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dalla RUR (Rete Urbana delle Rappresentanze), in collaborazione con il Censis e il
Formez.
Descrizione capitoli
Nel primo capitolo è tracciata l’evoluzione del ruolo che ha ricoperto la
comunicazione pubblica in Italia, a partire dalla fine degli anni 70, anni in cui l’interesse
per la comunicazione delle istituzioni pubbliche era subordinato a quello per il sistema
informativo, fino ad arrivare agli anni 90 in cui il rinnovamento dell’amministrazione
pubblica divenne finalmente una priorità e al proprio interno la comunicazione venne
considerata come la risorsa strategica per attuare interventi innovatori.
Nel secondo capitolo sono presentati i dati relativi alla ricerca del Censis, Rur e
Formez sulle città digitali, svolta nel corso del 2001-2002. Nel momento in cui le PA
iniziano a considerare Internet come uno dei canali principali di comunicazione
istituzionale, si fanno promotrici di iniziative telematiche che hanno come obiettivo
l’innovazione e la modernizzazione del governo pubblico. Questa fase vede la crescita
esponenziale della presenza on line di siti istituzionali, che giunge ormai praticamente al
completamento: tutte le regioni e le province hanno un sito Internet mentre tra i comuni
capoluogo di provincia si lamenta una sola assenza (il comune di Agrigento).
Il terzo capitolo intende illustrare le linee guida e la metodologia utilizzata, descritta
fase per fase, per l’analisi dei siti istituzionali scelti come campione. Viene costruito lo
schema della comunicazione via web partendo dallo schema classico di Jacobson, e
cercando di metterne in risalto analogie e differenze con il processo comunicativo
tradizionale. La metodologia utilizzata per l’analisi dei siti è caratterizzata da tre distinte
fasi: la fase analitica, che prevede la descrizione di ogni singolo elemento che prende parte
al processo comunicativo on line (mittente, destinatario, codice, contatto, interazione, ecc.);
la fase operativa, che ha come obiettivo la verifica dell’usabilità dei siti considerati; la fase
valutativa che, oltre a dare un giudizio obiettivo (scaturito dai risultati ottenuti con le
precedenti analisi), mira a presentare un confronto, attraverso lo schema di confronto, tra i
siti analizzati.
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Dal quarto capitolo, invece, si entra nel vivo della ricerca: viene presentata l’analisi
del portale nazionale www.italia.gov.it (piazza virtuale nella quale i cittadini incontrano
una amministrazione amica, più semplice da comprendere e da raggiungere) ed un breve
excursus sui casi internazionali.
Il quinto capitolo è dedicato ai portali regionali: il Lazio, un primo esempio di
portale dei servizi in rete con l'obiettivo di semplificare l'accesso ai cittadini e permettere
una facile navigazione attraverso la molteplicità dei sevizi offerti; la Basilicata, prima
regione europea ad adottare un progetto per rendere concreto l’approccio alle tecnologie
digitali per tutti i suoi cittadini. “Un computer in ogni casa” è il nome del piano regionale
per lo sviluppo della società dell’informazione (BASITEL). La Lombardia, un sito che,
praticamente, contiene l’intera regione, di grosse dimensioni, dotato di numerose aree
tematiche, ragionate e ben organizzate; e, infine, il Piemonte che il 20 aprile 1998 ha siglato
con l'AIPA (Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione) la convenzione per
realizzare la Rete telematica piemontese (RUPAR).
Il capitolo sei è dedicato all’analisi dei portali di quattro grandi città: Roma, che ha
istituito questo servizio per consentire ai cittadini un più ampio accesso all’informazione
istituzionale, alle iniziative e alle politiche comunali in genere; Milano con le sue due
importanti aree tematiche dedicate ai servizi al cittadino e alle imprese, dove i servizi
erogati iniziano e si concludono on line; Bologna, che con la sua storica rete civica
Iperbole, è la prima regione in Europa ad offrire gratuitamente il collegamento ad Internet;
e, infine, Modena che si è fornita, attraverso il sito Internet, di un sistema informativo
territoriale in grado di acquisire, organizzare, archiviare, gestire ed elaborare dati e
informazioni relativi al territorio. Obiettivo è quello di promuovere lo sviluppo grazie ad
una maggiore partecipazione dei cittadini.
Un capitolo a parte (cap. 7) è dedicato all’accessibilità dei siti per i portatori di
handicap, un problema ancora ignorato dai webmaster a vantaggio del sito bello a tutti i
costi.
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Il capitolo conclusivo (cap. 8) intende proporre soluzioni efficaci al raggiungimento
del sito ideale attraverso l’utilizzo di determinati strumenti telematici che permettano
maggiore partecipazione e soddisfazione degli utenti.
In appendice sono riportate informazioni aggiuntive, documenti e newsletters in
merito agli aggiornamenti, ai provvedimenti presi e alle innovazioni raggiunte fino ad oggi
in materia di comunicazione pubblica, dal momento che questo si rivela un campo in
continua evoluzione.
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CAP. 1 – LA COMUNICAZIONE PUBBLICA
1.1 – Il contesto
Non c’è accordo tra gli studiosi di comunicazione pubblica su cosa si intende con
questo termine. Il disaccordo si focalizza, da un lato, sulla descrizione dei contenuti e sulla
definizione dei confini della materia; dall’altro, sull’utilizzo dell’espressione stessa
comunicazione pubblica, di cui, spesso, si propone la sostituzione con altri termini.
Il consenso pressoché unanime, invece, ricade su ciò che la caratterizza: il proprio
oggetto, individuabile nell’interesse generale. Per comunicazione pubblica, quindi,
possiamo intendere l’insieme dei processi di comunicazione caratterizzati dai loro oggetti,
di pubblico interesse, più che dai soggetti agenti.
Proprio perché si caratterizza per gli oggetti, è possibile sostenere che i soggetti
possono essere, in astratto, sia le istituzioni pubbliche sia quelle private, tenendo conto che
non si tratta di una contrapposizione tra due soggetti che da soli riempiono tutto il campo
delle possibilità, ma di due soggetti che si trovano ai due estremi di un continuum,
all’interno del quale vi sono parecchie istituzioni e organizzazioni che presentano, a volte,
caratteristiche di entrambi. Vi sono, infatti, soggetti di diritto privato che, come gli organi
politici e, in una certa misura, anche gli organi d’informazione, s’impegnano con regolarità
nella produzione di pratiche discorsive su temi di interesse generale e soggetti privati, come
molte associazioni civiche, che si attivano anch’esse su tematiche di carattere generale. È
chiaro che una delle distinzioni rilevanti tra questi soggetti è sul dovere o sulla volontarietà
che li lega ai processi di pubblicizzazione.
La caratterizzazione di quel campo vasto che è la comunicazione pubblica, si
evidenzia con più chiarezza quando si passa a definire i tre ambiti specifici che
costituiscono, a parere di molti studiosi, la comunicazione pubblica:
• la comunicazione dell’Istituzione Pubblica;
• la comunicazione di Solidarietà Sociale;
• la comunicazione Politica.
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La comunicazione dell’Istituzione Pubblica
La comunicazione dell’istituzione pubblica pone problemi di carattere
terminologico e tassonomico in relazione ai soggetti, agli oggetti e alle funzioni.
Proviamo a definirla partendo dal famoso postulato di Lasswell che formulò per
delimitare il campo della comunicazione di massa, ma che qui può tornarci utile per capire
quello relativo alla comunicazione istituzionale: chi dice cosa a chi, attraverso quali canali
e con quali effetti.
• Chi: la comunicazione dell’istituzione pubblica è quella
comunicazione realizzata da una pubblica amministrazione (o ente pubblico o
servizio pubblico) sia centrale che periferica e riconosciuta come tale;
• Dice cosa: pubblicizza la produzione normativa, le attività, le
funzioni, l’identità e il punto di vista dell’amministrazione;
• A chi: ai cittadini o alle organizzazioni, quando si presenta come
comunicazione esterna diretta; ai mass media, quando vuole raggiungere i cittadini
o le organizzazioni attraverso la mediazione delle testate informative; a chi opera
all’interno delle istituzioni pubbliche, quando si presenta come comunicazione
interna;
• Attraverso quali canali: utilizza, in maniera possibilmente integrata,
tutti i media a disposizione (dalle bacheche alle nuove tecnologie in rete);
• Con quali effetti: garantire ai cittadini il diritto di informazione
(principalmente quale diritto di informarsi e di essere informati); costruire e
promuovere l’identità dell’ente pubblico per rafforzare i rapporti tra i dipendenti
pubblici e l’amministrazione, da un lato, e tra i cittadini e l’ente stesso, dall’altro;
offrire ai cittadini la possibilità di esprimere in maniera attiva e sostanziale i propri
diritti; produrre un radicale cambiamento di mentalità all’interno della pubblica
amministrazione, che dovrà riconoscere la comunicazione quale risorsa strategica
per la definizione dei rapporti con i cittadini.
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La comunicazione di solidarietà sociale
L’incremento di questo tipo di comunicazione pubblica è funzione diretta
dell’aumento, anche in Italia, di soggetti non pubblici che si attivano per il raggiungimento
di obiettivi di interesse generale, come l’associazionismo civico che chiede il
riconoscimento di nuovi diritti (associazionismo non profit).
Questi soggetti, talvolta anche insieme all’amministrazione pubblica, realizzano
campagne di comunicazione di solidarietà sociale, attraverso l’adattamento dei principi del
marketing e della pubblicità commerciale che ha dato luogo al marketing sociale
1
e alla
pubblicità di solidarietà sociale
2
. Le principali componenti in cui si articola la
comunicazione sociale sono:
• Il tipo di offerta: l’oggetto principale dello scambio implicato in
queste campagne è costituito dalle idee piuttosto che da beni tangibili e servizi. Le
idee oggetto di scambio sono alla base di valori, atteggiamenti e comportamenti che
diventano cause sociali nel momento in cui si diffonderanno al punto di diventare
temi di rilevanza collettiva;
• Il carattere dell’offerta: i temi di solidarietà sociale affrontati in
queste campagne devono rivestire un carattere non controverso. La comunicazione
di solidarietà sociale si differenzia da quella politica in quanto quest’ultima si
confronta anche con temi assolutamente controversi ed è promossa da politici e
candidati: un tipo di offerta estranea alla comunicazione di solidarietà sociale;
1
- Se il marketing consiste nello scambio di valori assolutamente eterogenei, quindi non necessariamente di
natura economica, tra due parti, che possono essere costituite anche da singoli individui, enti pubblici e
organizzazioni non profit, l’estensione del campo di applicazione del marketing a ciò che viene definito come
il sociale appare una conseguenza quasi naturale. Kotler parla di social marketing per indicare il fine ultimo
dell’azione di marketing che consiste nell’aumento dell’accettabilità di una causa o di un’idea sociale,
attraverso l’applicazione di concetti fondamentali quali la segmentazione del mercato, la facilitazione, gli
incentivi e la teoria dello scambio per massimizzare la risposta del gruppo che costituisce il target principale
dell’intervento.
2
- Nel 1970 si costituisce l’organizzazione privata non profit Pubblicità Progresso come Comitato di
Pubblicità Progresso. Obiettivi principali erano: realizzare campagne di utilità sociale; dimostrare che le
tecniche pubblicitarie potevano essere adattate anche a fini pubblici, sollecitando, così, l’interesse della PA;
promuovere un’immagine positiva della pubblicità, in quegli anni contestata da molti che la individuavano
come uno strumento di manipolazione e di induzione di falsi bisogni. Tra le prime campagne realizzate quella
del 1971 era a favore della donazione del sangue, nel 1973 si intervenne a favore del verde, poi una campagna
sulla pulizia dei centri abitati e, nell’inverno 1975-76, la celebre “Chi fuma avvelena anche te. Digli di
smettere”.
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• La finalità dell’offerta: la soluzione di problemi di interesse generale
e collettivo, ottenuta attraverso modificazioni degli atteggiamenti e comportamenti
di singoli individui o di precisi segmenti di popolazione.
La comunicazione politica
La comunicazione politica è qui intesa come quella forma di comunicazione che ha
ad oggetto sì temi di interesse generale ma anche di carattere esplicitamente controverso e
che emana, principalmente, da istituzioni private particolari quali i partiti politici, e da altre
istituzioni sia private che pubbliche. Questa definizione individua i cittadini, quali soggetti
di comunicazione politica, nella loro veste non tanto di cittadini utenti, come nel caso della
comunicazione delle istituzioni pubbliche, quanto di cittadini elettori.
1.2 – Gli anni 80: il sistema dei media come priorità
Negli anni settanta entrò in crisi, in tutta Europa, quello sviluppo del sistema
radiotelevisivo pubblico che aveva caratterizzato l’espansione dell’emittenza radiofonica,
prima, e televisiva, poi.
Le cause della crisi del sistema radiotelevisivo erano, sostanzialmente, quattro:
1. molte associazioni culturali e organizzazioni politiche e sociali richiedevano
ai responsabili degli enti televisivi una maggiore partecipazione e un reale diritto di
accesso;
2. nelle emittenti nazionali cresceva la richiesta degli operatori interni di
ottenere alcuni cambiamenti nell’organizzazione del lavoro che tenessero
maggiormente in considerazione le loro competenze;
3. le stesse classi dirigenti, che tendevano ad utilizzare le stazioni radio e
televisive pubbliche come mezzi per aumentare il proprio consenso e per promuovere
forme di propaganda, più o meno mascherata, si rendevano conto che questo utilizzo
strumentale era considerato un abuso da un numero crescente di cittadini;
4. aumentavano le pressioni delle istituzioni economiche contrarie al
monopolio pubblico e favorevoli alla libertà d’antenna.
11
Il sistema pubblico radiotelevisivo, sottoposto a una dura contestazione originata da
posizioni politiche divergenti, fu scosso, nel corso della seconda metà degli anni settanta e
nella prima parte degli anni ottanta, da processi di riforma che ne modificarono anche la
forma statuaria.
In questo clima di grande incertezza, e di fronte all’apertura di sempre nuove
emittenti locali, la Corte Costituzionale assolse un ruolo di vera e propria supplenza del
sistema politico: con la sentenza n. 202 del luglio 1976 definì le caratteristiche di originalità
del caso italiano rispetto alla situazione degli altri paesi europei. La Corte, sulla base di dati
tecnici, affermò che non era possibile sostenere ancora sia la limitatezza tecnica dei canali
per le trasmissioni via etere locali, sia la presenza del rischio di costituire monopoli od
oligopoli, concludendo che non sussisteva più alcun motivo di comprimere il principio di
libertà sancito dall’art. 21 della Costituzione. Questa liberalizzazione di fatto portò, nel giro
di pochi anni, a quella fase di esplosione del numero di emittenti che superò la realtà di
ogni altro paese: alla fine degli anni settanta si era giunti al censimento di circa 500
emittenti televisive locali e tra 2.000 e 2.500 emittenti radiofoniche.
Fino all’inizio degli anni settanta, le imprese erano orientate quasi esclusivamente al
prodotto, il consumo era considerato una funzione passiva della produzione, la pubblicità
coinvolgeva solo poche aziende dei settori di largo consumo e i prodotti di marca erano
poco numerosi. In seguito, la saturazione di alcuni mercati dei beni di consumo, un accenno
a politiche di differenziazione dell’offerta e di costruzione della marca, portarono le
imprese a richiedere un incremento degli spazi televisivi: già tra il 1970 e il 1975 gli
investimenti pubblicitari televisivi delle aziende raddoppiarono, passando da 33 a 61
miliardi.
All’inizio degli anni ottanta gli istituti di ricerca iniziarono a parlare di una nuova
centralità del concetto di individuo e dell’incremento dell’attenzione degli italiani al
proprio sé individuale, creando le condizioni per un maggior orientamento delle imprese al
mercato. Si passava da una situazione in cui le decisioni strategiche all’interno delle
imprese venivano prese dai tecnici, ad una situazione in cui, attraverso l’applicazione di
tecniche di marketing, si analizzavano i bisogni del mercato, a cui veniva offerto ciò che
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richiedeva, grazie anche alla realizzazione della prima fase di sviluppo della grande
distribuzione.
Si inaugura così, anche nel mercato italiano, la stagione della centralità della marca.
Da un punto di vista commerciale, il prodotto di marca si differenzia da prodotti analoghi
che sono sul mercato in quanto: la prestazione è standardizzata; la distribuzione è
nazionale, o internazionale; la confezione e il nome sono pubblicizzati. Nella marca i
produttori tendono a inscrivere promesse, anticipazioni e rassicurazioni che fanno
riferimento sia ai bisogni di carattere materiale, sia a esigenze di carattere simbolico: la
comunicazione veste di desiderio i prodotti.
Negli anni ottanta gli investimenti pubblicitari crebbero più di cinque volte con un
aumento diversificato tra i vari media
3
.
Il sistema dei mass media, che era rimasto per anni sempre uguale a se stesso, iniziò
un processo lento, ma progressivo, di cambiamento, non solo inaugurando nuovi mezzi e
canali (quali le televisioni e le radio private, le riviste specializzate e le sponsorizzazioni)
ma anche progettando questi mezzi come i contenitori più adeguati ad accogliere le nuove
richieste di promozione e veicolazione pubblicitaria delle marche e delle imprese.
Con gli anni ottanta iniziò un complesso processo di concentrazione del settore
televisivo attraverso varie fasi. La prima fu caratterizzata dalla costituzione di
concessionarie di pubblicità nazionale che tentarono, inutilmente, di realizzare circuiti di
emittenti locali che veicolassero la loro pubblicità nazionale. La seconda dal tentativo,
anch’esso mal riuscito, delle concessionarie di diventare distributrici di programmi:
pacchetti da 4 ore giornaliere per la prima serata, distribuiti con cassette pre-registrate. La
terza fase si caratterizzò per un incremento dei processi di concentrazione, prima degli
acquisti e in funzione dei clienti, poi attraverso la costituzione di circuiti con palinsesti
comuni e legami contrattuali ben definiti: Canale 5 venne inaugurata verso la fine del 1982
seguita da Italia 1, dell’editore Rusconi, e da Rete 4, all’interno della quale si trovava, fra
gli altri, anche Mondadori.
Le reti commerciali erano in concorrenza fra loro e con la RAI. Il primo risultato
della lotta concorrenziale fu un incremento secco del tempo di fruizione televisiva seguito
3
- stampa: da 717 a 1.600 miliardi; televisione: da 333 a 3.885 miliardi; radio: da 86 a 274 miliardi; cinema:
da 24 a 19 miliardi; esterna: da 85 a 400 miliardi.
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dall’espulsione dal mercato, in meno di due anni, di Rusconi e Mondadori; quest’ultimo per
il lancio di Rete 4, si indebitò al punto tale da perdere anche il controllo della casa editrice,
che passò, in seguito, nell’orbita berlusconiana.
Solo alla fine del decennio, nell’agosto del 1990, venne approvata la legge n. 223: la
nuova disciplina del sistema radiotelevisivo privato e pubblico riconobbe nei fatti, e sancì,
per il futuro, il duopolio RAI – Fininvest.
Dopo tanti anni di indecorosa assenza di regole, questo fu il primo tentativo di
regolamentare l’intera materia riconoscendo, da un lato, la presenza e legittimità
dell’emittenza commerciale e, dall’altro, quella del servizio pubblico: l’informazione di
entrambi avrebbe dovuto rispondere a criteri di “pluralismo, obiettività, completezza e
imparzialità” in quanto la diffusione di programmi radiotelevisivi riveste carattere di
“preminente interesse generale”
4
.
All’interno del dibattito sulla comunicazione pubblica, nella seconda metà degli
anni settanta e per tutta la prima metà degli anni ottanta, si aprì un dibattito in merito
all’efficacia dei periodici editi da tali istituzioni, da anni lo strumento principale attraverso
il quale questi enti si rapportavano direttamente con l’esterno. Gli obiettivi affidati a queste
pubblicazioni erano principalmente due:
1. riempire uno spazio lasciato colposamente vuoto dagli organi
d’informazione che operano sul mercato;
2. costruire strumenti di democrazia e partecipazione.
Del mercato dell’informazione si criticava lo scarso interesse nei confronti delle
problematiche che riguardavano le attività degli enti locali, contestualmente si giustificava
la scelta di editare testate giornalistiche in proprio: “La stampa parla poco di noi e noi ci
dotiamo di strumenti per parlare direttamente ai nostri cittadini”, sostenevano i responsabili
degli enti locali.
4
- La legge 223/1990 all’art. 1 afferma che: “La diffusione di programmi radiofonici e televisivi, realizzata
con qualsiasi mezzo tecnico, ha carattere di preminente interesse generale. Il pluralismo, l’obiettività, la
completezza e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura a diverse opinioni, tendenze politiche e culturali e
religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione, rappresentano principi fondamentali
del sistema radiotelevisivo, che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati”.
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In quel periodo si era anche acceso un dibattito in merito all’efficacia di queste
pubblicazioni. Pressoché unanime era il riconoscimento di una scarsa cultura
dell’informazione pubblica presente negli enti locali; a questa scarsa cultura si imputavano i
limiti di queste pubblicazioni che erano più il frutto di atti amministrativi che di oculate
decisioni politiche: da strumenti per informare il cittadino e renderlo più consapevole,
tendevano a diventare strumenti per fornire una tribuna da cui parlare ad amministratori e
politici locali.
Partendo dalla consapevolezza della necessità di offrire alla cittadinanza
informazioni precise sui servizi forniti dall’amministrazione pubblica scaturirono due
proposte operative che optavano per due strumenti comunicativi diversi:
1. produrre bollettini propri, agili e puntuali, destinati a costituire un
servizio per i cittadini;
2. abolire le pubblicazioni degli enti locali per tentare di incanalare
queste informazioni sui mezzi già esistenti (giornali, radio e televisioni locali) o su
nuovi mezzi (con riferimento alla potenzialità della telematica).
Gli operatori delle testate si dichiaravano disposti ad accogliere questo tipo di
informazioni, ma rivendicavano il diritto di selezionarle e interpretarle.
Un altro tema al centro del dibattito, da allora mai esaurito, faceva riferimento alla
professionalità di chi opera all’interno dei periodici degli enti locali; anche in questo caso si
contrapposero due opinioni:
1. chi riteneva che l’immissione di capaci professionisti avrebbe portato
ad un salto qualitativo di tali pubblicazioni;
2. chi faceva notare che già vi erano professionisti impegnati in tali
pubblicazioni ma che non riuscivano ad applicare la loro professionalità.
Rispetto ai limiti di queste pubblicazioni si sottolineò che derivavano non solo dai
vizi della politica dell’Italia nel suo complesso, ma anche da alcuni vizi dominanti nel
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sistema dell’informazione. Nel primo caso si fece riferimento al burocratismo, alle pratiche
censorie e alla ricerca del consenso a tutti i costi; nel secondo caso all’opinionismo dei
maestri del giornalismo, al considerare notizia solo l’eccezionale, al mantenere ristretto a
poche voci ufficiali il numero delle fonti accreditate dall’informazione.
Sgomberato il campo dai limiti, ci si confrontò con la necessità di definire gli
obiettivi di quella che veniva indicata come “la politica e la strategia dell’ente locale nel
campo dell’informazione: informare, informarsi, favorire la produzione e la circolazione di
informazioni sul territorio”.
Informare: la necessità che l’ente locale informasse i cittadini veniva considerata
un vero e proprio obbligo istituzionale che sarebbe dovuto essere considerato alla luce del
concetto di trasparenza.
Il concetto di trasparenza che emergeva in quegli anni, era più ristretto rispetto a
quello del decennio successivo, soprattutto perché si poneva il problema di rendere visibili i
conflitti e le contraddizioni interne all’attività dell’ente locale. Quest’ultimo avrebbe
potuto, in tal modo, costruire un rapporto con i cittadini basato su una maggiore fiducia.
L’obiettivo rimaneva quello di portare l’ente locale ad essere fonte efficace e credibile di
informazione.
Informarsi: l’ente locale avrebbe dovuto porsi il problema del feed-back: la
possibilità che uno strumento o canale destinato a diffondere l’informazione dall’ente
locale al cittadino possa anche servire a portare l’informazione all’ente stesso e a
raccogliere dati e conoscenze sulla vita della comunità. Il feed-back sarebbe dovuto essere
utilizzato anche per verificare il grado d’impatto e l’efficacia delle iniziative e dell’attività
dell’ente stesso, pratica poco utilizzata al giorno d’oggi.
L’informazione nel territorio: favorire la produzione e la circolazione di
informazioni sul territorio implicava un confronto, da parte dell’ente locale, con il mercato
e con l’universo della comunicazione enfatizzando due criteri: la multimedialità e
l’appropriatezza. Per multimedialità si intendeva il confronto con lo sviluppo telematico del
tempo; per appropriatezza la coerenza tra forme e contenuti, tra le risorse impiegate e gli
obiettivi che si volevano raggiungere: la formazione e la professionalità.
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Se pur tra ambiguità e fraintendimenti, queste iniziative favorirono l’inserimento
nell’agenda politica di alcune questioni inerenti la comunicazione pubblica, in particolare:
• gli strumenti di esternazione: da testate informative edite in proprio
alle testate informative a stampa commerciali, fino alle testate, pubbliche e private,
radiotelevisive;
• gli obiettivi: dal pubblicizzare all’informare sulle iniziative
dell’amministrazione per accrescere il consenso e costruire una buona immagine,
fino all’informare come parte integrale del servizio e al comunicare per rendere i
cittadini più consapevoli e responsabili, creando i presupposti per una cittadinanza
più attiva;
• la professionalità dei mediatori informativi: giornalisti o personale
amministrativo? Giornalisti assunti dall’amministrazione o giornalisti che operano
dall’esterno attraverso contratti a tempo definito? Esperti in comunicazione interni
all’ente o operanti dall’esterno? Interrogativi aperti ancora oggi (cfr. par. 2.1).
Gli anni ottanta, in relazione allo sviluppo della comunicazione pubblica in Italia,
possono essere considerati il decennio in cui sono state poste le basi per le iniziative di ben
maggiore spessore concettuale e progettuale del decennio successivo, manifestando però
una gran confusione.
Confusione sul diritto di informazione inteso, di volta in volta e senza chiarire le
differenze, come diritto di informare, diritto di essere informati e diritto di informarsi.
Confusione tra gli obiettivi ai quali avrebbe dovuto tendere lo sviluppo di una legislazione
che favorisse la comunicazione pubblica: partecipazione, trasparenza e accesso agli atti
divennero tra loro sinonimi che rendevano meno efficaci i singoli provvedimenti.
Alcuni dei provvedimenti legislativi che dettero il via a iniziative specifiche di
comunicazione istituzionale furono inseriti all’interno di provvedimenti tesi a riorganizzare
il sistema dell’informazione.
La legge 5 agosto 1981, n. 416 (Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per
l’editoria), approvata con l’obiettivo esplicito di impedire la formazione di concentrazioni