4
fattori o beni in cambio di un corrispettivo economico, riguardano l'azienda ed i
suoi clienti, fornitori e dipendenti, quindi tutti coloro che hanno verso di lei un
concreto interesse economico.
Tuttavia, ci sono anche altri stakeholder, come le associazioni di consumatori o
le istituzioni, che si relazionano con la società anche senza ricevere in cambio
nessun tipo di corrispettivo economico. Infatti, si definisce “sistema degli
stakeholder” l'insieme dei soggetti di diversa natura (persone, aziende,
istituzioni e associazioni) che possono intrattenere scambi economici con
l'azienda o avere con questa un rapporto indiretto ed occasionale, ma
comunque portatori di un interesse. Ho parlato all'inizio di “interlocutori sociali”
e adesso di “stakeholder”: semplicemente due modi differenti di chiamare gli
stessi soggetti. Stakeholder deriva dall'inglese “to hold a stake”, che significa
“fare una puntata”, nel senso di qualcuno che scommette sulla buona riuscita
di un'azienda. Tale espressione non va, però, confusa con shareholder,
dall'inglese “to hold a share”, possedere un'azione. In italiano, quindi,
quest'ultimo termine si riferisce agli azionisti, ovvero coloro che possiedono
azioni della società – è un concetto molto più ampio di quello che potrebbe
sembrare perché chiunque può possedere un'azione -.
Lo studio di una realtà economica aziendale può scegliere approcci differenti: la
massimizzazione del ruolo degli stakeholder, «impostazione secondo cui
l'azienda deve definire le sue strategie mirando al soddisfacimento dell'intero
sistema di stakeholder»1 – stakeholder approach -, la minimizzazione di
questo, dando importanza solo agli azionisti e «considerando implicitamente gli
altri soggetti come una “zavorra sacrificabile”»2 – corporate governance – o il
contemperamento delle diverse istanze. Il lavoro svolto nasce dalla ricerca
teorica su testi di economia aziendale, marketing e comunicazione d'impresa,
ma una buona parte è frutto di interviste dirette a responsabili delle relazioni
istituzionali, di regulatory affair, marketing e relazioni interne ed esterne delle
aziende oggetto di studio. Conseguentemente, diventa difficile poter affermare
che l'approccio prescelto sia il primo, laddove il punto di vista è ovviamente
1 A. Quagli, Comunicare il futuro, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 2
2 Ibidem
5
quello del dipendente dell'impresa in oggetto.
Di primaria importanza, soprattutto in una ricerca come questa che si
concentra su alcune aziende italiane con sede all'estero, è anche il concetto di
globalizzazione. S’intende con quest’espressione l'abbattimento delle
frontiere economiche (fisiche o virtuali) che dovrebbe portare a facilitare gli
scambi economici. Anche Kotler, in apertura del capitolo dedicato al marketing
strategico, ricorda che «lo scenario economico contemporaneo è determinato
da due forze fondamentali: la tecnologia e la globalizzazione».3 Storicamente
parlando, l'Italia visse durante la seconda guerra mondiale un periodo di pura
autarchia. S’intende per questa l'autosufficienza economica o “economia
chiusa”, ovvero l'assenza di relazioni commerciali con l'estero e un ecosistema
economico nazionale non influenzato dalle tendenze internazionali. Un esempio
può essere individuato nell’'Italia fascista a partire dal '35 e nella Germania
nazista. Il clima teso delle relazioni internazionali e il pericolo di un'imminente
dichiarazione di guerra aveva spinto diversi Paesi ad accogliere il principio
economico in base al quale una nazione deve essere in grado di produrre
autonomamente tutto ciò di cui ha bisogno. In Italia fu adottata una politica
autarchica come risposta alle sanzioni economiche, quali il blocco del
commercio, imposte dalla Società delle Nazioni per l'invasione dell'Abissinia.
L'efficacia delle misure decise da quella che dopo la seconda guerra mondiale
si sarebbe chiamata Nazioni Unite fu, in realtà, diminuita dal fatto che diversi
paesi con cui l'Italia aveva intensi rapporti commerciali non aderivano alla
Società delle Nazioni e dall'applicazione blanda data da altri al blocco. Un
risultato corretto, però, fu lo sviluppo che l'autarchia portò all'industria
chimica.4 La notizia risulta interessante nel quadro di quello che
successivamente racconterò circa la storia della Zambon Group.
Gli anni '60, poi, rappresentarono la forte volontà di aprire le frontiere (a
questo proposito è degno di nota il fatto che la Comunità Europea sia nata
proprio come unificazione prima economica e, solamente più tardi, politica).
Tra le aziende italiane studiate, la Zambon arriva in Spagna proprio nel 1960 e
3 P. Kotler, Il marketing secondo Kotler, edizione italiana a cura di Walter Giorgio Scott, Il Sole 24 Ore Edizione,
Milano, 2004, p. 3
4 L'Enciclopedia Universale, Zanichelli Editore, Bologna, 2005, p. 505
6
la Menarini apre la sua attività imprenditoriale nello stesso paese nel 1961 con
la denominazione sociale di Laboratori Menarini S.A. Delle tre, solo la
Wassermann arriva dopo – nel 2003 – nonostante fosse attiva in Italia già dal
1948 e si fonde con il laboratorio locale Bama-Geve. Zambon e Menarini, cioè,
sono arrivate nella penisola Iberica negli anni del boom economico italiano, la
Wassermann al tempo della globalizzazione.
Ciò che è stato interessante analizzare ha riguardato i cambiamenti nella forma
comunicativa che le aziende scelte manifestano nella loro relazione con
l'ambiente esterno, vale a dire a seconda dei canali preferiti, a seconda che si
tratti di comunicazione aziendale periodica oppure occasionale ed in base alla
categoria di stakeholder. Tuttavia, nonostante i continui scambi con l'ambiente
esterno, mi sento di abbracciare l'ipotesi di Rosella Ferraris Franceschi secondo
cui «le aziende vengono studiate in quanto soggetti economici attivi provvisti di
apprezzabili margini di discrezionalità, la cui dinamica è fortemente
influenzata, ma non determinata in via assoluta dal mercato».5
Tra le varie possibilità di comunicazione indiretta, è oggi evidentemente di
primo piano rispetto alle altre, l'interazione attraverso il web. Gli antichi latini
sostenevano che “verba volant” mentre “scripta manent” e così forse si spiega
uno dei motivi dell'enorme successo di questo tipo di comunicazione. Le società
farmaceutiche, evidentemente, non sono rimaste indietro ed hanno iniziato già
da anni a sfruttare con entusiasmo questo mezzo di comunicazione pieno di
potenziale. Il testo del messaggio, scritto o registrato che sia, può, infatti,
essere integralmente conservato e, di solito, le aziende s’impegnano a
promettere chiarezza e completezza. La quantità di informazioni accessibile è
enorme, nel senso che il flusso informativo che Internet propone ne esce molto
potenziato soprattutto per gli investitori privati (questi, infatti, non hanno le
stesse possibilità di quelli pubblici di accedere alle fonti informative). Si pensi
solamente agli archivi – serie storiche o bilanci – o a tutti i link esterni che
sono inseribili in una pagina web e che possono «prospettare all'utente anche
l'acquisizione di dati riferiti ad altre aziende, a dati settoriali, a scenari
macroeconomici, oppure il contatto con altri soggetti in grado di fornire
5 R. Ferraris Franceschi, Problemi attuali dell'economia aziendale, Giuffrè Editore, Milano, 1998, p. 7
7
ulteriori dati più elaborati in merito all'azienda considerata».6 Da non
dimenticare, poi, la riduzione dei costi e l'abbattimento delle barriere tra le
diverse tipologie di comunicazione: scritta/orale, diretta/indiretta,
obbligatoria/volontaria.
È vero anche, evidentemente, che Internet non può risolvere di per sé tutti i
mali ed è quindi incapace di eliminare definitivamente le asimmetrie
informative tra l'interno e l'esterno dell'impresa. Tali fenomeni sono contrastati,
per esempio, da tutti quegli imprenditori che producono oggetti di qualità e
vogliono che ci sia ampia e veritiera diffusione di informazione affinché,
aumentata la consapevolezza dei clienti, possa aumentare anche il prezzo loro
richiesto. Vedremo nella parte dedicata alla concreta “vita” aziendale delle tre
imprese analizzate che nel settore farmaceutico, profondamente regolato, i
prezzi vengono in realtà decisi dal Ministero della Sanità, curiosamente la
stessa entità che poi dovrà pagare per quei farmaci che sono concessi
gratuitamente dal Sistema Nazionale.
Tornando alle potenzialità di Internet e focalizzandosi soprattutto sulle
informazioni finanziarie, questo strumento permette un incredibile aumento
della quantità di informazioni proposte – come detto poco sopra – oltre ad un
incremento della qualità. Migliorano, quindi, la selettività (l'uso dei link, così
come dei glossari e dei motori di ricerca interni permette una lettura non
sequenziale), la segmentazione (l'accesso pull permette la personalizzazione
ed i codici di accesso la gerarchizzazione degli utenti), l'interazione, la stabilità
dei riferimenti (pagine digitali come punti di riferimento stabili), la
fidelizzazione dell'utenza (registrazione sul sito, forum), la sicurezza dei dati
(Quagli sottolinea come non vada dimenticato che «la diffusione delle
informazioni via web da parte della società emittente avviene senza filtri
operati da intermediari informativi»7, quindi dovrebbero risultare “meno
contaminate”).
Ne esce rafforzato anche lo spazio, nel senso che le multinazionali abituate a
lavorare in ambienti internazionali sono sempre più disposte a pubblicare on-
6 A. Quagli, cit., p. 20
7 Ivi, p. 21
8
line i propri bilanci in lingue diverse (secondo quanto riporta Quagli, «Microsoft
rende disponibile l'equivalente della lettera agli azionisti in ben 11 lingue – tra
cui l'italiano – ed il proprio bilancio leggibile secondo 6 possibili set di principi
contabili distinti per Paese»).8
Infine, Internet permette un uso più razionale anche del tempo. C'è maggiore
tempestività nel fornire le informazioni, un continuo aggiornamento -
purtroppo non sempre accompagnato dalla tracciabilità (tener traccia delle
modifiche) - ed una temporalità illimitata.
Nella comunicazione azienda-stakeholder si possono individuare quattro fasi:
quella che va dall'insorgere dell'evento alla registrazione nel sistema
informativo del mittente, l'effettiva trasmissione del messaggio, la decodifica
da parte dei destinatari ed il feedback (Internet agisce soprattutto tra la
seconda e la terza fase). Per quanto riguarda l'affidabilità e le regole alle quali
tale mezzo deve aderire, si segue il principio della “pari disclosure” stabilito
dalla SEC e la Direttiva Europea sulla Trasparenza dei Mercati n. 45 del 26
marzo 2003. Secondo la Stock Exchange Commission, «quando un utente
richiede un documento via web alla società emittente, quest'ultima deve dare
comunicazione allo specifico richiedente (principio della “notice”) del recapito
avvenuto (es. tramite e-mail) e deve esistere prova della ricezione informatica
(principio della “evidence”). Il principio dell' ”access”, inoltre, stabilisce che
l'accesso ai documenti deve essere agevole e consentire l'archiviazione nel
computer dell'utente».9
Tuttavia, il nostro ambito di studio riguarda aziende non quotate che non
devono in alcun modo sottostare agli obblighi imposti a quelle quotate da parte
di organismi di controllo di tipo pubblico (Consob) o privato (Borsa Italia). La
scelta di focalizzarsi su società non quotate per un mercato come quello
italiano – anche se poi lo studio analizza l'operato delle loro filiali estere – è un
cammino piuttosto obbligato. Il 98% delle aziende, infatti, rientra nelle piccole
imprese con meno di 15 dipendenti. Seppure una dimensione tanto ridotta non
rappresenti il caso di nessuna delle tre, stiamo pur sempre parlando di aziende
8 Ivi, p. 22
9 Ivi, p. 26
9
familiari, nate tutte tra la fine del 1800 e la prima metà del '900. Nonostante
da allora siano molto cresciute ed il portafoglio prodotti si sia notevolmente
ampliato, restano imprese familiari nella concezione imprenditoriale, anche
laddove – come nel caso di Zambon – l'approccio alla gestione aziendale sia dei
più moderni e innovatori.
In terra spagnola la situazione delle 3 competitor non è affatto diversa, anzi
ancora più rappresentativa. A livello geografico, infatti, l'industria farmaceutica
è spaccata su due fronti: le multinazionali, soprattutto statunitensi, con sede a
Madrid, e le imprese familiari italiane - ma anche tedesche - concentrate
nell'area di Barcellona. La maggior parte delle società del secondo gruppo
arrivarono negli anni '60 e si stabilirono in Catalogna investendo soprattutto
nel chimico, avvantaggiato dal know how della forte industria tessile locale.
1.1 Il metodo d'indagine
«La metodologia è da considerare come una delle variabili chiave della ricerca.
Possiamo definirla una variabile strategica poiché è in grado di incidere
direttamente sulla qualità del processo di indagine ponendolo al passo con i
tempi del sapere scientifico [...] rappresenta una forma mentis indispensabile
per lo studioso [...] una risorsa immateriale...».10 Così mi sono resa conto a
posteriori di aver impostato la mia indagine e, come scrive Ferraris Franceschi,
pur nella consapevolezza della necessità di delineare correttamente il
problema, non avevo a mia disposizione una ricetta per la sua impostazione,
«essendo molteplici e infinitamente diversi per scopi e livello di astrazione i
problemi che vale la pena affrontare per mantenere quel grado di vicinanza alla
realtà che ci consente il costante confronto delle teorie con i fatti».11 L'indagine
svolta attraverso le interviste sul campo (in-deep) ha cercato di investigare
soprattutto il rapporto tra le aziende, da un lato, ed il pubblico, i proprietari ed
i mass media, dall'altro. In nessun caso è stato approfondito l'aspetto dei
venture capitalist (o investitori di minoranza) quali per esempio i filantropi
imprenditoriali noti con il nome di “business angel”. I motivi principali sono tre.
10 R. Ferraris Franceschi, Problemi attuali dell'economia aziendale, cit., p. 3
11 Ivi, p. 4
10
Il venture capitalist è il sostegno finanziario alle aziende di piccole dimensioni
che nasce in ambiente anglosassone e, a differenza della banca, è un socio
perché non presta denaro ma concede un mutuo. Tale figura resta sempre un
soggetto esterno che, superata la fase di start up, vende le proprie quote di
minoranza. Le tre aziende farmaceutiche, è vero, hanno vissuto al loro arrivo
una fase di avvio, ma non di vero e proprio start up, in quanto “derive” estere
di imprese già mature e consolidate, quindi tale figura resta per queste sullo
sfondo.
Il secondo motivo è la riservatezza che le imprese – e quelle farmaceutiche
ancora di più – sono solite manifestare nelle questioni prettamente economico-
finanziarie sulle quali possano tacere senza infrangere alcuna norma. La
comunicazione obbligatoria è l'adempimento delle leggi e dei regolamenti
allo scopo di:
ξ Ridurre le asimmetrie informative,
ξ obbligare la comparazione favorendo l'efficienza allocativa attraverso un
linguaggio mediamente comprensibile a tutti,
ξ ridurre il rischio di insider trading, ovvero il «trasferimento nei prezzi di
alcune informazioni sino a quel momento non conosciute dal mercato»12
(ma questo, oltre che molto lento e poco etico, vale soprattutto per le
aziende quotate),
ξ aumentare la credibilità delle informazioni grazie all'esistenza di concrete
sanzioni.
Complemento e non alternativa alla comunicazione obbligatoria è quella
volontaria: il livello tecnico è più elevato, la quantità di informazioni minore e
mancano controlli o tutele istituzionali. «La prima, fondamentale, motivazione
che induce le aziende [ad incoraggiarla] è l'esigenza di sviluppare una
comunicazione “di indirizzo” verso gli stake-holder».13 Nel caso delle aziende
non quotate, tuttavia, la differenza tra questi due modi di comunicare si
assottiglia, dato che per tale tipo di realtà societaria non esistono enti di
controllo della comunicazione obbligatoria del tipo della Consob o di Borsa
12 Bertinetti, 1996, cit. in A. Quagli, cit., p. 45
13 Ivi, p. 59-60
11
Italia.
Il terzo ed ultimo motivo riguarda il fatto che, come ricorda Quagli, «le società
non quotate si caratterizzano proprio per la “chiusura” del loro capitale a terzi
investitori».14 Infatti, nel loro caso si individuano solo tre essenziali categorie di
investitori: il capitale di comando (che di fatto coincide con l'azienda stessa), i
finanziatori bancari (con i quali si intrattiene normalmente una comunicazione
operativa) e i già citati investitori di minoranza (facendo uso anche con questi
soprattutto di canali diretti e comunicazione operativa). Quagli è convinto,
però, che «nella comunicazione con gli investitori, le società quotate si
avvalgano in positivo di una notevole omogeneità del sistema valoriale di
riferimento, più di quanto non accada per le società non quotate».15 Tale
circostanza fa sì che nel primo tipo di società l'interazione sia più agevole e
risultino potenziate le capacità di ciascun polo comunicativo di comprendere le
altrui intenzioni.
Nell'area di Barcellona e per il settore farmaceutico gli unici “supervisori”
istituzionali sono il Ministero di Sanità e la Società Spagnola dei Medicinali e dei
Prodotti Sanitari, oltre che le Autorità Sanitarie della Comunità Autonoma
Catalana. Quello che è piuttosto speciale per il settore farmaceutico è, poi, il
meccanismo di autocontrollo attraverso la propria principale associazione di
categoria: FARMAINDUSTRIA. Saranno analizzati dettagliatamente
l'Ordinamento dell'Industria Farmaceutica, la Guida alla Promozione dei
Farmaci e il Codice Deontologico stabilito da FARMAINDUSTRIA.
1.2 Il business plan
Per parlare di questo importante tassello della comunicazione aziendale,
prendiamo spunto da una relazione di Michele Agostini, presentata a Pisa il 13
luglio del 2005, che si intitola proprio Redazione del business plan: metodi e
suggerimenti. L'autore lo definisce in una nota «la strada maestra sulla quale
indirizzare le attività, fornendo un quadro di riferimento omogeneo al
14 Ivi, p. 29
15 Ivi, p. 37
12
management».16 È vero, purtroppo, che le aziende sono molto gelose dei
propri business plan ed è difficile che lascino trapelare informazioni in
proposito. Le società farmaceutiche oggetto del mio studio hanno manifestato
la stessa chiusura e le stesse paure. In modo specifico, il timore che anche la
sola visione di un piano di fattibilità risalente a qualche anno addietro
potesse dare preziose indicazioni ai competitor del settore. Generose di dettagli
e materiale esplicativo, di tempo e notizie aggiornate, si sono dimostrate
inflessibili sulla questione “piano aziendale”. Il piano commerciale, come è
chiamato alla Menarini Spagna, o semplicemente “il piano” come, invece, sono
soliti indicarlo in Zambon, è un argomento top secret. Alla Bama-Geve
Wassermann sostengono di non produrne neanche uno ufficiale, essendo la
loro una realtà di dimensioni molto ridotte (nella sede di Barcellona lavorano
solo venti persone). Per quanto riguarda le politiche di innovazione delle
imprese minori, infatti, sostiene Ada Carlesi che «risulta assente, specie nelle
piccole imprese, una “cultura finanziaria” che induca all'utilizzo di strumenti di
valutazione economica degli investimenti e di “convenienza” dei diversi mix di
finanziamento degli stessi».17
Il fatto è che la questione è più formale che sostanziale, come poi le stesse
persone intervistate hanno rivelato con sincerità. Nel senso che, se non è
possibile accedere direttamente al business plan, è stato pur sempre possibile
conoscere molte informazioni che costituiscono il nucleo del lavoro aziendale.
La Zambon, oltretutto, pubblica ogni anno il cosiddetto Value Report, destinato
a tutte le filiali e a tutti i fornitori. Qui, oltre a notizie più generiche sul
percorso aziendale nazionale ed internazionale, al lavoro del settore chimico e
di quello farmaceutico, alla responsabilità sociale e molto ancora, si rintraccia
una quantità di dati patrimoniali, di attivi e passivi, crediti e debiti, di tutto
rilievo. E tutto a disposizione di tutti, scaricabile dal web nelle versioni inglese
ed italiana. Ad ogni modo, sebbene ognuna delle 3 aziende sia arrivata in
Spagna con collaborazioni già più o meno attive con imprese locali, da ognuna
di queste 3 “incursioni” è nata ogni volta una nuova società. Quindi, è lecito
16 Michele Agostini, Redazione del business plan: metodi e suggerimenti, Pisa, 13 luglio 2005, p. 3
17 A.Carlesi, A. Angelini, G. Mariani, Il finanziamento degli investimenti innovativi nelle piccole e medie imprese, C.
Giappichelli Editore, Torino, 1999, p. 23.