particolarmente attuale e che tanto rilievo ha avuto anche nelle
cronache degli ultimi anni.
Nel primo capitolo, si tratterà, la letteratura in merito, basandosi su
pubblicazioni scientifiche straniere su riviste internazionali, vista la già
citata scarsità di fonti italiane.
Nel secondo capitolo, sarà riportata la perizia di un caso, sulla base della
quale, nel terzo capitolo, si analizzerà il fenomeno dell’omicidio‐suicidio
mancato (in cui, cioè, il suicidio non ha esito fatale), ponendo in rilievo
le problematiche etiche e psichiatrico ‐ forensi ad esso connesse.
Lo scopo è di tentare di capire il ruolo che gioca la patologia in un caso,
come quello trattato, di omicidio‐suicidio mancato, e fino a che punto e
in che misura essa può influire sul piano penale, riguardo, ad esempio,
l’imputabilità.
4
1. L’OMICIDIO‐SUICIDIO
1.1 L’omicidio‐suicidio
L’omicidio‐suicidio (O‐S) è una forma di morte doppia in cui l’assassinio
è seguito a breve dal suicidio dell’autore
1
; è raro: 0,9/100,000
soggetti/anno nella Carolina del Nord
2
, 0,23/100,000 soggetti/anno a
Filadelfia, PA
3
, e 0,20/100,000 soggetti/anno in Inghilterra ‐ Galles
4
.
I pochi casi inerenti questa forma di morte hanno rivelato che l’O‐S
possiede le seguenti caratteristiche: gli autori sono solitamente uomini,
bianchi, sopra i 30 anni e della stessa famiglia della vittima, di solito
mariti che uccidono la propria moglie [75% ad Hong Kong
5
, 85% a
Parigi
6
, 90% in Inghilterra
7
; negli Stati Uniti, invece, quasi la metà degli
omicidi sono perpetrati da mogli come difesa nei confronti di mariti
abusanti cronici]; le vittime sono generalmente donne, bianche e al di
sopra dei 30 anni [60% a Parigi
6
con un’età media di 50 anni, 66% ad
Hong Kong
5
con un’età media di 32 anni, 75% in Inghilterra ed Australia,
e più dell’80% negli Stati Uniti
8
]; gli autori sono più anziani delle proprie
1
Fishbain, 1985.
2
Palmer, 1980.
3
Wolfgang, 1958.
4
West, 1966.
5
Chan, 2003.
6
Lecomte, 1998.
7
Milroy, 1993.
8
Felthous, 1995.
5
vittime e scelgono un’arma da fuoco come mezzo per causare un
trauma alla vittima e a se stessi. L’O‐S avviene in ambienti familiari, per
lo più in casa, e coinvolge individui del sesso opposto che solo di rado
appartengono a razze diverse; la relazione tra la coppia O‐S può essere
estremamente intima, fornendo così una “fonte di protezione familiare
primaria”; nella maggioranza dei casi, il movente dell’omicidio sembra
essere la “rabbia da gelosia” in cui, a causa del forte affetto nei
confronti della vittima, l’autore non vuole continuare a vivere senza di
essa, infatti le vittime sono con più probabilità donne separate o
divorziate dai loro partner [65% negli Stati Uniti, 45% a Parigi e il 40% ad
Hong Kong]. Gli autori sembrano agire unilateralmente e
impulsivamente nel compiere l’atto, il quale rappresenta il culmine di
dispute familiari croniche; le vittime sono di rado depresse ma una
storia di depressione e/o malattia mentale è spesso comune tra gli
autori e, questi ultimi, raramente lasciano dei messaggi di suicidio
9
.
Un punto controverso nella definizione di un omicidio‐suicidio è il
tempo che intercorre tra i due atti, fondamentale ai fini della
comprensione del legame che li unisce, per capire, ad esempio, se si
tratti di casualità, di premeditazione e pianificazione o di causalità.
Secondo Felthous e colleghi (1995), affinché i due atti possano essere
considerati parte della stessa azione, devono avvenire nel giro di 24 ore.
Saleva et al. (2006) parlano, invece, di un intervallo massimo di una
settimana. Una stretta vicinanza temporale tra l'omicidio e il suicidio ‐ la
maggior parte delle volte si tratta di pochi minuti o poche ore ‐
9
Selkin, 1976.
6
dimostra che nessuno dei due atti è secondario all’altro, ma sono due
tappe di un unico atto attentamente pianificato. West pone un limite di
trenta giorni, ma ci sono casi in cui l’omicidio può precedere di molto,
anche di un anno, il suicidio, fermo restando il legame di causalità.
Incidenti di questo tipo che coinvolgono estranei sono rari, a tal
proposito, un recente studio in Cina è stato in grado di identificare una
relazione intima tra autore e vittima nel 95% dei casi. Nonostante abbia
affascinato i ricercatori, pochi hanno studiato il fenomeno come un
incidente unitario; il suicidio viene di solito trattato come un problema
di salute pubblica o mentale, l’omicidio, invece, è tipicamente
considerato un problema di sicurezza pubblica o di giustizia.
Non esiste ancora una definizione comunemente accettata di omicidio‐
suicidio, basata su criteri oggettivi e universali; per lo più sono stati
descritti i risultati di ricerche in materia, senza offrire teorie, tipologie o
spiegazioni abbastanza varie.
L’analisi quantitativa multivariata, che rappresenta il più grande studio
in materia, negli Stati Uniti, è quella di Stack (1997), basata su 265 casi;
quest’analisi supporta la sua ipotesi che “la fonte principale di
frustrazione è una relazione insoddisfacente, caotica, profonda, segnata
dalla gelosia e dall’ambivalenza”.
Egli riassume i temi dominanti che caratterizzano un O‐S:
‐ La sua origine giace in una relazione a lungo termine caotica, intima,
frustrata; raramente l’atto avviene tra stranieri o persone che hanno
una relazione da poco.
7
‐ Una caratteristica chiave nella relazione caotica è l’estrema
ambivalenza, un’esitazione tra rabbia e amore.
‐ La gelosia (semplice o morbosa), derivante dalla convinzione, reale o
immaginaria, dell’infedeltà del partner.
‐ L’evento scatenante è spesso la separazione, reale o minacciata,
dall’oggetto d’amore.
‐ La separazione dell’autore dall’altro significativo è spesso segnata da
una grave depressione, la quale è un fattore di rischio per il suicidio.
‐ L’O‐S è visto come conseguenza di un’impotenza insopportabile.
‐ Dopo l’omicidio, la realizzazione di aver commesso il crimine, crea un
senso di colpa tale da produrre un impulso suicida.
Già nel 19° secolo Tissot (1840) riteneva che omicidio e suicidio
condividessero alcune caratteristiche: un’eziologia comune (condotta
anormale), risultato (morte) e metodo (con le proprie mani o quelle di
un altro). Secondo Hentig (1948) “omicidio e suicidio sono fenomeni
complementari: l’ammontare totale di distruttività disponibile è liberato
in due Gestalten (forme) psicologicamente simili e socialmente distinte”.
La comprensione che i due atti siano antitetici alle norme culturali, e
che ognuno di essi implichi alcuni elementi di auto‐distruzione, ha
fornito lo stimolo per mostrare che omicidio e suicidio non sono
indipendenti e bisognerebbe prenderli in considerazione nel loro
complesso, come una somma di morti.
Storicamente Enrico Ferri (1917) è probabilmente il primo a richiamare
l’attenzione sul bisogno di studiare insieme l’omicidio e il suicidio
10
.
10
Whitt, 1994.
8
Ferri e altri studiosi, come Morselli (1882), sostengono che i due
fenomeni siano risposte alternative ad una causa comune e variano
inversamente. Anche Durkheim (1893/1964) inizialmente suggeriva che
un alto tasso di omicidi tende a “conferire una sorta d’immunità” contro
il suicidio; dichiarazione in seguito modificata in favore dell’idea che
non sempre c’è una correlazione inversa.
Cavan (1928) asserisce che l’omicidio‐suicidio, sia esso pianificato o
impulsivo, è il risultato di uno sfogo emotivo, senza intervallo di rimorso
o paura tra i due atti. “La persona interpreta la sua difficoltà come
condizione sufficiente a vietare un ritorno alla normalità; egli ha, o
crede, di aver raggiunto la fine del suo percorso, e il suicidio è l’unica
soluzione. La sua felicità è stata distrutta o impedita da qualcuno, e
prima di uccidersi ucciderà questa persona per evitare che accada ad un
altro quello in cui lui ha fallito”. Si nota un’allusione al suicidio fatalistico
di cui parla Durkheim (1897/1951), che deriva da un’eccessiva
regolazione o da una disciplina oppressiva, quei casi in cui il “futuro di
un individuo è impietosamente bloccato e le passioni violentemente
sconvolte”.
Il modello socio‐psicologico di Dennis Peck (1979), richiama
quest’ultimo concetto, ipotizzando che l’omicidio‐suicidio occorra “in
una situazione di reale o percepito fallimento nel raggiungimento degli
obiettivi, e coinvolge una persona il cui suicidio esprime l’impossibilità di
modificare i ruoli e ridefinire gli obiettivi”. Se un individuo vede un altro
come responsabile del suo fallimento, allora l’aggressione fatale può
9
essere attivata quest’ultimo prima, e poi, dato il quadro fatalista,
ricadere su di sé.
Contemporaneo di Durkheim, Freud ha avuto un impatto rilevante sulle
teorie e ricerche che si occupano dell’omicidio‐suicidio; egli crede che i
due atti siano espressione dell’aggressione, con il suicidio che
rappresenta un impulso ad uccidere un altro riportato sul sé. Questa
prospettiva ha ispirato anche l’ipotesi frustrazione‐aggressione
sviluppata nel 1939 da Dollard, Doob, Miller, Mowrer e Sears; essa
afferma che la frustrazione conduce a diversi tipi di risposte, una delle
quali può essere una qualche forma di aggressione.
Uno degli esempi migliori dell’ipotesi di Dollard e colleghi applicata alla
comprensione dell’O‐S è offerto da Henry e Short (1954); essi
suggeriscono che le persone che deprivano se stesse, attraverso
l’omicidio, di “una fonte primaria di sostentamento” (e fonte primaria di
frustrazione), possono poi suicidarsi proprio a causa di questa perdita,
quindi l’atto riflette un attaccamento positivo, in precedenza
all’omicidio, dell’autore alla vittima.
Anche Marchetti (2004) ipotizza che “il suicidio a seguito di un omicidio
può essere letto quale indicatore del legame con la vittima”.
“Ti uccido e ti porto con me, ti uccido ma vengo con te”
11
è una frase che
ben esemplifica la contiguità tra i due fenomeni e la relazione che lega
vittima e carnefice.
Alcuni autori
12
hanno trovato supporto a questa tesi nel fatto che
maggiore è l’attaccamento o la responsabilità tra l’autore del reato e la
11
Merzagora Betsos, 2005.
10