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CAPITOLO PRIMO
ANALISI GENERALE
1.1 Modalità di scelta dei Paesi da analizzare
Nell’ultimo decennio si è verificata una rivoluzione dell’economia mondiale.
Mentre fino a pochi anni fa il globo risultava diviso in due macro aree: quella a cui
appartenevano i Paesi sviluppati a nord e i Paesi sotto-sviluppati a sud, ora tale
distinzione non è più così netta. Infatti oggigiorno esistono Paesi economicamente
avanzati, Paesi in via di sviluppo che hanno saputo sfruttare le loro risorse al meglio
per entrare a far parte di un’economia sempre più globalizzata scambiando i loro
prodotti e migliorando la qualità sociale e politica del proprio Paese, Paesi emergenti
che hanno cominciato solo negli ultimi anni ad aprirsi al commercio in modo
profittevole, e Paesi di sussistenza che non conoscono gli scambi se non al di fuori di
ciò che è loro necessario per il sostentamento.
Nell’ultimo decennio sono molti i Paesi che hanno cominciato ad aprirsi al
commercio in modo profittevole. Qui mi appresterò ad analizzare alcune di queste
Nazioni che stanno emergendo nel commercio internazionale. In particolare mi
soffermerò sugli scambi che tali economie effettuano con il nostro Nord-Est italiano.
Il mio scopo vuole essere sia descrivere i rapporti attuali tra le due aree, sia di fare
delle ipotesi su quali potrebbero essere in un prossimo futuro i settori chiave su cui
puntare per un ulteriore sviluppo.
Il criterio utilizzato per la scelta dei Paesi da analizzare è quello del tasso di
crescita del PIL di tali economie: il Prodotto Interno Lordo, al lordo degli
ammortamenti, è definito come il valore complessivo dei beni e dei servizi finali che
vengono prodotti in un paese in un certo periodo di tempo (di solito un anno),
indipendentemente dalla nazionalità dei produttori. Nella maggior parte dei Paesi
sviluppati il prodotto interno lordo viene oggi considerato l'indicatore più appropriato
dell'attività economica. Il PIL è uguale al consumo privato più gli investimenti, più la
spesa pubblica, più la differenza tra esportazioni e importazioni. I diversi settori
economici (agricoltura, industria e servizi), contribuiscono alla determinazione del
PIL in misura differente. Nella maggior parte dei paesi industrializzati, al PIL
contribuiscono per il 60-70% i servizi, per il 25-40% il settore industriale e per meno
2
del 5% quello agricolo. Nei Paesi emergenti che si andranno ad analizzare, invece, il
settore agricolo contribuisce al PIL per una media di circa l’8%, quello industriale
per circa il 30% e i servizi poco più del 50%.
Il PIL viene solitamente calcolato in base ai prezzi di mercato. Può essere espresso in
base a prezzi costanti oppure correnti (che includono la componente dell'inflazione).
In realtà, è impossibile quantificare il PIL in misura precisa: esiste, infatti, in tutti i
Paesi, un'economia sommersa che, non essendo stimabile, non può essere presa in
considerazione nel calcolo.
In questo scritto analizzerò Russia, Turchia, Brasile, Messico e Indonesia,
Paesi che si sono contraddistinti particolarmente per un elevato tasso di crescita del
prodotto interno lordo.
La media della percentuale di crescita di suddette Nazioni risulta infatti di 4,93%
considerando gli anni dal 2003 al 2006. In particolare nel Grafico 1.1 si può notare
come il PIL sia variato nell’arco di questo periodo.
Grafico 1.1 – Percentuale di crescita del PIL nei Paesi analizzati dal 2003 al 2006 (annuali)
0246810
Turchia
Russia
Indonesia
Messico
Brasile
2003 2004 2005 2006
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1.2 Analisi dettagliata delle variazioni del PIL per Paese
1.2.1 Russia
Il PIL
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russo è cresciuto, solo negli ultimi quattro anni, con una media del
6,75%. Da circa sei anni la Russia si trova al terzo posto come dinamica di sviluppo,
essendo seconda solo a Cina e India. Prima di questa data il Paese conobbe un
periodo di enorme crisi dal punto di vista dello sviluppo: ebbe infatti dei tassi di
crescita negativi per circa otto anni consecutivi fino al 1998 quando cominciò una
lenta ricrescita (Grafico 1.2).
Grafico 1.2 – Variazione percentuale del PIL annuale della Russia dal 1989 al 2006
Dopo lo scioglimento dell'URSS nel 1991, la scena politica russa fu dominata da un
conflitto di poteri tra le forze conservatrici e riformiste. Il presidente Boris Eltsin
(eletto nel giugno 1991 a suffragio universale) avviò numerosi programmi di riforma
in campo economico e politico. Lo sviluppo fu molto lento e continuamente
ostacolato dalla lotta che le potentissime oligarchie politico-finanziarie ingaggiarono
per il controllo del vasto patrimonio pubblico ereditato dall'Unione Sovietica.
Privatizzato per una sua buona parte, spesso con operazioni al limite della legalità, il
patrimonio sarebbe stato diviso, negli anni seguenti, tra i membri del clan dell’allora
presidente Boris Eltsin, imprenditori privi di scrupoli e criminalità organizzata.
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I dati relativi alla Russia sono disponibili solamente a partire dal 1989. La variazione percentuale del PIL del
1989 si riferisce all’incremento rispetto all’anno 1973 (unico disponibile prima di tale data).
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La lotta tra le oligarchie visse un forte inasprimento nel 1998, in concomitanza della
grave crisi finanziaria conseguente alla caduta dei mercati asiatici.
Nel 1999 Boris Eltsin lasciò improvvisamente la presidenza che fu assunta ad interim
da Vladimir Putin che nel 2000, vincendo nettamente le elezioni, diventò
ufficialmente Presidente.
La Russia ereditata da Putin era un paese profondamente trasformato dalla rottura
radicale con il passato sovietico e dalle riforme introdotte negli anni Novanta. I
risultati conseguiti da Eltsin erano tuttavia contraddittori; le riforme economiche –
spesso dettate dalla foga nei confronti dell’economia socialista, ma anche dalla corsa
all’accaparramento dei settori sani e redditizi dell’industria statale, svoltasi peraltro
in assenza di regole e controlli – avevano drasticamente ridotto il ruolo dello stato
nell’economia e favorito lo sviluppo dell’impresa privata ma, allo stesso tempo,
avevano determinato una massiccia concentrazione di ricchezza in poche mani e
spinto quasi la metà della popolazione nella povertà. Con i forti guadagni della
privatizzazione, la nuova oligarchia (spesso erede diretta di quella politica del
periodo sovietico) si era peraltro lanciata avidamente sui mercati finanziari
internazionali, facendo mancare al paese le risorse necessarie allo sviluppo interno.
Il bilancio del primo anno di governo fu però modesto. La notevole crescita
economica trainata dalle vendite del petrolio e del gas non incise sulle condizioni
della gran parte della popolazione russa. Una cospicua parte (stimata in circa 25
miliardi di dollari) delle risorse russe continuò infatti a essere esportata illegalmente
e investita sui mercati finanziari internazionali, infinitamente più redditizi e
soprattutto al riparo del fisco. Per tentare di arginare il fenomeno della fuga dei
capitali, il governo di Putin adottò nuovi provvedimenti in materia fiscale che
stabilirono un’unica tassa del 13%.
Recentemente, sul piano interno, Putin tenta di rinforzare il ruolo dello stato e di
ripristinare l’autorità del governo centrale sui poteri regionali.
5
1.2.2 Turchia
La Turchia presenta una media di crescita negli ultimi quattro anni pari al
6,83%. Analizzando il valore del PIL dal 1950 a oggi si può notare che ha avuto un
incremento notevole solo negli ultimi anni (Grafico 1.3).
Grafico 1.3 – Variazione percentuale del PIL annuale della Turchia dal 1950 al 2006
Guardando le serie storiche della Turchia, si può notare che dal 1950 l’andamento
del PIL è sempre stato pressoché positivo, eccetto un paio anni che in ogni caso non
si possono definire periodi di crisi. In particolare il PIL subì una lieve decrescita
negli anni 1979-1980 per una crisi finanziaria causata da una politica di allargamento
dell’intervento statale nell’economia perseguita dall’allora Presidente in carica. Una
brusca caduta invece pari al 7,50% nel 2001 è stata motivo di risveglio per questo
Stato che da allora ha conosciuto, e, secondo le previsioni, continuerà a conoscere
per un altro po’ d’anni, un tasso di crescita tra i più alti del mondo. L’improvviso
cambiamento di tendenza avvenuto nel 2001 è stato causato dall’esplosione di una
violenta crisi finanziaria iniziata a fine 2000 che ha avuto il suo epicentro nel sistema
bancario. L’utilizzo spregiudicato del sistema bancario da parte dei governi durante
gli anni Novanta avrebbe infatti portato diversi importanti istituti di credito sull’orlo
della bancarotta. La crisi si accentuò nel febbraio 2001, quando l’allora presidente
Sezer rimproverò al governo uno scarso impegno nella lotta alla corruzione. Pochi
giorni dopo il governo fu costretto a lasciar fluttuare la lira turca (ancorata al dollaro
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dal dicembre 1999), che perse così il 30% del suo valore. Per affrontare la grave
emergenza, in marzo, alla guida del ministero del Tesoro fu chiamato un alto
funzionario della Banca Mondiale, a cui furono affidati poteri speciali. Già in
maggio, il Fondo monetario internazionale concesse alla Turchia un prestito di 19
milioni di dollari, condizionandolo a radicali tagli al bilancio dello stato.
Dallo sbandamento comunque la Turchia si è subito ripresa e attualmente le sue
prospettive di sviluppo sono ben più che rosee.
1.2.3 Indonesia
Proseguendo l’analisi dei nostri Paesi per la più alta percentuale di crescita
del PIL, al terzo posto troviamo l’Indonesia, con una media di sviluppo negli ultimi
quattro anni del 5,18%.
Grafico 1.4 – Variazione percentuale del PIL annuale dell’Indonesia dal 1950 al 2006
Anche qui, osservando le serie storiche (Grafico 1.4), si può notare che il Paese, a
partire dal 1950, ha avuto per la maggior parte anni con un tasso di sviluppo positivo.
Da notare la caduta di quasi il 14% nel 1998. In questo periodo infatti ci fu la
cosiddetta “crisi asiatica” che fece tremare il mondo: a partire dal luglio 1997, con il
crollo del bath thailandese, le valute dei paesi dell’area franarono l’una sull’altra
come i birilli di un bowling; i tassi d’interesse si tesero, la sfiducia si sgretolò, e in
poco tempo si contagiarono anche paesi con cui scambiava merce più
frequentemente. Infatti la crisi fu (troppo) presto assunta quasi a paradigma di una
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“globalizzazione impazzita” e per alcuni divenne pretesto per invocare un ritorno a
pratiche più “domestiche” negli scambi internazionali di beni e capitali. La
situazione venutasi a creare fu il prodotto di fallimenti di mercato e di una inadeguata
supervisione pubblica del sistema finanziario. Prima del 1997 l’Asia conobbe una
forte crescita, grazie anche alla stabilità delle monete ancorate al dollaro, alti tassi di
rendimento e assenza di rischi di cambio. Da tale data venne la resa dei conti. L’alta
quantità della crescita scopriva una bassa qualità: una crescita malformata, basata su
eccessi nell’offerta di credito e sul cattivo funzionamento dei filtri finanziari che
presiedono all’allocazione delle risorse. I sistemi bancari in Indonesia non
svolgevano la funzione d’intermediazione classica – prendere il risparmio e dirigerlo
all’investimento – ma sceglievano i destinatari dei prestiti secondo criteri in cui
nepotismo e corruzione avevano troppa parte. L’Indonesia risultò essere uno dei
Paesi più colpiti, anche politicamente dalla crisi. Alla sua vigilia, il Paese pareva in
piena salute: buon attivo commerciale, bassa inflazione, alte riserve valutarie e un
settore bancario in discreta efficienza, con molte aziende indebitate (ma non troppo)
in dollari, mentre la rupia indonesiana si apprezzava. Alla svalutazione del bath
thailandese le autorità monetarie di Giakarta tentarono di rispondere aumentando
dall’8 al 12% la banda di oscillazione della moneta locale, ma invano. Sotto i colpi
della speculazione (la valuta crollò da 2.000 a 18.000 sul dollaro), in agosto il Fondo
Monetario Internazionale dovette intervenire con crediti d’emergenza per ben 23
miliardi di $, ma senza riuscire a frenare una crisi sfociata in gravi incidenti di piazza
e nelle dimissioni del dittatore Suharto: solamente nel 2003 il PIL risuperò quello del
1997 e da allora continua a crescere ad un ritmo sempre più sostenuto.
1.2.4 Messico
Per quanto riguarda il Messico, con una crescita media del PIL dal 2003 al
2006 pari al 2,95% si posiziona al quarto posto tra i Paesi analizzati.Quando Alvarez
diventò presidente nel 1970, adottò misure per limitare il controllo straniero
sull'economia e per accrescere le esportazioni; allentò inoltre i legami con gli Stati
Uniti, mirando a stabilire rapporti di cooperazione economica con i paesi
dell'America latina, il Canada, il Giappone e la Comunità Europea. L'economia
messicana registrò una forte crescita tra il 1970 e il 1974, per poi arrestarsi nel 1975
8
(Grafico 1.5); nel tentativo di ridurre il deficit commerciale, l'anno seguente il
governo dovette svalutare del 50% il valore del peso. Successivamente, Portillo,
eletto presidente nel 1976, varò un programma di austerità economica chiedendo agli
operai di ridurre le pretese salariali e agli imprenditori di aumentare gli investimenti.
Negli anni seguenti portò a un effettivo miglioramento della situazione nonostante il
permanere di un alto tasso d'inflazione.
Grafico 1.5 – Variazione percentuale del PIL annuale del Messico dal 1950 al 2006
Nella seconda metà degli anni Settanta il Messico raddoppiò la produzione
petrolifera e ciò, nonostante il forte indebitamento causato dall'acquisto delle
attrezzature per gli impianti, permise al paese di godere di una maggiore
indipendenza, specialmente rispetto agli Stati Uniti; tuttavia il crollo dei prezzi del
petrolio, verificatosi all'inizio degli anni Ottanta, provocò una grave crisi finanziaria
per l’impossibilità di provvedere al rimborso dell’enorme debito estero, tale da
ripercuotersi sulla stabilità sociale.
Quando Hurtado divenne presidente nel 1982, si trovò a governare un paese prostrato
da un elevatissimo tasso inflazionistico, afflitto dalla disoccupazione e dagli scontri
sociali che nelle campagne opponevano contadini e latifondisti; la decisione del
presidente di nazionalizzare le banche per evitare la dispersione di capitali all'estero
creò scontento anche tra i settori medio-alti del mondo finanziario. Nel 1985 il paese
fu colpito da uno spaventoso terremoto che fece migliaia di vittime e provocò
ingentissimi danni, con conseguente drastica caduta del PIL nell’anno successivo.
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Solo dopo il 1990, modifiche legislative permisero l’ingresso di capitali stranieri in
settori fino ad allora controllati dallo stato (per esempio elettronica e farmaceutica) e
la partecipazione maggioritaria in alcune imprese. Molte banche furono privatizzate e
anche per alcuni colossi produttivi fu prevista la cessione a privati. Questo, unito
all’istituzione del NAFTA nel 1992, e agli accordi con gli stati centroamericani,
permise al Messico di valorizzare il suo ruolo di asse portante di un vasto mercato
comune intercontinentale.
Le elezioni presidenziali del 1994 videro l’affermazione di Zedillo, che all’inizio del
1995 dovette affrontare una grave crisi finanziaria che portò ad una caduta del PIL
considerevole. La ripresa però avvenne in poco tempo: già nell’anno successivo il
PIL era cresciuto del 5,5%. Il Messico continuò la sua crescita sostenuta per altri
quattro anni, fino al 2001 quando, a causa di un’ulteriore crisi finanziaria interna, si
bloccò registrando una flessione minima dello 0,03%, che poi recuperò in breve
tempo. Negli ultimi anni continua la sua crescita sostenuta.
1.2.5 Brasile
Il Brasile si colloca all’ultimo posto tra i Paesi analizzati con tassi di crescita
tra i più alti: ne detiene infatti una media negli ultimi quattro anni del 2,93%. Nel
prossimo futuro è previsto comunque un aumento quasi esponenziale dell’economia
brasiliana.
Osservando il grafico sulla variazione del PIL dal 1950 si possono notare gli elevati
tassi di crescita di quest’ultimo lungo lasso di tempo (Grafico 1.6).
Grafico 1.6 – Variazione percentuale del PIL annuale del Brasile dal 1950 al 2006
Variazione % del PIL dal 1950 al 2006
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L’andamento appare abbastanza altalenante e ciò è dovuto soprattutto alla politica
instabile che ogni leader ha adottato durante il mandato. In particolare una caduta del
tasso di crescita si è verificata tra gli anni 1963 e 1965 nei quali l’allora presidente
Goulart realizzò un vasto piano di riforme decretando l’entrata in vigore di controlli
sui livelli degli affitti, la nazionalizzazione delle raffinerie petrolifere,
l'espropriazione delle terre non coltivate e limitazioni all'esportazione dei capitali.
Già due mesi dopo l'annuncio di queste misure, nel marzo del 1963, il governo fu
rovesciato dai militari che presero il potere. Il governo militare addolcì enormemente
le riforme varate dal precedente presidente, specialmente in materia di controlli
statali sui livelli dei prezzi e dei salari. Questo condusse per diversi anni successivi a
un miglioramento della situazione economica nazionale. Di li a poco, però, la
crescita economica generale e lo sviluppo delle vaste regioni dell'interno del paese
promosse dal governo risultarono soffocate dagli alti costi dell'energia,
dall'inflazione incontrollata e da una bilancia commerciale in forte deficit; successe
così una crisi economica tra il 1981 e 1983. A questo punto si resero necessarie
drastiche misure di austerità per sradicare l'inflazione e far fronte allo schiacciante
debito estero; l'uscita dalla crisi economica inoltre non poteva avvenire che
contestualmente al mutare anche del quadro politico nazionale; per questo si
acconsentì alla reintroduzione dell’elezione diretta del presidente, precedentemente
eletto dal solo Congresso. Nel 1989 prese così il potere un esponente del partito
conservatore. Tra gli obiettivi del suo programma permaneva quello di combattere
l'inflazione, ma ciò ebbe come conseguenza la più grave recessione del decennio;
infine la sua popolarità crollò a seguito della messa in stato d'accusa per corruzione e
fu costretto a presentare le dimissioni. Il suo successore riuscì finalmente a frenare
l’inflazione e a rilanciare l’economia, soprattutto grazie all’introduzione della nuova
valuta nazionale, il real.
Alla fine del 1994, un nuovo presidente, proclamò la messa in opera di un ampio
programma di privatizzazioni e di abbattimento della spesa sociale che gli consentì di
battere l’iper-inflazione, ma provocò un netto peggioramento delle condizioni di vita
delle classi più povere e un aumento della disoccupazione (tra il 1997 e il 1998, la
disoccupazione nel paese crebbe di quasi l’1% al mese). In questi anni, inoltre, il
Brasile risentì fortemente degli effetti provocati dalla crisi asiatica e visse una
momentanea crisi: il Paese fu costretto ad accordarsi con il Fondo Monetario
Internazionale per ottenere un prestito di 41 milioni di dollari per sostenere
11
l’economia contro gli effetti negativi della crisi. Dopo un lungo periodo di
speculazioni che avevano bruciato più di 40 miliardi di dollari, agli inizi del 1999 il
Brasile dovette lasciar fluttuare il real, che perse immediatamente il 40% del suo
valore. Ancora a distanza di cinque anni dal lancio del “piano real” lo sviluppo del
Brasile rimase ancora fortemente condizionato da un enorme indebitamento pubblico
(350 miliardi di dollari, metà del prodotto interno lordo) e dalla ricomparsa della
recessione.
Dal 2004 l’economia brasiliana ha dato segni di ripresa, grazie al buon andamento
delle esportazioni (favorite dalla svalutazione del real), alla tenue ripresa
dell’industria e ai drastici tagli apportati alla spesa sociale. Le misure di austerità
hanno però ulteriormente aggravato la situazione delle classi più povere, causando un
diffuso malcontento. Oggi il Brasile è il paese che presenta la distribuzione del
reddito più ineguale al mondo, con una ristretta classe agiata che detiene la gran parte
della ricchezza del paese, e una grossa quota di popolazione che vive sotto la soglia
di povertà. Attualmente il Brasile si sta sempre più sviluppando aprendo poco a poco
le sue frontiere e, con l’aiuto dei Paesi industrializzati, si spera che in un futuro
prossimo queste differenze sociali si possano attenuare, cosa che comporterebbe tra
le altre, ad un’ulteriore crescita economica.
1.3 Quadro generale italiano
Il Nord-Est italiano
2
, oltre ad essere la nostra realtà economica, si è
differenziato dal resto del territorio per l’enorme crescita economica che si è
registrata negli ultimi anni.
È un dualismo quasi inattaccabile che caratterizza ancora l’Italia, spaccata tra Nord e
Sud sotto tutti i profili economici e sociali. L’ultimo check-up del paese condotto
dall’ISTAT nel Rapporto Annuale 2006 sottolinea con evidenza le differenze che
ancora permangono tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia. Veri e propri gap che vanno
dal tasso di occupazione alla produttività, dal reddito delle famiglie alla presenza di
2
Del Nord-Est, secondo i dati ISTAT, fanno parte le regioni: Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli
Venezia Giulia ed Emilia Romagna.
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stranieri, e che prevalgono su ogni altro tipo di differenziazione, al punto che negli
ultimi anni si è verificata una ripresa del flusso migratorio lungo l’asse Sud/Nord.
Tutte differenze che emergono anche guardando al tessuto imprenditoriale.
L’ISTAT ha catalogato le imprese italiane in quattro macrocategorie, differenziate a
seconda della forza produttiva e, allo stesso tempo, ha verificato una distribuzione
geografica piuttosto uniforme delle tipologie. Una fetta pari al 21% dei 4,2 milioni di
imprese italiane, concentrata soprattutto al Centro-Nord e caratterizzata da
dimensioni piuttosto piccole e da attività avanzate nei servizi, ha risultati positivi,
superiori alla media sia per produttività che per redditività. Un altro 16% è di grandi
dimensioni, opera nell’energia, nella chimica, nella produzione dei mezzi di
trasporto, utilizza l’economia di scala e registra una produttività al di sopra della
media, ma una redditività non altrettanto significativa. Un più consistente 29%,
dedicato soprattutto al manifatturiero meccanico, sfrutta il basso costo del lavoro per
ottenere un’alta redditività da una produttività inferiore. Infine, la fetta più grande,
pari a 1,5 milioni di imprese (35%), è costituita da imprese deboli che vivono a
livello di sussistenza. L’ISTAT sottolinea che la maggioranza di queste è concentrata
proprio al Sud.
1.4 Economia del Nord-Est rispetto all’Italia
In base alle rilevazioni effettuate dall’ISTAT nei conti economici territoriali,
il Nord-Est sta crescendo a ritmi quasi doppi rispetto al Mezzogiorno: il PIL, è stato
nel 2006
3
del 2,3% al Nord-Est, e dell’1,4% al Sud.
Tabella 1.1 – La dinamica del PIL annuale nelle regioni del Nord-Est dal 2003 al 2006
3
Ogni riferimento al 2006 è da considerarsi una stima in quanto i dati ufficiali non sono ancora stati
diffusi
2003 2004 2005 2006
Trenti no Alt o Adi ge 0,4 1,8 0,5 2,0
Veneto 0,4 0,2 -0,8 2,5
Fri uli Venezi a Gi uli a 1,6 0,2 1,5 1,5
Emili a Romagna 0,2 0,2 0,7 2,0
Nord- Est 0,5 0,9 0,1 2,3
It ali a 0,3 1,2 0,0 1,9
Font e: el aborazi one su dati I STAT
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Osservando le serie storiche del Prodotto Interno Lordo del Nord-Est e delle singole
regioni dal 2003 al 2006 (Tabella 1.1), si può vedere come sia variato; in particolare
si noti come il PIL della ripartizione territoriale sia, ad eccezione del 2004, sempre
più elevato rispetto a quello italiano. È stato nel 2005 comunque che sia l’Italia, sia il
Nord-Est hanno conosciuto un periodo di “crescita zero”, dovuto soprattutto alla
diminuzione verificatasi nella spesa delle famiglie, al decremento delle unità di
lavoro e al settore agricolo.
Nel 2006 il Nord-Est mostra la sua performance migliore tra le altre
ripartizioni geografiche del Paese, non solo per quanto riguarda il PIL, ma anche per
le unità di lavoro (cresciute dell’1,8%) e per la produttività del lavoro (+0,5%); anche
la spesa consumi finali interni segnala un incremento dell’1,5%, con un tasso di
crescita della spesa delle famiglie pari al 2,1% (Tabella 2). Al risultato economico
positivo della ripartizione contribuisce soprattutto il settore industriale (+3,1%) e
quello dei servizi (+1,8%), mentre l’agricoltura registra un forte calo, pari al 4,8%
(Tabella 1.2).
Tabella 1.2 - Prodotto Interno Lordo, Unità di lavoro, Produttività del lavoro, Spesa per consumi finali
del Nord-Est sul totale Italia - Anno 2006 (Variazioni percentuali rispetto all'anno precedente)
Anche le esportazioni del Nord-Est verso i paesi dell’Unione europea e quelli
extra Ue, con un aumento tendenziale in valore calcolato dall’ISTAT pari al 9,6%
nella media dei dodici mesi del 2006, hanno mostrato una significativa accelerazione
rispetto alla meno favorevole dinamica del 2005 (+3,7%); il trend esportativo
nordestino risulta essere superiore alla media italiana (pari al 9%) e sicuramente è la
ripartizione più profittevole di tutto il territorio italiano. Le esportazioni dell’Italia
nord-orientale hanno registrato aumenti in tutte le regioni dell’area (Tabella 1.3).
Aggregati Nord- Est It ali a
Prodott o I nt erno Lordo 2,3 1,9
Unit à di l avoro 1,8 1,6
Prodott o I nt erno Lordo per unit à di l avoro 0,5 0,2
Spesa per consumi fi nali 1, 5 1,2
Spesa dell e f ami gli e per consumi fi nali 2, 1 1,6
Fonte: el aborazi one su dati I STAT