sua vita. Il fattore decisivo del successo, quindi, è l’opportunità di entrare in un determinato
gruppo.
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All’inizio della vita scolastica, al giapponese è ancora concesso di lasciarsi andare a piccoli capricci
e a comportamenti poco disciplinati. Gradatamente, però, sia a casa sia a scuola, s’insegna a
riconoscere il concetto d’imbarazzo e vergogna e s’insegnano le prime tecniche per evitare di
provare tali sentimenti di disagio.
Il compito degli insegnanti in questa fase di vita, è di collegare, nella coscienza dei piccoli, il senso
di ridicolo al precetto morale che impone di vivere secondo gli obblighi (giri) verso la società. Tali
obblighi verso i parenti, verso l’onore della famiglia, verso colui con cui si è in debito, si
trasformano in una serie di limitazioni che subordinano la volontà del piccolo ai crescenti doveri
verso gli altri. La svolta graduale nell’educazione si mostra anche nel modo di punire i figli. Le
punizioni diventano più drastiche e severe. Quando l’insegnante assegna un voto negativo per il
comportamento o per il rendimento, i genitori gli rimproverano di aver infangato il nome della
famiglia e tutta la famiglia lo accusa.
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Il comportamento in pubblico e il linguaggio sono strettamente intrecciati e riflettono la struttura gerarchica che permea la società
giapponese. In Giappone un dirigente può essere facilmente riconosciuto come tale, perché ostenta sempre il suo rango in qualsiasi
circostanza.
Una conversazione quotidiana giapponese è condizionata dall’inizio alla fine dai rapporti interpersonali tra gli interlocutori; non vi è
alcuno sviluppo dialettico. Di solito, una conversazione è un sermone unilaterale, del tipo “concordo perfettamente”,
Si preferisce il silenzio all’uso di parole recise come “no” o “non sono d’accordo”. La ragione di tale autocensura risiede nel timore
di rompere l’armonia e l’ordine del gruppo, di ferire la sensibilità di un superiore e, in casi estremi, di essere estromessi dal gruppo in
quanto persona non gradita. L’isolamento è la sanzione che il gruppo riserva a coloro che dissentono dalle opinioni del gruppo;
nessuno difenderà il dissenziente, in nessuna circostanza.
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Una pratica ricorrente consiste nel tenere i figli “cattivi” a casa per kinshin (pentirsi).
Il mancato rispetto di ghiri isola il bambino dalla famiglia, dai coetanei e dagli amici, finché egli
non ha fatto le sue scuse e ha promesso di ravvedersi. Dopodiché, potrà essere riammesso nel
gruppo, famiglia o classe. Quest’atteggiamento della famiglia e degli amici è unico tra le società nel
mondo per la forza che possiede. L’individuo ha l'appoggio del proprio gruppo, solo finché gode
dell’approvazione degli altri gruppi di cui non fa parte. L’approvazione del mondo esterno ricopre
quindi un ruolo di primo piano nell’educazione e disciplina del singolo ( Per motivare gli studenti,
gli insegnanti fanno anche leva sull’accettazione e la stima degli altri bambini). Lo squilibrio che si
crea, fra le pressioni sociali, dei genitori e del gruppo dei pari sullo studente produce il rischio che
fenomeni, come il bullismo e il suicidio, subiscano un’impennata proprio nelle fasce d’età dai
dodici ai sedici anni circa.
Le scuole giapponesi sono famose per il loro rigore poiché la severità dell’istituto è considerata
come nota di merito e aggiunge valore al diploma conseguito. L’osservanza dei regolamenti
scolastici (che cambiano da istituto a istituto) è d’obbligo, e le pene sono molto severe (e spesso
corporali) per i trasgressori. I regolamenti sono molto puntigliosi, arrivano a precisare anche i
dettagli più insignificanti delle uniformi scolastiche, ma anche in questo caso le infrazioni non sono
tollerate. Il rigore con cui gli studenti giapponesi sono allevati inizia sin dall’asilo prosegue per tutta
la durata della scuola dell’obbligo, e all’università. Tutto ciò è esasperato dal fatto che è
continuamente incoraggiata la competizione tra gli studenti, per esempio con l’affissione nella
bacheca pubblica dei voti di tutti alla fine di ogni semestre e con la concessione di alcuni privilegi ai
ragazzi più meritevoli (come la partecipazione attiva ad alcune cerimonie); il fatto che questi
ragazzi siano quindi continuamente sotto pressione, unito alla cultura di percepire un cattivo voto o
una bocciatura come un fallimento totale, porta a un’alta percentuale annua di suicidi tra gli studenti
e alla diffusione di varie nevrosi riconducibili alla fobia vera a propria della scuola (la cosiddetta
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sindrome tokokyohi). A Tokyo, infatti, esiste addirittura una scuola dedita al recupero dei ragazzini
affetti dalla sindrome.
Dal punto di vista didattico
potremmo dire che le materie di insegnamento non differiscono molto dalle nostre, se non per il
3000 caratteri cinesi che i bambini devono imparare e che ne fanno la disciplina principale, insieme
alla matematica, dell’istruzione giapponese.
La durata giornaliera dell’orario scolastico è elevata in Giappone, ma le lezioni sono di 45 minuti
con una pausa di un quarto d’ora fra una lezione e un’altra, e sono molte le opportunità per
l’interazione sociale, la ricreazione e la partecipazione ad un ricco programma d’attività
extracurriculari. La scuola è concepita, infatti, non solo come un luogo per apprendere ma anche un
luogo dove i bambini possono giocare e stare con i loro amici.
I corsi cominciano in Aprile nel periodo della fioritura dei ciliegi e terminano il 31 marzo dell’anno
successivo. La giornata dei giovani studenti Nipponici comincia alle ore 8 di mattina e termina alle
15 del pomeriggio, poi si prosegue con le attività dei club scolastici che possono protrarsi anche
oltre alle 17. Si frequenta anche il sabato mattina e quando c’è da fare le pulizie, (poiché in
Giappone non esiste la figura del bidello) che sono eseguite a turno da tutti gli studenti.
Le classi regolari sono formate da 40 –50 studenti, 30 se c’è un alunno disabile. C’è un solo
insegnante per classe, che segue gli studenti in tutte le materi. Non esistono insegnanti di sostegno.
Vediamo il metodo di insegnamento: All’inizio della prima elementare, l’insegnante mira a
socializzare i bambini alle attività di vita di gruppo e alle consuetudini della scuola. Non s’insegna
da subito a contare e a scrivere, ma ciò che si apprende immediatamente è come si mettono le
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scarpe fuori della porta d’ingresso, come ci si siede e ci si alza, a parlare quando è il proprio turno,
come si parla e ci si comporta in pubblico.
È un lavoro sull’autocontrollo, sull’autostima e sull’autonomia.
Il bambino diventa gradualmente capace di raggiungere alti risultati senza che il suo ego sia
danneggiato da eventuali sbagli. Ciò avviene perché il risultato è in una certa misura prevedibile e
ritualizzato e inoltre ciò che conta è la perfezione del metodo, che poi garantisce anche un buon
risultato. Questo grazie e l’uso di regole e rituali: le azioni diventano ripetitive e sono apprese alla
perfezione. L’insegnante porta il bambino ad impegnarsi con tutto se stesso nel lavoro difficile,
duro, impegnativo imparando a padroneggiare compiti piccoli.
Tali compiti devono essere portati avanti uno per volta e al bambino è data la possibilità di
impararli per un lungo periodo, fino ad ottenere un alto livello di concentrazione e di perfezione
nelle procedure. Egli inoltre sarà in grado di saper fare quelle mansioni molto bene e ciò gli darà
nuova autostima e autonomia nello svolgimento delle attività. Questo è quindi il metodo con cui i
bambini sono guidati verso l’autonomia: il messaggio che gli insegnanti usano per motivare gli
studenti, è che acquisire competenze incrementa l’indipendenza individuale, rende più forti e da
questo deriva una soddisfazione intrinseca.
Non dobbiamo però immaginare una classe di soldatini silenziosi, tutt’altro, l’apprendimento nelle
classi si raggiunge attraverso piccoli gruppi (han ) di 4 o 5 alunni e l’interazione tra gli alunni porta
inevitabilmente ad aumentare il livello di rumorosità nella classe, senza che ciò comporti difficoltà
di svolgimento del programma, perché rumore è indice di coinvolgimento.
I gruppi sono veicoli educativi veri e propri, e la condivisione del potere decisionale e delle
mansioni nel gruppo indica il conseguimento della cooperazione che è in sé una fonte del benessere
personale per i giapponesi. Nel gruppo di classe i bambini apprenderanno che la collaborazione e la
solidarietà permettono di vincere su altri gruppi, tra cui s’instaura una forte competizione. Questa
stessa competizione accompagnerà il giovane giapponese in qualsiasi istituzione o settore sociale.
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Bisogna chiarire che la competizione è esclusa dagli obiettivi pedagogici degli insegnanti, infatti, il
valore prevalente è la cooperazione, tuttavia la gara per apprendere sempre di più e al meglio si
riflette nel sistema delle lezioni private, e nelle aspettative delle famiglie.
La competizione risponde all’ambizione di far parte di un gruppo socialmente più elevato, al cui
interno poi ci sarà solo cooperazione e abnegazione. Si è così sviluppato un ricco sistema educativo
parallelo di scuole private a tutti i livelli d’istruzione, che soddisfa il desiderio delle famiglie di
introdurre i figli nell’ élite.
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Una cosa importante da rilevare è la poca importanza nel mercato del lavoro dei diplomi ottenuti
nelle scuole pubbliche a causa del loro basso livello; ciò induce moltissime famiglie giapponesi a
mandare i figli nelle scuole private, costosissime e molto selettive. Questo è fondamentale per
garantire un futuro ai giovani giacché c’è quasi la certezza di un posto fisso per i laureati in
università importanti. Purtroppo però a causa del loro numero chiuso il percorso formativo del
ragazzo giapponese comincia già da piccolo nell’intento di riuscire a frequentare una buona scuola
elementare, una buona scuola media, che gli possa aprire le porte di un’eccellente scuola superiore,
e di un’ottima università; una caratteristica peculiare del sistema di educazione nipponico sta negli
esami di ammissione che sono obbligatori nelle scuole private a ogni livello, e costringono i ragazzi
spesso a frequentare costose ripetizioni pomeridiane che cominciano quindi dopo le 17 e possono
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La scelta delle autorità governative dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi è sempre stata quella di garantire un’istruzione
scolastica obbligatoria di massa e una élite composta da quei giovani selezionati in anni di studi, per la scuola media superiore e
l’università. La parte elitaria nell’educazione giapponese è sempre stata ristretta, e determinata dalla percezione del governo dei suoi
bisogni di leader piuttosto che determinata dal livello di domanda d’ulteriore scolarizzazione (Benjamin, 1997: 201). La richiesta
delle famiglie per una maggior istruzione è sempre stata superiore alla capacità e alla volontà delle autorità di governo di soddisfare
tale domanda.
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protrarsi anche fino alle 23:30, nell’intento di migliorare la propria preparazione e quindi poter
superare tali esami spesso davvero difficilissimi.
Il segno evidente della forte competizione post scuola dell’obbligo è dato dai test d’accesso. Esiste
un sistema d’esami d’ingresso che è obbligatorio per entrare alle scuole superiori e all’università
pubbliche. L’esame diventa, quindi, per i figli, un obiettivo d’impegno precoce.
Il sistema scolastico giapponese, come tutta la società, si fonda su un forte principio gerarchico: gli
insegnanti devono, senza alternative, concludere tutto il curriculum e rispettare ogni tipo d’attività,
cerimonia e metodo organizzativo della scuola. Il programma ministeriale è coercitivo per gli
insegnanti giapponesi perché deve garantire a tutti uguale istruzione ( tutti gli insegnanti insegnano
ai propri studenti lo stesso contenuto e usando gli stessi testi scolastici). Il curriculum è molto ricco
e particolareggiato e deve essere svolto completamente, a tal proposito si critica a volte il carico
eccessivo di lavoro per i bambini ancora piccoli. In Italia invece, grazie all’autonomia scolastica
ogni istituto elabora il proprio piano dell’offerta formativa, recependo naturalmente le indicazioni
nazionali. L’insegnante inoltre può preparare dei piani di studio personalizzati per ogni bambino, in
questo modo la scuola italiana valorizza le differenze laddove quella giapponese tende ad
omologare.
Per concludere potremmo cogliere nel modello educativo giapponese degli interessanti spunti per i
problemi che la nostra scuola primaria si troverà ad affrontare dal 1 settembre con classi sempre più
numerose ed un unico maestro. La soluzione offerta sembra quella del cooperative learning, ma c’è
una notevole difficoltà: la formazione degli insegnanti giapponesi si basa sul lavoro di gruppo, tutta
la società ne condivide il valore e la famiglia supporta pienamente il lavoro dell’insegnante, c’è una
forte collaborazione tra famiglia e scuola giapponese.
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È il sistema scuola –famiglia- società che ha una forza coesiva, un’unità di intenti ed una
condivisione di valori impensabile in Italia.
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In Italia è facoltà dell’insegnante mantenere contatti frequenti con le famiglie per garantire continuità pedagogica. Non accadrà
quasi mai di vedere insegnanti italiani visitare le case degli alunni, mentre gli insegnanti giapponesi hanno l’obbligo di rendersi conto
di come si svolge in famiglia la vita degli alunni.
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