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Si riteneva quindi fondamentale l’intervento del Diritto, e soprattutto di quel Diritto che era espressione piena ed inequivocabile di
un’autorità che superiorem non recognoscens, la quale contempla come fonti per l’emanazione legislativa non la semplice consuetudo od il
costume popolare od i riti religiosi, bensì il Verbo divino biblico, sia vetero sia neotestamentario.
L’ultima parte del primo capitolo e l’inizio del secondo argomenteranno come e quando sia sorta l’intolleranza contro gli omosessuali
alla luce delle recenti ricerche svolte in ambito romanistico riguardo ai contenuti e le intenzioni del diritto giustinianeo.
Ma per comprendere ancor meglio quali siano state le fonti a cui s’ispirarono Imperatori e clero militante, il secondo capitolo e parte del
terzo affronteranno per esteso il dissidio testamentario e la rivelazione biblica non solo dell’esistenza dell’omosessualità, bensì soprattutto
della sua condanna e della sua punizione.
I concetti di divinità e di natura ideale tipici della filosofia classica greca furono elaborati in sede teologica da coloro che si proposero lo
scopo di difendere la religione cristiana dagli attacchi esterni provenienti dagli imperatori romani prima dell’Editto di Milano e dalle
popolazione barbariche non ancora cristianizzate e convertite al credo evangelico.
Ma alla prima fase, quella della teologia dell’Apologia, seguì un periodo più complesso sul piano storico-politico: la Chiesa non fu più
l’antica e nobile ecclesia, l’assemblea del popolo che crede in Cristo venuto e nel Redentore venturo, bensì l’Istituzione che sovranamente
possedeva territori, ricchezze, beni materiali e che può servirsi dei concili ecumenici ed episcopali per regolamentare la vita pubblica e
privata dei credenti, il loro comportamento economico e le loro relazioni matrimoniali, assoggettando le loro volontà alle disposizioni
dogmatiche, assolute ed universalizzanti del clero cattolico.
La seconda parte del terzo capitolo e tutto il quarto analizzeranno il dibattito teologico cattolico sull’omosessualità e sui rapporti sessuali
non procreativi nell’ambito della teologia apologetica fino e comprendendo interamente Sant’Agostino, elencando le normative e le
disposizioni statuite dai concili ecumenici sulla repressione, la condanna e la punizione da irrogare ai sodomiti.
Non voglio strumentalizzare, con un discorso istintivamente anticlericale e fine a se stesso, le posizioni dottrinarie ufficiali della Chiesa
Cattolica, per rendere giustizia a quanti, fra omosessuali, lesbiche, ma anche ebrei, musulmani e minoranze religiose non cristiane cercano da
sempre di comprendere la loro storia individuale e collettiva.
Vorrei solo provare, attraverso la lettura non solo dei documenti conciliari, bensì anche dei testi teologici agostiniani e quelli della
filosofia scolastico-tomistica, a conoscere, contestualizzandoli, quei passaggi letterari e normativi che hanno influenzato i legislatori laici e
che, proposti con esemplarità e divulgati alla grande quantità del popolo incolto ed analfabeta del Medio Evo, contribuirono a trasformare un
tabù in una sentenza inappellabile di disistima sociale, di disprezzo e di autocolpevolezza.
Sentenza che dovrebbe avere un’efficacia sociale e giuridica di stampo repressivo e punitivo, ma che ha in sé un difetto sostanziale: la
difficoltà di trovare i colpevoli.
L’inefficacia di tutte le legislazioni, sia quelle inerenti ed appartenenti alla sfera del diritto canonico, sia quelle emanate da autorità laiche,
trova il suo riscontro oggettivo nella difficoltà di arrestare coloro i quali praticavano tutti quei rapporti sessuali inseriti nel catalogo degli
illeciti penali.
Il problema consiste nella ricerca di colpevoli la cui attività è sostanzialmente dotata di trasversalità sociale.
Solo nei fenomeni d’apparente e manifesta omosessualità, e di preciso mi riferisco ai casi di soggetti eccessivamente effeminati o
transessuali o dediti al travestitismo, era possibile intervenire, perché in quell’occasione il sospetto diventava verità con la confessione, sotto
tortura, dell’arrestato.
In tutti gli altri casi, si presentarono nel Medio Evo le circostanze che possono essere rinvenute tanto nel mondo pagano pre-cristiano
quanto in quello a noi contemporaneo: una minoranza che non può essere colta in flagranza di reato, dato il costante senso di vergogna, di
timori e d’auto-protezione che circoscrive l’agire di un omosessuale in una società a lui ostile non solo sul piano della diffusione di
specifiche credenze religiose, bensì anche attraverso lo strumento delle leggi penali dello Stato.
In quanto fenomeno sociale dotato di trasversalità, l’omosessualità è diffusa nei ceti alti come in quelli poveri (dai capitalisti, procedendo
verso il basso, fino al sottoproletariato): laici, ecclesiastici, gli uomini di destra come quelli di sinistra, cattolici, ebrei, musulmani, buddisti e
via di seguito.
Le testimonianze letterarie presenti nel sesto e nel settimo ed ultimo capitolo forniranno delle fonti utili per comprendere il principio della
trasversalità di cui sopra.
L’analisi sugli istituti laici ed ecclesiastici sorti fra il XIV ed il XVI secolo, preposti alla ricerca dei rei, alla loro carcerazione ed alla
prescrizione dell’ammenda pecuniaria o della pena corporale o capitale, svolta negli ultimi due capitoli, s’interessa di evidenziare come in
due grandi città, centri d’irradiazione l’una della cultura umanistica e rinascimentale, Firenze, e l’altra dello spirito cosmopolita delle grandi
città marinare italiane, Venezia, la criminalizzazione del dissenso religioso e la colpevolizzazione e la condanna dell’omosessualità
progredissero congiuntamente.
Tutta la tesi si svolge su un’unica direttrice essenziale: la storia dell’omosessualità dal tardo Impero romano al sorgere del XVII secolo
attraverso i suoi detrattori, che hanno agito con le armi del Diritto, della Religione e della Stigmatizzazione, cercando di dimostrare, con
l’ausilio anche di espedienti letterari, tanto prosaici quanto poetici, quanto fosse diffusa, nell’immaginario collettivo, non solamente la
presenza e l’esistenza degli omosessuali, bensì la figura di un rapporto sessuale e di soggetti sociali ritenuti senza virtù morali.
Viziosi e peccaminosi, dediti ad appagare il desiderio di concupiscenza, per dirla come Sant’Agostino, o quello della bestialità sessuale,
come si espresse al riguardo San Tommaso d’Aquino, protagonista della seconda parte del quinto capitolo.
Od ancora considerati come uomini atti a soddisfare il piacere intemperante ed innaturale della sodomia, secondo le definizioni e le
etichette inserite nei processi intentati dai giudici fiorentini del XIV e XV secolo, ed inoltre rimembrati nella coscienza dei cittadini di
Venezia e dei membri dell’Inquisizione come bestie che praticano un vizio nefando offendendo Dio e la Natura, rischiando di provocare
irrimediabilmente l’ira divina.
Pur non mancando in me un forte spirito d’interiorizzazione, rischiando di limitare il senso di oggettività e di scientificità del mio
elaborato, cercherò di dimostrare quanto sopra descritto nelle pagine successive.
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“ Ultimo cinaedus supervenit myrtea subornatus gausapa cinguloque succintus…modo extortis nos clunibus cecidit, modo basilis
olidissimis inquinavit [...] ”
“ Per ultimo arrivò un cinedo vestito con un abito color mirto che teneva alzato fino alla cintura. Un pezzo ci sfinì con i suoi assalti
violenti, e un pezzo c’infettò con i suoi baci puzzolenti [...] ”
Petronio, Satyricon, XXI, 5-7
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Capitolo Primo
Lo sviluppo della giurisprudenza dal tardo Impero romano all’opera giustinianea in rapporto alle minoranze sessuali
§ 1. Il mondo pagano romano e l’omosessualità: fra liceità dei costumi ed inizio della repressione
Tentare di ricostruire le principali ambientazioni, gli stili di vita, i simbolismi, le offese, gli spergiuri, le lodi creatisi nella realtà romana
nei confronti dell’omosessualità, potrà servire, a mio parere, nell’opera di comparazione fra l’immaginario omoerotico sviluppatosi
nell’antichità pagana e la visione dello stesso nel mondo cristiano.
Essi si trovano in piena successione storica, e l’antica cristianità trovò nella critica ai costumi ed alle leggi dell’Impero la sua base di
consolidamento e le proprie fonti per una nuova evangelizzazione del mondo, operata attraverso gli ideali dell’amore e della pace universali,
e la critica ai costumi sessuali sfrenati e non finalizzati alla procreazione.
E proprio fra questi, il rapporto omosessuale è di per sé il principe dei rapporti non procreativi.
Proprio l’avvento del cristianesimo sarà la causa della delegittimazione dei costumi disinibiti e libertari tipici del paganesimo, e la morale
sessuale cattolica trovò in alcuni importanti richiami biblici le fonti per una nuova ideale costruzione della società.
Il mondo pagano romano, con le istituzioni senatorie e censorie, sia d’epoca repubblicana sia imperiale, ha cercato di collocare in
un’innovativa struttura politica e giuridica l’attitudine dei greci al rapporto omosessuale, definito con il termine pederastia, di evidente radice
greca.
Il mos Graecorum, il costume dei greci, la pederastia per eccellenza, non trova nella Roma degli inizi approcci pregiudiziali, inibitori o
repressivi, tranne nei casi che saranno presto citati.
Mancava però il rapporto fra pederastia e pedagogia, fondamento della filosofia platonica del Simposio e di tutto il vissuto omosessuale
ellenico, dall’età arcaica, cioè dal IX secolo a.C., fino alle ultime testimonianze della letteratura ellenistica, nel pieno dell’epoca bizantina.
In ambiente greco ed ellenistico il rapporto pederastico è fonte della purezza e della buona conservazione, in chiave etica, della società.
La nobiltà della pederastia, la sublimazione dei desideri erotici e la ricerca del bello insita in essa perdono valore se rapportati alla
percezione ed alla valutazione della stessa nella Roma di Quintiliano e di Plinio il Giovane.
La paura di un’eventuale corruzione dei giovani ad opera della manifesta e “pubblica” pederastia fece sì che i primi legislatori romani
imponessero l’educazione al pudore e l’allontanamento del giovane “ingenuo” da ogni esperienza omosessuale.
Il rapporto omosessuale a Roma si configura come una delle avventure sessuali facenti parte della categoria dello stuprum. Stuprare una
persona significava intrattenere rapporti sessuali illeciti, cioè fuori dal matrimonio.
Il giurista Modestino, difatti, nel Digestum, scrisse: «Commette stupro chi ha rapporti sessuali con una donna libera, con una vedova, con
una vergine e con un ragazzo.»
Ed è proprio la figura del ragazzo, il puer, la parte più delicata da trattare, perché ad esso sono attributi tre diversi significati sul piano
linguistico, e quindi anche su quello sociale.
Il giurista Paolo, che avremo modo di ritrovare più avanti, assegna tre traduzioni allo stesso termine: il primo è quello di schiavo; il
secondo indica un membro della società di sesso maschile, contrapposto a puella; il terzo si riferisce a persone ancora in età puerile.
Lo schiavo è puer, indifferentemente dalla sua età, poiché, al contrario del puer liber, è escluso dalla cittadinanza, la civitas, per tutta la
vita, o finché non venga appositamente liberato dal padrone.
Il puer non ancora maturo poteva essere riconosciuto per strada in quanto indossava, come i sacerdoti ed i magistrati, la toga praetexta,
vale a dire un indumento bianco, bordato di porpora, diverso da quella a tinta unita indossato dai cittadini. Egli era il puer liber di cui sopra,
la cui incapacità è solo temporanea.
I maschi raggiungevano la maturità a 14 anni, e solo a quell’età poteva acquistare di diritto la capacità politica.
Sacerdoti, magistrati e ragazzi di ottima estrazione sociale indossavano lo stesso abito poiché non avevano acquisito la capacità politica,
ma godevano di notevole stima sociale.
Il maggior rigore morale e comportamentale, sul piano sessuale, era riservato proprio nei confronti di tale categoria di ragazzi, ed a loro
l’uomo maturo non poteva rivolgersi con parole suasive.
Egli avrebbe attentato all’onore ed alla pudicizia del ragazzo, agendo contra bonos mores.
Contro coloro che corteggiano senza pudore i ragazzi per strada si schierano due importanti figure della letteratura latina, Quintiliano e
Plinio il Giovane.
In Quintiliano troviamo scritto: «Non credo sia nemmeno il caso di insegnare che gli scolari devono essere lontani dai vizi peggiori.»
Plinio il Giovane fu, invece, ancora più incisivo, sostenendo che: «Bisogna scovare un insegnante di retorica latina nella cui scuola risulti
esserci severità, riservatezza e soprattutto castità.»
Nonostante le critiche provenienti dalla parte più conservatrice dell’establishment romano, nella sfera del privato ogni esperienza sessuale
fu generalmente accettata.
Lo stesso Cicerone, difatti, ammise: «Questa abitudine di amare i ragazzi mi sembra nata nei ginnasi greci, nei quali questi amori sono
liberi e tollerati.»
L’attività omosessuale a Roma si è tuttavia sviluppata all’interno di ambienti sociali ben diversi da quelli greci.
L’intero omoerotismo romano ha trovato come sua migliore manifestazione il rapporto fra padrone e servo, tra dominus e servus.
La libertà sessuale è concepita come illimitata all’interno di tale relazione, e, svolta solo nel privato, cerca di sfuggire ad ogni valutazione
moralistica che possa intenderla come illecita.
Gli amori omosessuali leciti erano essenzialmente due: sottomettere uno schiavo e pagare un prostituto.
Al contrario l’illecito sorgeva nei casi in cui un romano sottometteva un altro romano, un altro cittadino libero.