Introduzione
II
I contributi su questo tema sono vasti e vari. Dal filone francese, con i lavori del già citato
Dubois che, insieme a Paternault e Laurent (1995, 1996), esplora i tratti caratterizzanti il
settore lusso, a quello italiano, con Fabris, Tartaglia e Maritozzi. Questi ultimi due,
trattando del marketing dei beni di lusso, non possono che definirlo “straordinario” (2006,
p. 12).
Dopo aver osservato l’universo del lusso dalla finestra privilegiata delle strategie
commerciali, lo stesso viene indagato da un’altra prospettiva, una prospettiva troppo
spesso in contrapposizione, se non agli antipodi, rispetto a quella del marketing. É la
valutazione finanziaria, nemica giurata dei creativi del marketing, è un’oggettività fatta di
numeri e di performance aziendali che, tuttavia, deve inevitabilmente essere presa in
considerazione per non relegare alla sfera dell’utopia persino le tecniche di vendita di
questi “venditori di sogni”. Così, anche grazie al contributo di Della Bella (2002), si
affiancano alle caratteristiche proprie dei beni di lusso, altrettante caratteristiche, di ordine
economico-finanziario, dei marchi cui tali beni di lusso appartengono e per le cui
peculiarità vengono identificati come tali.
Una volta compreso il ruolo essenziale svolto dalla marca in questo particolare mercato, il
terzo capitolo tratta del capitale associato a essa, ovvero brand equity, e di come lo
stesso possa accrescere o diminuire a seguito dell’adozione di una delle strategie più
frequentemente intraprese nel settore del lusso: la brand extension. I contributi chiave
offerti dalla letteratura specifica sul brand equity sono quelli di Aaker (1991, 1996) e di
Keller (1993, 1997) che vengono qui letti in un’ottica di adattamento al contesto specifico
di settore. È proprio Aaker a definire le estensioni di marca come una strategia naturale e
fisiologica per l’impresa che vuole crescere sfruttando i propri assets (1991). A maggior
ragione, dunque, nelle imprese per cui la marca rappresenta una risorsa cardine, le sue
successive estensioni saranno cruciali.
Vicari, poi, parla di “potenziale generativo” della marca (1992, pp. 81-93), Busacca di
“potenziale di diffusività” associato al brand (2000, p. 62), Saviolo di ampliamento del
territorio del marchio (1997). L’intenzione è di declinare questi concetti in un ambito, quello
del lusso, nel quale la loro valenza appare amplificata. Non rimane dunque che riunire gli
strumenti fino a qui raccolti per interpretare il fenomeno brand extension nel settore del
lusso attraverso le lenti del consumer-based brand equity.
Introduzione
III
Il capitolo quattro si propone di operare la traduzione tanto sospirata dagli investitori
quanto temuta dagli uomini di marketing: quella delle strategie, fondate su percezioni dei
consumatori e tendenze di mercato, in numeri, flussi monetari. Un valido aiuto in questa
ardua impresa viene dato dagli scritti di Della Bella (2002), Predovic (2004) e Busacca
(2004). Quest’ultimo, in particolare, presenta un criterio di valutazione del marchio le cui
caratteristiche tanto si avvicinano a quelle della metodologia che qui si ricerca: la
possibilità di coniugare percezioni dei consumatori e previsioni finanziarie e la
conseguente necessità di partire dalla dimensione consumer-based del brand equity per
poi risalire al potenziale guadagno generabile da una sua estensione. Tuttavia, un’ulteriore
parafrasi si rende necessaria per navigare nelle acque insidiose del lusso, dove ondate di
fragili ipotesi sul comportamento dei consumatori si infrangono sugli scogli dei risultati
finanziari. Incoraggiati dagli insegnamenti di Della Bella, secondo la quale “la crescita
nell’impresa del lusso crea valore se concepisce un’appropriata forma di valorizzazione
del brand equity” (2002, p. 119), ci si appresta a intraprendere tale via. È così che, alla
scelta di allargare il territorio delle marche di lusso ad ambiti fino ad oggi inesplorati, viene
affiancata la valorizzazione monetaria di tale decisione, ovvero un modello atto a
realizzarla.
Nel capitolo cinque, infine, si scende sul campo per valutare l’applicabilità e la validità del
modello proposto rispetto a un caso concreto, la brand extension di Bulgari negli hotel. In
principio si raccontano la genesi, le ragioni di natura strategica e le radici societarie della
Bulgari Hotels & Resorts. Successivamente, si applica un metodo sperimentale creato a
partire dal criterio del valore delle relazioni di Busacca, per valutare l’esito della
scommessa di Francesco Trapani non solo dal punto di vista marketing-strategico ma
anche e soprattutto dal punto di vista finanziario. Perché, come emergerà durante tutto il
lavoro, solo mantenendo parallele queste due prospettive si è in grado di giudicare la
bontà delle decisioni maturate a livello manageriale. E nonostante il mondo del lusso si
sottragga e sempre abbia voluto sottrarsi a molte delle direttive economiche comuni a tutti
i business aziendali, a questa regola universale anche Sua Signoria prima o poi dovrà
inchinarsi.
Capitolo 1
4
Capitolo 1
Uno sguardo al settore lusso
1.1. La rinascita dalle ceneri
I dati finanziari recenti lo confermano: il peggio è passato, il mercato mondiale del lusso ha
finalmente dimenticato lo sfortunato quadriennio 2001-2004 e brilla già di una nuova luce.
La ripresa c’è stata e ora sembra essere inarrestabile. Le stime di crescita del fatturato
delle aziende del settore sono tra l’8 e il 10% a fine 2006 e il valore complessivo del
business del lusso si aggira attorno a 160 miliardi di euro, dopo che già il 2005 aveva
registrato un aumento del 9% a 146 miliardi.1
Il panorama attuale è frutto di un processo di concentrazione e internazionalizzazione che
ha avuto inizio nella seconda metà degli anni Novanta. Questo periodo ha visto poche
imprese intraprendere un numero consistente di acquisizioni miliardarie al fine di
assumere il controllo di quanti più brand potessero. Basti pensare che in Italia la
dimensione media dei primi 25 gruppi industriali del settore moda è triplicata tra il 1995 ed
il 2003. La maggiore crescita l’ha avuta Geox, cresciuto di tredici volte, seguito da Dolce e
Gabbana, 10 volte, e da Prada, 9 volte.2 Al termine di questa furiosa lotta all’ultimo brand,
ciò che ne risulta è la creazione di grandi gruppi finanziari e industriali: imperi che si
caratterizzano per il possesso di numerosi marchi, diversificati in molti settori (Tartaglia e
Marinozzi, 2006).
Nemmeno questi incoraggianti equipaggiamenti, tuttavia, sono serviti ad affrontare la
guerra iniziata dopo l’undici Settembre 2001. Parlare di guerra in quest’ambito sembra un
abuso, ma la sopravvivenza del business del lusso in quel periodo è stata messa davvero
a dura prova. É stato come se, dopo metà secolo di riposo durante il quale i sogni delle
persone avevano gradualmente soppiantato i loro bisogni, un brusco risveglio avesse
scosso il mondo allontanando perfino i più tenaci consumatori di lusso dalla superficialità
di questo settore. Se a ciò si aggiunge la recessione degli Stati Uniti, l’indebolimento
dell’economia di altri mercati chiave per i beni di lusso (Europa e Far East), la riduzione
1
Fonte Il Sole 24 Ore, 26 Ottobre 2006.
2
Fonte Pambianco C. Convegno “La moda ad una svolta”.
Capitolo 1
5
dei flussi turistici a causa dell’instabilità politica da Giappone e Usa e il ribasso del mercato
azionario a seguito della “bolla della new economy”, si ha una dimensione della crisi
attraversata dal settore.
I tempi sono cambiati, la globalizzazione dei mercati, l’emergere di nuovi affluent customer
e la maggiore integrazione di stili di vita nell’upper class dei diversi paesi, hanno condotto
a una nuova inversione del trend. I risultati dell’ultimo anno lo dimostrano: il mercato del
lusso è tornato ai vecchi splendori di una volta (Della Bella, 2002).
1.2. Una crescita inarrestabile?
Il processo di crescita delle dimensioni delle imprese del lusso, avviato nella seconda
metà degli anni Novanta, potrebbe continuare anche in futuro ma emerge ora qualche
perplessità riguardo la sua valenza come driver di creazione di valore. La possibilità di
acquisire brand già presenti sul mercato da un lato si scontra con l’oggettiva difficoltà di
trovare “marchi non ancora accasati” (Tartaglia e Marinozzi, 2006, p. 65) e di
conseguenza con prezzi elevati in caso di IPO, dall’altro rappresenta una fonte di
creazione di valore altamente prevedibile, dunque destinata a esaurirsi velocemente.
In un settore come questo, nel quale è fondamentale avere il controllo diretto della
produzione e si rendono necessari investimenti ingenti per ottenere un buon monitoraggio
sulla distribuzione, crescere è d’obbligo. Tuttavia, non tutte le imprese possiedono la
massa critica sufficiente per intraprendere operazioni finanziarie destinate a questo scopo
e, come se non bastasse, in questo settore è raro assistere a veloci ritorni sugli
investimenti.
Dunque, è possibile che si apra una nuova fase di acquisizioni ma non sarà certo come
quella degli anni tra il 1999 ed il 2001, poiché tutti hanno imparato dagli sbagli commessi
in quel periodo (Andrea Guerra, 2006). Oggi il settore è caratterizzato da una maggiore
prudenza degli investitori, soprattutto perché non tutte le imprese sono state all’altezza
delle promesse implicite nei prezzi di mercato spuntati in sede di IPO. Questa incertezza,
come dice Della Bella, si traduce in una show me attitude nei confronti del valore
potenziale insito nel brand (2002). Ed è proprio su questo ultimo elemento, infatti, che si
fondano le più recenti strategie di creazione di valore delle aziende di lusso.