quella che Nicolas Bourriaud definisce estetica relazionale. Fulcro dell’indagine analitica di
stampo concettuale è, allora, il rapporto tra arte e realtà, tra spazio della fruizione e fruizione
stessa, ma soprattutto tra fruitori e fruitori all’interno di un opera d’arte che ha ormai
infranto i canoni stessi dell’esporre stesso. L’attività del Palais de Tokyo, a Parigi, diventa
emblema di questo rinnovato spirito artistico, di una nuova concezione di spazio come
luogo in cui la creatività artistica scaturisca dalla stessa interazione che si instaura tra
l’opera ed il pubblico, e tra il pubblico e gli artisti. Si comprende, così, anche la tendenza di
molti artisti contemporanei come Rirkrit Tiravanija, Patrick Tuttofuoco, Mattew Barney,
Martin Creed e Matteo Rubbi ad usare il corpo, i suoi limiti e le sue forze, come strumento
creativo, veicolo per la produzione artistica stessa.
Questo elaborato parte proprio da qui: dall’attenta riflessione sul contemporaneo, sulle sue
derive artistiche, sui suoi atteggiamenti mentali, e vuole rintracciarne le origini più nascoste,
seguendone le tracce sparse a ritroso nel tempo. Una ricerca che trova le sue fonti dirette
nelle opere e negli allestimenti espositivi che in questi ultimi anni hanno aiutato a definire le
linee direttrici di un panorama in continuo mutamento, nelle riflessioni che negli ultimi
cinquant’anni hanno alimentato un fervido dibattito estetico e, non da ultimo, in quella
stessa rete, luogo di scambio relazionale, in cui tutto il mondo dell’arte si incontra. Una
ricerca forse non esaustiva ma che si è posta l’obiettivo si analizzare e scandagliare in senso
paidetico l’universo multiforme della produzione artistica contemporanea
4
1. IL CONCETTO COME ELEMENTO DIDATTICO
Per una didattica analitica
Lo spazio della creatività artistica può sembrare a prima
vista oggetto di un interesse molto specialistico, e in ogni
caso non appare come necessario quando ci si vuole
avvicinare all’opera in sé. Non saranno probabilmente in
molti a correlare l’analisi della spazialità in un’opera
d’arte figurativa…alla storia e alla psicologia della
matematica, perché lo spazio viene spesso considerato
uno degli oggetti di una scienza specialistica: la
geometria. Tuttavia non è difficile convincersi della
radicale falsità di questo diffuso punto di vista.
P. Florenskij
1
“La struttura dello spazio è caratterizzata dalla sua curvatura. Mi sento molto in colpa per il
fatto di annoiarvi con concetti matematici, ma non vedo altra strada per avvicinarvi ai
problemi estetici. Quello che è stato elaborato dalla matematica contemporanea può essere
pienamente trasferito nel campo dell’estetica, ma purtroppo, non posso limitarmi a concetti
propri dell’estetica.”
2
Così Pavel Florenskij esordiva durante la sua sesta lezione al VChUTEMAS
3
di Mosca tra il
1923 ed il 1924. Così può essere riassunto il suo apporto di filosofo, scienziato, matematico
e studioso, alla storia del pensiero artistico. Così, ancora una volta, può essere rappresentato
quel particolare spirito eclettico e, allo stesso tempo, critico, che ha caratterizzato la sua
didattica. E proprio in questo senso, Pavel Florenskij può essere considerato come un
esempio ed un modello paidetico.
1
P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Milano, ed. Adelphi, 1995; p. 15
2
Ibid., p. 291
3
Il Vchutemas (in russo Вхутемас, acronimo di Высшие художественно-технические мастерские Vysshie
CHUdozhestvenno-TEchnitchesskie MASterske "Atelier superiore d'arte e tecnica") fu un istituto superiore d'arte di
stato russo che fiorì a Mosca tra il 1920 e il 1927
5
Le lezioni al VChUTEMAS ne sono un chiaro esempio. Rivolgendosi a un pubblico di
studenti, lo studioso russo riesce a incanalare le proprie conoscenze scientifiche,
matematiche, e soprattutto filosofiche, nella spiegazione di alcuni punti cardine della pratica
artistica, arricchendo le proprie lezioni con esempi e spiegazioni che portano la stessa arte
nel mondo del fenomenologico, della contingenza e del reale. Non è un caso, infatti che lo
stesso Florenskij, nel suo trattato “Lo spazio e il tempo nell’arte” affermi che “quegli aspetti
e quelle particolarità della vita che vengono fissati attraverso simboli logici nella filosofia e
nella scienza, trovano nell’arte le loro formule simboliche espresse in immagini.”
4
Florenskij, così, parte dal dato oggettivo del fenomeno, sia esso spazio, tempo o percezione
di essi, per spostarsi verso un piano riflessivo, di ordine teorico, impegnandosi fattivamente
in un discorso sull’arte. Certamente lo studioso moscovita non “fa” arte, ma seguendo un
preciso percorso maieutico, sembra condurre i propri allievi verso una più compiuta
indagine analitica che, come si è detto, parta dal fenomenico e dalla materia, per
raggiungere la forma, il simbolo e, in buona sostanza, il concetto artistico.
Una posizione analoga verrà sostenuta nel 1984, dall’artista friulano Luciano Fabro, durante
una delle sue lezioni presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano: “ su qualsiasi
cosa si posi (lo sguardo del “come fare”), è come se quella cosa fosse definitiva, quindi la
penetra. Non è uno sguardo eccitato, ma quasi solido: dovunque si punti, sia esso un oggetto
banale o prezioso, questo sguardo lo tratta con la medesima cura, lo scompone e lo
ricompone.”
5
In questo caso, a parlare è un artista, colui che “fa” arte, attua una propria visione artistica
ed agisce sul reale con un preciso intento che, per l’appunto, si è soliti definire artistico; ma
ad accomunare due personalità così differenti come quella dello scienziato russo e quella
dell’artista italiano, è proprio il medesimo approccio analitico praticato sul reale. Entrambi,
in buona sostanza, guardano le “cose” per sondarne l’origine e la specie, per “scomporle” e
“ricomporle” seguendo una propria logica: Florenskij sul piano linguistico, della teoresi
sull’arte; Fabro su quello metalinguistico, della pratica artistica.
Saranno proprio gli sviluppi di questa tensione analitica dell’arte e della riflessione su di
essa a conformare tutto il “fare” artistico da Marcelle Duchamp sino ad oggi, soprattutto se
4
P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Milano, ed. Adelphi, 1995; p. 15
5
L. Fabro, Arte torna arte. Lezioni e conferenze 1981-1997, Torino, ed Einaudi, 1999; p. 5
6
si considera una delle correnti di punta nel panorama del XX secolo, ovvero quella dell’Arte
Concettuale.
Si può affermare, come sostiene anche Joseph Kosuth, che tutta l’arte, a partire da
Duchamp, sia arte concettuale perché esiste solo concettualmente. Di fatto, benché sia
difficile definire una corrente artistica così composita ed articolata, quando si parla di arte
concettuale ci si riferisce ad un’arte in cui prevalga più una dimensione “mentale” e
“percettiva”, che non strettamente iconica; un’arte in cui l’artista rifletta concretamente sul
“fare” stesso dell’arte e ne trasponga gli esiti direttamente nell’opera; un’arte che in
definitiva riunisca il piano della pratica, il cui strumento precipuo può essere l’immagine, la
materia od il gesto, con quello della teoria, il cui strumento per definizione è il linguaggio.
E’ proprio per arrivare a questa sostanziale coesione tra prassi e teoresi, che l’arte
concettuale si fa riflessione analitica, a monte delle forme specifiche in cui si concretano le
diverse pratiche dell’arte: la pittura di Frank Stella*, la scultura di Robert Morris*, la
fotografia di Thomas Struth*, il puro linguaggio scritto di Joseph Kosuth, l’azione scenica
di Fluxus* o di Jhon Cage*, sembrano quasi diventare dei pretesti attraverso i quali l’artista
enuncia, proprio come una proposizione linguistica
6
, gli esiti della propria ricerca. L’Arte
Concettuale amplia gli orizzonti della propria indagine analitica, abbandona l’interesse
specifico e critico per la “materia” e le componenti fisiche dell’arte, e sembra rivolgersi
esclusivamente ai processi mentali che presiedono alla formazione stessa dell’arte e dei suoi
statuti. E’ in quest’ottica che un’artista come Douglas Huebler affermerà che “il mondo è
pieno d’oggetti più o meno interessanti e io non voglio aggiungerne altri”
7
. E, qualsiasi
materiale sia usato, è proprio nel mondo che si attua la ricerca analitica concettuale,
unendosi a discipline già fortemente formalizzate, come la matematica, la logica, la fisica e
la linguistica. Il concetto di tautologia, di convenzionalità del segno linguistico, visivo ed
iconico, la stessa analiticità delle proposizioni artistiche, sono originate da questa ricerca ed
è qui che, analogamente, si giustifica la sostanziale libertà espressiva che caratterizza l’arte
concettuale. L’opera, quindi, correndo parallela ad una complessa riflessione filosofica,
diventa “più che racconto, o suggestione poetica, è concetto, è saggio”
8
come afferma
Marco Dallari nel suo saggio “La dimensione estetica della paideia”. Un’affermazione tanto
6
F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Torino, ed. Einaudi, 1983; p. 6 e seg.
7
D. Marzona, Arte Concettuale, Colonia, ed. Taschen, 2006; p. 19
8
M. Dallari, La dimensione estetica della paideia, Trento, ed Erickson, 2005; p. 123
7
importante tanto quanto il rimando che lo stesso Dallari fa ad un’opera considerata
fondamentale in questo senso: “L’usage de la parole I”*, di René Magritte. E’ nella
didascalia che l’artista pospone alla sua pipa realistica, “Ceci n’est pas une pipe”, che si
comprende lo stretto rapporto che unisce la realtà delle cose con la riflessione che
linguisticamente si fa su di essa. Perché in quella frase, apparente negazione di ciò che è
rappresentato graficamente, Magritte esprime la propria riflessione semiologica
sull’equivalenza tra l’immagine rappresentativa di una “cosa” e le parole che la descrivono.
Quella rappresentata sulla tela, infatti, non è una pipa, perché materialmente non si può
fumare, non ha la consistenza materica della pipa, ma è solo una sua rappresentazione. Così,
quella non è una pipa.
Un’operazione che punta all’ironia surreale ma che apre di fatto la strada all’indagine
linguistica portata avanti da artisti come Joseph Kosuth.
Qualche definizione metodologica
Quando percepiamo qualcosa che ci appare, per il suo
aspetto esteriore, soltanto come la superficie di una cosa,
sappiamo che la connessione degli elementi di questa
cosa è condizionata dalle forze dell’interazione tra gli
elementi. Ciascun elemento attraverso sé ne determina un
altro e l’esistenza stessa degli altri non è quella che
sarebbe se l’ambiente circostante influisse su di essa
P. Florenskij
9
Si è lasciato Pavel Florenskij poche pagine fa, per una digressione panoramica sul metodo
di indagine analitica di molti artisti contemporanei; un atteggiamento analitico ed una
precisa metodologia di indagine che sembra derivare direttamente dalle teorie didattiche
formulate da uno dei padri della stessa didattica: Johan Amos Komensky detto Comenius.
Nel suo “Didactica Magna”, del 1640, il pedagogista olandese critica aspramente la
9
P. Florenskij, op.cit.; p. 261
8
didattica del suo tempo, superficiale e frammentaria, inaugurando una nuova prospettiva
scientifica, quasi enciclopedica, volta all’analisi dettagliata del reale che, partendo dal
semplice e dal generale, attraverso esempi desunti dall’esperienza diretta, arrivi e penetri a
fondo il complesso ed il particolare. Un modus operandi che, unendosi ad un preciso ideale
pansofico di istruzione rivolta a tutto e a tutti, porta la scuola e la didattica ad essere in
prima analisi informativa, ovvero volta a conoscere le cose per stimolare la mente al sapere,
e in secondo luogo formativa, perché proprio dall’insegnamento, dalla conoscenza analitica
e puntuale delle cose, dalla comprensione dei “perché” e dal ragionamento, derivi
l’educazione e la formazione civile e morale dell’uomo.
Si ritrova, ora, il filosofo russo nella definizione di alcuni concetti cardine che, nella
seconda metà del XX secolo, diventeranno oggetto del contendere e, come si è visto, della
riflessione artistica propriamente detta.
Primo tra tutti, la definizione che viene formulata sul concetto di arte e di forma artistica.
Florenskij attua una precisa distinzione tra arte pura ed arte applicata, definendo la prima
come “ogni opera di arte che contiene in sé un certo fine che si trova al di fuori dell’opera
stessa”
10
. Infatti, ogni opera, pittorica o scultorea, in qualsiasi tipologia di contesto si trovi,
rimanda ad una dimensione “empatica” ed “emotiva” altra da quella rappresentata, ovvero,
ed è il caso del ritratto, rimanda alla memoria di un volto, di una situazione, di un luogo che
suscita un’emozione non sempre coincidente con l’emozione artistica suscitata dalla visione
dell’opera. L’opera d’arte pura, inoltre, assolve anche alle finalità determinate dalla sua
forma, dal suo contenuto e dalla sua forma; finalità intrinseche al suo “essere opera”. Anche
l’opera d’arte applicata assolve ad un preciso ed indiscutibile fine, ma esiste una sostanziale
differenza tra le due, dipendente strettamente dalla materia che le compone. Per Florenskij,
elemento distintivo è, infatti, la materia che egli stesso definisce come “contenuto narrativo
che egli (il pittore) rielabora e sul quale si regge la forma artistica”
11
. Ora, proprio
quest’ultima permette all’opera d’arte pura di esprimere il proprio fine e le stesse emozioni
dell’artista, il suo contenuto, il supporto e le tecniche utilizzate, diventano ancelle di quella
stessa forma, mezzi attraverso cui l’opera pura si realizza “in sé” e “per sé”. Contrariamente,
un’opera d’arte applicata, sia esso un tagliacarte, una tazza od una lampada da tavolo,
assolve un fine concreto, uno scopo specifico che è rappresentato dalla sua stessa materia.
10
P. Florenskij, op.cit.; p. 248
11
Ibid., p. 249
9