Capitolo 1 - I cambiamenti del mercato del lavoro: una flessibile precarietà
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CAPITOLO 1
“È tutta stesa al sole…vecchio,
questa vecchia storia.
Tutta nelle tue gambe, vecchio,
e nella tua memoria(...)
Hai visto il cielo quando era libero
che si poteva guardare(…).
Io da qui vedo il cielo inchiodato alla terra
e la terra popolata da gente di malaffare,
e vedo i ladri vantarsi
e gli innocenti tremare”
F.De Gregori,Tutto più chiaro che qui.
I CAMBIAMENTI DEL MERCATO DEL LAVORO: UNA
FLESSIBILE PRECARIETÀ
Il principale scopo di questo capitolo, che vuole essere di “introduzione al
problema”, è di fare chiarezza su cosa si intenda oggi nel dibattito socio-politico
con il termine flessibilità e dove e come negli ultimi anni si sia spostata quella
linea di demarcazione tra flessibilità e precarietà, descrivere quali siano stati i
principali passaggi storici che hanno portato all’evoluzione dell’istituto
contrattuale del lavoro atipico, quali le principali conseguenze (o ripercussioni)
che, l’introduzione di tipologie contrattuali definibili come atipiche, abbiano
comportato sulla natura stessa del lavoro astratto.
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Con questo termine ci riferiamo al lavoro oggetto privilegiato di studio delle scienze sociali, ovvero eterodiretto, senza controllo
sul prodotto, sulle modalità organizzative e professionali, come “regime salariato” (Robert Castel, 1995), forma lavorativa
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1.1 Aspetti della flessibilità
Flessibilità, termine un tempo appannaggio dei tecnici che si occupavano di
scienze sociali, è ormai una parola ricorrente nella vita quotidiana, ma cosa si
intenda esattamente con questa parola, e quali aspetti della vita tocchi da vicino
tanto da mutarne la natura, forse ancora non è chiaro…
Si parla di flessibilità riferendosi al lavoro, alle aziende, alla produttività, agli
imprenditori, ai lavoratori e addirittura all’intero mercato del lavoro. Per ognuno
di questi soggetti, poi, al termine viene spesso associato un aggettivo, ad ulteriore
definizione del campo d’azione.
Quando il termine flessibilità, (nella prima metà degli anni Ottanta) entra
prepotente nel dibattito sulla condizione del mercato del lavoro, assume
molteplici significati, in riferimento ai tanti attori coinvolti e in riferimento alle
prospettive da cui si guarda al mercato del lavoro. In Francia il termine
“flessibilità” viene utilizzato come una parola - valigia, in cui si può mettere di
tutto (Gallino, 1998).
Per dare inizio al tentativo chiarificatore, possiamo distinguere un dibattito
economico e un altro sociologico sulla flessibilità.
Il primo, lanciato all’inizio degli anni ottanta dall’OCSE
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, ha inaugurato un
filone di critiche circa le rigidità strutturali dei sistemi occupazionali europei
costituitisi a livello nazionale dall’insieme di istituzioni che determinano il
dominante del XX° secolo caratterizzata dall’esistenza di regole centrate sul contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato
che si configura come perno di un intero sistema sociale.
2 Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, riunisce oggi 30 paesi industrializzati.
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funzionamento del mercato del lavoro stesso (configurazione del sistema di
welfare, normativa giuslavorista, sistemi di relazioni industriali). Il dibattito in
ambito economico, incentrato sull’analisi dell’aumento simultaneo della
disoccupazione e dell’inflazione, restituisce uno scenario in cui la mancanza di
flessibilità del mercato del lavoro viene vista come conseguenza del modello di
crescita proprio degli anni ’80. La stessa Palgrave
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, enciclopedia di riferimento
per gli economisti di tutto il mondo, nel 1987 presenta una sola voce correlata al
problema della flessibilità: wage flexibility, ovvero flessibilità dei salari, per
indicare come la rigidità dei salari – e più in generale dei prezzi – sia associata
alla capacità di un’economia di trovare nel pieno impiego la via dello sviluppo.
Che lo si veda dalla prospettiva neoclassica o keynesiana
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, il problema del
superamento della “rigidità” si porrà come centrale nelle scelte politiche e quindi
nelle ripercussioni economiche e sociali dei rapporti legati alla produzione.
Dal versante della sociologia fino agli anni settanta, la disoccupazione sembra
aver costituito un’area problematica, metodologicamente parlando, solamente per
Paul Lazersfeld, che nel 1931 pubblica lo studio “I disoccupati di Marienthal”,
(arrivato tradotto in Italia nel 1986 a cura di Enrico Pugliese
5
). Dagli anni ottanta
in poi i temi della disoccupazione, flessibilità, occupazione verranno affrontati
3
The New Palgrave. A dictionary of Economics, Macmillian Press Limited, London 1987, t. 4, p. 833.
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Le due scuole restituiscono posizioni divergenti sulla natura dell’argomento, sulle cause e sulle scelte di politica economica
adottabili: per i neoclassici la disoccupazione è dovuta a costi salariali troppo rigidi ed elevati per cui ipotizzano l’eliminazione di
tutti gli ostacoli alla fissazione in libera concorrenza dei costi salariali diretti ed indiretti; per i keynesiani una domanda effettiva
carente è la causa principale del basso livello di attività del sistema economico e dell’occupazione. Politiche di sostegno alla
domanda per i keynesiani, dunque, e flessibilità verso il basso dei salari per tornare all’equilibrio di piena occupazione, per i
neoclassici.
5
Per Edizioni Lavoro, Roma, 1986.
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sistematicamente dai teorici della disciplina dando vita a nuovi filoni della
sociologia stessa
6
.
Nei primi anni ’90 sembra più che evidente il riaffacciarsi delle teorie liberiste
che pongono l’accento sulla necessità di ricorrere a politiche deregolative (che si
estenderà ad ogni settore delle economie) con l’obiettivo di ristabilire la
flessibilità che diventa il termine privilegiato per descrivere “la buona prassi” dei
rapporti economici, quasi sinonimo di funzionalità e piena occupazione
7
.
Il vocabolo che deriva dall’aggettivo latino flexibilis, nel suo significato di
“flessibile, pieghevole, adattabile, convertibile e facile a plasmarsi”(Castiglioni-
Mariotti,1995), si adatta bene all’immagine restituita dalle nuove tipologie di
lavoro di post-moderna introduzione. Il significato della parola non porta con sé
nessuna connotazione né negativa né positiva, ma indica solo una “proprietà”; è
interessante notare come l’estensione del termine nel linguaggio comune indichi
oggi la disponibilità di una persona di adattarsi ad una proposta lavorativa e
sembra caratterizzarsi come l’interiorizzazione di un’esigenza che viene imposta.
Il giudizio sulla flessibilità dipende quindi dal punto di vista dell’osservatore e
soprattutto dal contesto che ne specifica ulteriormente le caratteristiche e le
ricadute sui differenti ambiti della vita sociale.
6
Sociologia economica, sociologia del lavoro.
7
La Flexibilité du travail en Europe, Boyer, 1994.
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Riferita all’economia in termini generali, la flessibilità è oggi vista come il
principio regolatore del mercato del lavoro.
Se poi si differenzia il tipo di economia in cui viene utilizzata, si scopre che nella
old economy la flessibilità è vista essenzialmente come uno strumento delle
aziende per ridurre i costi e adattarsi alle pressioni della competitività, mentre
nella new economy è un valore aggiunto, associato alla creatività e alla velocità.
Sempre in riferimento al mercato nel suo insieme, si parla di flessibilità in entrata
per descrivere le procedure non standard di ingresso della nuova manodopera
attiva nel mercato e di flessibilità in uscita per quelle di espulsione della
manodopera al termine del percorso lavorativo.
Sul piano economico, invece, i tecnici definiscono la flessibilità salariale macro
come l’esigenza di diversificare i livelli salariali in base ai tassi di produttività
dell’azienda e del territorio, secondo le condizioni economiche del Paese. Anche
nel linguaggio giuridico vengono utilizzate differenti forme di flessibilità: c’è
quella previdenziale, che descrive le tecniche di rimodulazione delle varie forme
di assicurazione obbligatoria per garantire standard adeguati di tutela e a un
mercato sempre più frammentato e diversificato. Riguardo alle tecniche
normative, esistono poi tre tipi di flessibilità: quella normata, con cui si intende
un intervento categorico della normativa in funzione protettiva del soggetto
debole, anche se progressivamente attenuata secondo le circostanze; quella
concertata o mite, in cui si tenta di raggiungere un compromesso tra l’intervento
legislativo e le posizioni sindacali; infine, vi sono le altre flessibilità, che
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rinviano agli organi amministrativi con funzione di mediazione e composizione
dei conflitti e degli interessi del mondo del lavoro, o che si fondano su
adempimenti procedurali o formali, come le “certificazioni” preventive dei
contratti di lavoro e della loro qualificazione giuridica, come sancito dalle ultime
leggi sul lavoro atipico (L. 196/1997 e D.lgs. 276/2003).
Cambiando l’ambito di applicazione del concetto e i soggetti coinvolti cambia
anche il significato della flessibilità.
In riferimento all’impresa, distinguiamo due tipologie di flessibilità quella
quantitativa e quella qualitativa. La flessibilità quantitativa, definita anche
numerica, esterna o occupazionale, consiste nella possibilità, per l’azienda, di
variare il numero dei dipendenti in stretta relazione con il proprio ciclo
produttivo, in base ai cambiamenti congiunturali della domanda e della
concorrenza, in opposizione alla rigidità posta nel corso degli anni dal diritto del
lavoro in tema di licenziamento. Questo tipo di flessibilità non si presenta mai
nella sua forma pura, poiché i lavoratori godono, in ogni caso, di forme più o
meno forti di protezione. In questa categoria rientrano gli strumenti per la
risoluzione del rapporto di lavoro e gli ammortizzatori sociali che non gravano
sulla singola impresa. Al contrario, la flessibilità qualitativa, funzionale o interna
consiste nella modulazione da parte dell’impresa dei vari parametri della
situazione in cui i dipendenti lavorano: mansioni, salari, orari o condizioni di
lavoro.
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Sempre riguardo all’impresa, ci sono due definizioni di flessibilità più generiche,
che possono essere considerate classi contenitrici di definizioni più circoscritte:
la flessibilità contrattuale e quella salariale micro. La flessibilità contrattuale
permette di variare il lavoro assegnato ai dipendenti alle esigenze della domanda,
oltre che allo stile di vita del dipendente. In questo caso la legge pone ovvi
vincoli di tutela del lavoratore. Sono veicoli di questa flessibilità i contratti a
tempo parziale, a tempo determinato o quelli annuali a orario limitato. La
flessibilità salariale micro, invece, fa in modo che le differenze salariali
rispecchino il livello di preparazione professionale e di produttività del
dipendente all’interno della singola azienda. Gli strumenti in questo caso sono i
sistemi di classificazione e inquadramento e i sistemi di retribuzione variabile. Vi
è poi la flessibilità strutturale, che permette all’impresa di sopravvivere senza
modificare radicalmente la propria struttura, la flessibilità strategica, che consiste
nella capacità di modificare le proprie strategie a livello economico e sociale , la
flessibilità operativa, che comporta variazioni di dimensione e organico senza
dover sostenere costi eccessivi e, infine, la flessibilità gestionale, ovvero il
disporre di procedure, informazioni, tecniche utili a gestire le continue variazioni
del mercato.
In tema di adattabilità al mercato, esiste infine una flessibilità territoriale, che
permette ai lavoratori di muoversi liberamente all’interno del Paese o di aree
economiche più ampie, come l’Unione Europea. Questa tipologia dovrebbe
facilitare gli aggiustamenti del mercato del lavoro alle leggi della domande e
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dell’offerta, riducendo le carenze di profili professionali nei mercati in
espansione e la disoccupazione nelle regioni in cui invece l’economia stenta a
svilupparsi.
Sul piano linguistico è interessante notare come il linguaggio utilizzato sia
veicolo di legittimità di un concetto, cosicché nei diversi paesi dell’area europea
il termine in questione assume colori nuovi, tutti però con lo scopo ultimo di
rendere accettabile un’esigenza del mercato. In Francia, (dove soprattutto tra la
popolazione studentesca delle grandi Università la contestazione nei confronti
delle scelte governative in materia di deregolazione e flessibilizzazione del
mercato è sempre molto viva), fin da subito sono nate controversie sul corretto (o
sull’utilizzo stesso) utilizzo della flessibilità, tanto che i politici per prudenza
ricorrono al termine souplesse ovvero adattabilità in riferimento alle capacità di
adeguamento e flessibilità delle imprese
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. In tedesco c’è una distinzione tra
termine scientifico flexibilität (di origine latina) e tecnico anpassungsfähigkeit
traducibile come capacità di adattamento, che mette in evidenza il carattere
dinamico del neonato mondo del lavoro. Gli inglesi al contrario, non hanno
pudori ideologici nell’usare il termine flexibility. Quello che accade nel nostro
Paese oggi è un sempre maggiore avvicinamento del termine flessibilità con
quello, denso di significati e connotazioni poco incoraggianti, di precarietà.
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Nel 1997 i paesi dell’Unione Europea si sono accordati su una strategia comune per l’occupazione (Strategia di Lisbona) basata sui
4 punti:occupabilità, adattabilità, spirito d’impresa e pari opportunità. In Italia il recepimento delle direttive CE in materia di lavoro
si attua proprio dal 1997 con l’entrata in vigore della legge n. 196 del 24 giugno 1997 (Pacchetto Treu), che riprendendo quanto
sancito nel Patto per il Lavoro, introduce importanti innovazioni, tra cui la nuova disciplina sul lavoro temporaneo. L’argomento
avrà ampia trattazione nel secondo capitolo di questo lavoro.