di per sé più arido, ha il compito di dare un filo interpretativo
verticale, cercando, allo stesso tempo, di non cristallizzare con schemi predefiniti un
magma letterario che piace proprio per questa sua prerogativa di sfuggevolezza. Il
nostro tentativo, pertanto, sarà quello di verticalizzare questo “pensiero in
movimento” (come lo ha definito Solmi) pur sempre rispettando i criteri d’onestà
intellettuale che possano permetterci di non fraintendere il “sistema” (come lo stesso
Leopardi definì i suoi scritti). Per raggiungere questo obiettivo, e con esso almeno un
barlume interpretativo del concetto di natura, saremo costretti a dividere lo studio
delle opere in tre diversi settori per quanto riguarda, rispettivamente, lo Zibaldone,
l’attività poetica e le Operette morali, sperando che segmentare ci porti ad una
postazione più alta e ad avere un complessivo “colpo d’occhio” sulla filosofia pratica
di Leopardi.
Useremo un sistema; coerentemente con la strategia dell’autore stesso che ci ha
edotti a riguardo (valga sia come struttura di base del nostro operare che come
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assaggio zibaldonesco, tra l’altro tangente l’idea di natura), dato che l’eccessivo amor
dei sistemi è da condannare ma non s’è mai visto un vero pensatore che non ne abbia
adottato uno proprio o preso in prestito uno di qualcun altro.
Si condanna, e con gran ragione, l’amor de’ sistemi, siccome
dannosissimo al vero, e questo danno tanto più si conosce, e più
intimamente se ne resta convinti, quanto più si conoscono e si esaminano
le opere dei pensatori. Frattanto però io dico che qualunque uomo ha
forza di pensare da sé, qualunque s’interna colle sue proprie facoltà e,
dirò così, co’ suoi propri passi, nella considerazione delle cose, insomma
qualunque vero pensatore, non può assolutamente a meno di non
formarsi, o di non seguire, o generalmente di non avere un sistema. (Zib.
945)
1
.
Questo esempio ci fa capire esattamente il modo in cui Leopardi lavora, mettendo in
campo tutta la sua ampiezza di riflessione. Infatti, abbiamo appena assistito alla
capacità di compresenza logica di due contrari, un attimo prima afferma e subito dopo
sembra smentire quel che ha appena detto; in realtà, la sottigliezza del suo pensiero,
nello Zibaldone, ma non solo, sta proprio nel riuscire a divincolarsi da queste
complicatissime situazioni al limite del paradosso, usando una tecnica osmotica che
mira alla sfumatura dei contrasti semantici, risolvendo l’opposizione dialettica non in
un momento finale di sintesi, ma quasi negando l’opposizione stessa, azzerandola a
monte, andando alla ricerca di cavilli nella sua personalissima etimologia dei termini.
In questo caso specifico, Leopardi se la caverà adducendo che il vero pensatore deve
occuparsi delle relazioni tra le verità e quindi ha bisogno d’un sistema che gli permetta
di generalizzare (cioè partire dal dato particolare, per ricavare constatazioni d’ordine
generale, meglio noto come metodo induttivo). Il contrario, il metodo deduttivo, è un
errore del pensiero, perché si parte da alcune idee generali e preconcette per analizzare
1
Da questo momento in poi, s’useranno come riferimento i brani dello Zibaldone indicando il numero di pagina
dell’autografo, segnalato in ogni caso nella stragrande maggioranza delle edizioni.
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la multiformità della realtà (a questo punto, si dovrebbe parlare della conformabilità
del pensiero, ma si divagherebbe troppo). Ed è esattamente questo che Leopardi
intende per “amor de’ sistemi”, l’ostinazione ad adottare un dato metodo, il tentativo
di comprimere entro una forma rigida un contenuto malleabile (così s’esprime in Zib.
947-949). Per complicarci ulteriormente la vita, completiamo la citazione
collegandoci a Zib. 1089, in cui aggiunge che “…poi le cose hanno un certo sistema,
sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un piano. Sia che si voglia supporre
tutta la natura ordinata secondo un sistema, tutto legato ed armonico e corrispondente
in ciascuna sua parte”. Ci troviamo di fronte all’esatto contrario di quanto affermato in
precedenza, quando si diceva che la realtà non era da esaminare tramite schemi
prefissati, mentre ora c’è una mente organizzatrice, la natura. A questo punto
sembrano esserci due sistemi inconciliabili, uno dell’uomo e uno della natura stessa.
Leopardi se la cava ancora una volta dicendo che la filosofia è l’incontro tra questi
due sistemi, gli “speculatori”, infatti, dovranno trovare un sistema che vada d’accordo
con quello già organizzato; ma alla fine si ammette che nessun sistema può servire a
conoscere la realtà, perché ogni verità è legata ad altre, ma nessuna si può conoscere
fino in fondo, figurarsi ogni legame, il che equivale a dire che nulla è alla nostra
portata. Ancora una volta Leopardi annulla la dicotomia netta alla sua base. Il
principio che soggiace a questo modo di pensare (tipico non solo dello Zibaldone) è
quello del relativismo assoluto e il sistema della natura dovrà continuamente fare i
conti con esso.
Ad un esame più attento possiamo permetterci di definire non più al limite del
paradosso, ma pienamente paradossale, il modo di procedere leopardiano; il paradosso
è comunemente inteso come una proposizione in apparente contraddizione con
l’esperienza comune, o comunque con i principi elementari della logica, ma che si
dimostra valido ad un esame critico; etimologicamente parlando, però, è
semplicemente il composto di “para” e “doksa”, e se questa può essere presa
nell’accezione di “opinione” [ma significa anche gloria, onore, credenza (afferente
alla sfera mitica) e arcobaleno], per quanto concerne “para” non possiamo limitarci a
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tradurlo con “prossimità” e “vicinanza” perché, per un slittamento semantico
(affascinantissimo linguisticamente parlando), significa anche “relazione secondaria”
e quindi “deviazione”, “alterità”. Come non riconoscere in questi termini la specialità
dell’indagine leopardiana? In ogni trattazione dei suoi vari concetti pare permanere
esattamente questo modus operandi: s’inizia da un punto A e per uno slittamento
semantico, che può essere di tipo terminologico, contenutistico o semplicemente
logico, si giunge alla formulazione del pensiero finale che, preso come valore assoluto
e fine a sé stesso, contraddice il punto d’origine, ma che, sotto il vaglio d’un’analisi
più scrupolosa, dimostra d’essere soltanto il momento d’approdo d’un qualcosa a cui
Leopardi pareva tendere da sempre e che si sia rivelato come d’un sol colpo, come una
ricercata e sudata epifania.
A questo proposito, sembra più che interessante e, anzi, doveroso prendere in prestito
un’arguta affermazione che Colaiacomo propone in una nota del suo saggio sullo
Zibaldone, che riguarda un passo specifico di esso (Zib. 4087, sulle contraddizioni
della natura), ma che opportunamente possiamo utilizzare come metodo generale per
interrogare l’intero corpus leopardiano. Precisamente:
Non è facile determinare con assoluta certezza il senso della domanda che
conduce l’appunto. Non mi sembra tuttavia probabile che essa esprima
sbalordimento dell’autore, come di fronte ad un risultato completamente
inatteso della propria stessa indagine. Mi sembra, piuttosto, che essa
esprima qualcosa come il senso di un punto fermo finalmente raggiunto
dopo un estenuante lavorio del pensiero, che proprio quel punto fermo era
intenzionato a raggiungere […]. Piuttosto sembra più verosimile che il
presentarsi all’immaginazione del mito negativo della natura e la
riflessione filosofica sull’impossibiltà della felicità o del piacere, abbiano
costituito fin da sempre una concomitanza, che il “filosofo” ha tuttavia per
lungo tempo deliberatamente censurato. Per questo a me sembra che la
domanda finale del passo esprima piuttosto il senso liberatorio per un
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“risolversi” del pensiero, giunto dopo un lunghissimo “attendere”, e che
nessuno potrà ormai porre in dubbio.
2
Ora, ritenendo di poter sottoscrivere pienamente questo principio d’analisi, ci
sentiamo autorizzati a procedere in questo senso, a vedere Leopardi come un autore
complesso e sistemico. Senza dimenticare che non fu mai filosofo in senso stretto, col
valore tradizionale di pensatore speculativo, bisogna riconoscergli una assoluta
originalità di pensiero, contemporaneamente vicina e lontana (e dunque ancora una
volta paradossale) alla dialettica storica facente capo a Hegel e che riconosceva un
movimento dialettico di tipo triadico, ossia una tesi alla quale faceva da contraltare
una antitesi e che insieme si risolvevano in un momento di sintesi finale. Nel nostro
caso invece, è come se si partisse da ciò che assolutamente non è (anche se durante
l’esposizione concettuale il polo negativo iniziale sembra essere pienamente
legittimato ad esistere e non abbiamo difficoltà alcuna a ritenerlo accettabile) per
scoprire l’esatto contrario, il momento di sintesi è mediano e soprattutto puntuale, cioè
istantaneo e non definitivo, è solo l’attimo in cui si accende la miccia della svolta che
porta al polo positivo. Riassumendo e usando la terminologia hegeliana, potremmo
riepilogare sostenendo che la dialettica in Leopardi fu: antitesi-sintesi-tesi.
Inoltre, occorre ricordare che Leopardi usava strumenti non suoi quando s’inerpicava
per queste strade in salita, basti pensare a come egli non diede mai (o quasi)
definizioni precise dei termini usati, infatti, nonostante li applicasse con rigore
metodico, “Leopardi non si preoccupa affatto di dirci che cos’è natura, che cos’è
ragione. Egli non suole porsi siffatte domande […]. Questi termini, abbiamo già detto,
più che concetti sono personaggi di un dramma”
3
. Oltre che l’apprezzabile metafora,
attingiamo da Luporini il tentativo che farà, poco avanti, di dare una definizione di
2
Claudio Colaiacomo, Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, in Letteratura italiana. Le opere vol. III, Einaudi,
Torino, 1995, pag. 247.
La domanda alla quale si fa riferimento è “Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?” la chiusa del pensiero
in questione, in data 11 maggio 1824, che , come vedremo è il periodo in cui trovano forma i vari spunti, già espressi
altrove, sulla possibilità del male nella natura e la revisione della teoria del piacere.
3
Cesare Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma, 1980, pag. 9
10
natura e ragione, dal risultato non esaustivo, ma che ci permette di avvicinarci
ulteriormente al cuore del problema:
[…] natura è tanto l’impulso spontaneo, indipendente dalla ragione,
quanto l’insieme dei fenomeni <<naturali>> e la forma immanente che li
regge e li connette, dominata anch’essa dal momento della spontaneità, e
per esso esaltata e congiunta col momento passionale ed emotivo
dell’uomo.”, ma il “concetto leopardiano di natura […] ha un valore
nuovo, […], è il valore della vitalità.
4
[…] per quanto acuta e, sotto certi aspetti, radicale sia l’antitesi che il
Leopardi pone fra ragione e natura, essa non è un’antitesi assoluta e
diciamo così metafisica. La ragione non viene condannata in se stessa, ma
piuttosto in certe sue conseguenze che si sono prodotte sul terreno
empirico e storico. La ragione che viene condannata è una ragione storica,
[…], questa posizione gli permette di contrapporre a questa ragione che
egli chiama <<acquisita>>, una ragione naturale che non è altro che il
germe e l’elemento originario della prima, visti in <<natura>>.
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Luporini giustifica le sue affermazioni citando alcuni passi importanti dello
Zibaldone, quali: Zib. 375 del 3 dicembre 1820, Zib. 657 del 14 febbraio 1821 e Zib.
1825 del 1 ottobre 1821.
La natura mostrerà palesemente, in seguito, la sua origine bifronte e cercheremo di
captarne ogni minima sfaccettatura ed evoluzione (ovviamente seguiremo dei tracciati
critici già segnati e proveremo a trarre le nostre conclusioni).
A questo punto crediamo di aver motivato abbastanza l’affermazione circa
l’orizzontalità della riflessione leopardiana e l’opportunità della sua verticalizzazione
in fase espositiva. Ora, dato che ogni piccola intuizione ha dei fortissimi richiami intra
e inter-testuali, prima di analizzare passo per passo il concetto di natura (in relazione
4
ID, pag. 40.
5
ID, pag. 44.
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alla ragione, alle illusioni, alla teoria del piacere, etc.), dobbiamo sondare brevemente
quali furono le fonti principali dell’indagine leopardiana, su quali testi contemporanei
e/o precedenti il pensatore si formò e, soprattutto, quali influenze questi ebbero sui
suoi modi di vedere la realtà e di (de)scriverla. Possiamo anticipare sin d’ora che ci
muoveremo in ambito materialistico e illuministico. Insomma, la nostra investigazione
non può prescindere dall’analisi dei rapporti che intercorsero tra Leopardi e il
Settecento.
LEOPARDI E IL SETTECENTO
Bisogna premettere che gli sterminati studi del giovane Giacomo non furono metodici
e organici, ma certamente di grande spessore, quindi, per gli spunti che trasse dagli
autori frequentati, si deve parlare di vaghi suggerimenti piuttosto che di vere e proprie
influenze dirette. Riprendendo un saggio di Mario Sansone
6
, capiamo che, le
componenti formative del giovane pensatore furono inizialmente numerose, ma la
maggior parte di esse andò scemando o comunque non risultò efficace nelle sue
elaborazioni successive. Basti pensare al fattore religioso tanto imponente in ambito
paterno-recanatese quanto modificato in seguito (o, meglio, accettato come
dispensatore d’illusioni), o alla filosofia propria degli antichi che Leopardi tanto amò
come popolazione vicina alla natura ma di cui non ammirò certo le dottrine (per es.
valgano Platone e la sua teoria delle idee e lo stoicismo che Leopardi interpretò come
teoria del non fare). Il settecento invece, fu pregno di concezioni illuminanti ed è da
qui che possiamo far derivare gran parte della “metafisica” leopardiana (che di fatto
non esistette).
6
Mario Sansone, Leopardi e la filosofia del settecento, in Leopardi e il settecento. Atti del I convegno internazionale di
studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1962) , Leo S. Olschki Editore, Firenze, 1964