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sociale. Diversamente, la corrente dello strutturalismo, che vede il suo padre
fondatore nell’antropologo francese Lévi-Strauss, cerca di indagare le strutture ed
i legami che si trovano dietro le superficiali analisi. All’interno di questa corrente, i
due antropologi principali a cui si è fatto riferimento sono stati Lévi-Strauss e
Douglas. Di Lévi-Strauss si è indagato soprattutto il concetto di “gustema”, che
racchiude gli elementi/alimenti che costituiscono ciascuna cucina, partendo dalla
considerazione che la cucina è un aspetto universale della cultura. L’altro grande
supporto teorico fondamentale è stato quello fornitoci da Douglas, che a differenza
di Lévi-Strauss, considera il cibo come un elemento fortemente legato al suo
contesto socio-culturale di riferimento; il cibo per Douglas permette di creare una
visione condivisa della realtà, influenzando così la formazione dei sistemi culinari.
Inoltre, le dinamiche sociali e culturali legate alla produzione ed al consumo del
cibo sono considerate come un vero e proprio sistema comunicativo. Il terzo
antropologo che si è preso in considerazione senza però poterlo inserire in correnti
specifiche è Harris. Il filone da lui creato di fatto, è quello del “materialismo
culturale” che identifica i criteri di commestibilità, sazietà e tossicità come prodotti
esclusivamente culturali. È di Harris, di fatto, la famosa affermazione che un cibo è
buono da mangiare perché buono da pensare come mangiabile; non è tanto quindi
l’effettiva bontà di un cibo a renderlo più appetibile, ma la sua considerazione
culturale.
L’ultima disciplina a cui si è fatto riferimento è la geografia. In particolare, la
prospettiva da quale muove l’approccio geografico è la relazione tra il cibo,
l’ambiente ed al territorio nel quale si insedia, si sviluppa e si diffonde un gruppo
sociale in parallelo alla cultura di tale gruppo. A questo proposito, sono stati presi
in considerazione gli autori Novembre e Palagiano. Inseriti in una tradizione
prevalentemente legata alla geografia dell’alimentazione, questi due geografi si
sono occupati principalmente dello studio dell’alimentazione rispetto all’ambiente
circostante utilizzando una prospettiva principalmente economica. A differenza
della geografia dell’alimentazione che si occupa prevalentemente dell’aspetto
economico ed ecologico del rapporto tra cibo e territorio, si è sviluppata una
corrente legata ai Cultural Studies ed alla Critical Geopolitics in cui il cibo rientra in
processi culturali con i quali è possibile creare delle rappresentazioni e pratiche
attraverso cui gli individui conoscono e danno significato alla realtà esterna.
Un altro autore che si è occupato del rapporto tra cibo e territorio è Massimo
Montanari che ha proposto il concetto di “mangiare geografico”; una sorta di
idealtipo volto ha rappresentare i caratteri sia fisici sia culturali nelle relazioni tra
un determinato cibo ed il territorio di provenienza. Infine ci siamo occupati del
rapporto tra il valore del cibo, i processi legati alla globalizzazione e di
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sradicamento dal territorio, con gli autori Doreen Massy e Pat Jess, secondo i quali
il cibo in tali contesti venga a subire un doppio processo di significazione simbolica
e culturale: da un lato si sente il bisogno di rimanere attaccati alla propria terra,
anche attraverso il proprio cibo e dall’altro sussiste il bisogno di un nuovo
adattamento al territorio ed alla cultura circostante. Sarà questo il tema dell’ultimo
paragrafo legato al ruolo del cibo nei processi migratori.
Nel secondo capitolo ci siamo soffermati sull’analisi dei processi sociali e culturali
che hanno accompagnato gli immigrati italiani verso la costruzione dell’identità
italo-americana; in particolare, si possono distinguere tre momenti storico-sociali
principali. Innanzi tutto, il primo momento è quello che va ricondotto al momento
dell’emigrazione di massa, siamo quindi alla fine del Diciannovesimo secolo, a
cavallo dell’unificazione d’Italia. In questo periodo, gli emigranti, non ancora
italiani, che partivano verso l’America tendevano a riprodurre nelle città del nuovo
continente comunità, le famose Little Italies, e realtà sociali strettamente legate
alle tradizioni ed alle modalità di vita comune del paese di origine. La vita di questi
immigrati era quindi incentrata all’interno delle reti “etniche” riprodotte sul suolo
americano. Questo periodo, cha andrà fino al primo dopoguerra, è caratterizzato
da un forte isolamento sociale e culturale, nel quale istituzioni come quella
familiare si dovranno adattare alla nuova realtà sociale. Il secondo “momento” che
hanno vissuto le comunità di immigrati può essere identificato con l’arrivo delle
seconde generazioni, le quali da un lato hanno rappresentato una spaccatura nel
corpus culturale e sociale nelle comunità di origine, dall’altro hanno funzionato da
tramite tra la cultura degli immigrati e la cultura americana; frequentando scuole
americane, persone americane, imparando l’inglese e avvicinandosi quindi ai valori
americani hanno permesso di guidare l’entrata degli italiani nella società
americana spesso attraverso dinamiche conflittuali nei confronti delle famiglie e
comunità di origine. Tutto il periodo dell’assimilazione, possiamo sostenere che
arrivi fino agli anni ’60; è di fatto in questo decennio che si sviluppano quei moti di
contestazione e di riappropriazione etnica, che vedranno anche gli ormai italo-
americani scendere in campo per vedere riconosciuti i propri diritti e la propria
origine etnico-culturale. A partire da questi anni di fatto, nasce quello che più
autori, come Gans e Sollors hanno definito “etnicità simboliche”. La caratteristica
di questa identità è legata ad una sorta di riscoperta da parte ormai delle terze se
non quarte generazioni delle proprie origini che vengono rivalutate e riconsiderate
come elementi del proprio passato.
Come l’identità, individuale o collettiva, anche il cibo, che ne è sua espressione,
è un elemento culturale, identitario e mutevole: infatti sulla base dei processi di
emarginazione, assimilazione o repulsione tra la cultura italiana e quella
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americana gli atteggiamenti e comportamenti legati alla produzione, distribuzione
e consumo del cibo sono variabili. È questo il punto fondamentale del terzo
capitolo, che si è occupato proprio di come il cibo, da non ancora italiano (ed
etnico) ad italo-americano, sia stato un supporto materiale e simbolico che ha
contribuito alla formazione di un’identità etnica. Si è quindi iniziato considerando i
caratteri del cibo come ethnic marker, elemento di fatto che caratterizza un
determinato gruppo etnico, distinguendolo dagli altri.
Dopo avere considerato il cibo, non ancora italiano, come cibo etnico, si è cercato
di indagare quali siano state le dinamiche che abbiamo accompagnato gli
immigrati verso l’assimilazione nel contesto americano. Anche in questo caso, è
utile considerare tale processo in maniera diacronica. Le prime comunità si sono
caratterizzate per un forte mercato etnico, dove le persone compravano e
vendevano solo all’interno della comunità di riferimento; di fatto, le attività
commerciali legate alla produzione, al consumo ed alla vendita di cibo rimanevano
solo all’interno della comunità. Come ha sostenuto Donna Gabaccia, queste reti
avevano il ruolo fondamentale di mantenere vive e forti le relazioni di parentela e
di solidarietà all’interno delle comunità. Insieme a questo va ricordato inoltre che
l’arrivo sul suolo americano rappresento un occasione per potere inserire nella
propria dieta quotidiana un nuovo insieme di cibi altrimenti impensabile nelle
campagne italiane. Una dimensione sociale particolarmente importante a cui verrà
dedicato un paragrafo è quello della convivialità italiana, dove il cibo rappresenta il
fulcro che mantiene unita la comunità e la famiglia. Con l’arrivo delle nuove
generazioni e di conseguenza, con le nuove capacità sia legate alla conoscenza
della lingua inglese, sia legate ad un acquisito Know how nel campo della
distribuzione, il cibo degli immigrati fa un primo passo verso la clientela
americana: infatti, attraverso le nuove tecniche legate alla produzione di massa ed
alla pubblicità si riuscì a dare un’impronta più omologata del cibo che diventa così
cibo italiano, conseguenza di una nuova maniera di concepire la produzione del
cibo: il made in italy. Se sulle tavole degli italo-americani i piatti sono ricchi di
qualsiasi tipo di cibo, sia tipicamente italiano sia tipicamente americano (il piatto
più ibrido simbolo del cibo italo-americano saranno gli spaghetti con le polpette)
grazie all’abbondanza ed al lavoro, nei luoghi pubblici si esalta il cibo presentato
come italiano, ma che in realtà è la conseguenza di questo incontro culturale. Il
luogo che meglio rappresenta questo momento di incontro tra le due culture è il
ristorante che verrà considerato nella sua dimensione pubblica, e quindi
rappresentativa di un’italianità a tratti distorta (musicale, romantica, accogliente e
con cibo che rispetta le aspettative americane) volta a cercare consenso nelle
menti degli americani che associavano gli italiani alla mafia ed alla violenza. Negli
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ultimi decenni il cibo italiano vive una forte popolarità grazie ad un nuovo insieme
culturale e gastronomico riunito sotto il nome di “dieta mediterranea” che esalta i
caratteri di salute ed equilibrio della cucina mediterranea, ed italiana.
Nel quarto capitolo ci siamo soffermati sui concetti di rappresentazione etnica,
costruzione dell’alterità e stereotipizzazione per capire come i caratteri del cibo
italo-americano siano stati elevati a simboli di un’intera cultura, selezionandone gli
elementi essenziali e cristallizzandoli in forme comunicative stereotipate e
facilmente riproducibili.
In particolare, per il concetto di rappresentazione etnica ci siamo aiutati con
l’apparato teorico di Stuart Hall: tra i massimi esponenti dei Cultural Studies e
particolarmente interessato ai processi comunicativi e culturali attraverso i quali si
formano immagini e rappresentazioni. Queste rappresentazioni sociali si muovono
dalla percezione che il creatore ha dell’oggetto rappresentato. Gli altri due concetti
fondamentali utilizzati in questo capitolo sono quello legato alla costruzione
dell’Altro e di stereotipo. La costruzione dell’Altro rappresenta uno strumento
culturale attraverso cui i vari gruppi conoscono se stessi e gli altri, inserendoli ed
inserendosi in un ordine sociale definito. Le dinamiche alla base della costruzione
dell’Altro possono essere ricondotte alle due domande: chi siamo noi?chi sono
loro? Il Noi ed il Loro rappresentano i due poli attraverso cui creare sentimenti di
appartenenza e differenza. L’altro concetto, quello di stereotipo, strettamente
legato alla costruzione e rappresentazione dell’Altro, sarà utilizzato per capire
come attraverso la focalizzazione su determinati, pochi, caratteri in questo caso
legati al cibo, si tenda a creare una raffigurazione delle differenze etnico-culturali,
spesso nel tentativo di ridurne la sua complessità e di posizionarle in precise
locazioni fisiche o simboliche.
Il quinto capitolo, dopo tutto quello che è emerso nei capitoli precedenti, ha
cercato di analizzare e presentare le varie dimensioni principali attraverso cui il
cinema hollywoodiano si è occupato di cibo italo-americano come elemento a
caratterizzazione etnica e su come tali dimensioni sociali, in base anche ai periodi
storici, e rappresentative abbiano costruito dei veri e propri stereotipi culturali
attraverso cui tutt’oggi vengono identificati gli italiani nel mondo.
Le dimensioni che di fatto appaiono fondamentali nella rappresentazione che
Hollywood ci fornisce sono di fatto quello della famiglia, sia intesa nel suo lato più
oscuro, legato al potere ed al mantenimento di uno status per l’ottenimento ed il
controllo delle risorse, in cui il cibo significherà proprio questo conflitto e ordine, e
sia nell’aspetto più legato all’ambito umano delle relazioni familiari e affettive. In
particolare sarà data molta importanza alla dimensione della domesticità del cibo
italiano, non solo all’interno della famiglia, come espressione dei ruoli legati al
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genere o alle generazioni, ma come un vero e proprio stereotipo culturale che
ricopre il cibo italiano; il classico stereotipo del “fatto in casa”, “genuino”, “fatto a
mano”. Insieme alla famiglia, gli altri ambiti nei quali il cibo rappresenta un
elemento etnico-culturale sono quello delle relazioni generazionali; nella messa in
scena dell’italianità attraverso i ristoranti che come vedremo saranno luogo di
momenti particolarmente romantici e/o particolarmente violenti; di come il cibo
italiano, in modo particolare gli spaghetti (da qui lo stereotipo del
mangiaspaghetti) rappresenti uno strumento che gli americani utilizzino per
denigrare o banalizzare gli italiani; la differenza tra cibo italiano e cibo italo-
americano che come vedremo rappresenterà due modi totalmente opposti di
concepire il cibo ed infine, la scelta di chiudere il capitolo con gli stereotipi del film
di Walt Disney Lilli e il vagabondo. È di fatto in questo film che attraverso un
linguaggio da cartone animato, vengono rappresentati e concentrati tutti gli
stereotipi sugli italo-americani.
Infine, l’ultimo capitolo vuole fornire le linee guida delle tecniche e delle
metodologie che sono state utilizzate per interpretare e analizzare i film.
La tecnica usata è quella dell’analisi del discorso, sia a livello di dialoghi, per capire
se attraverso i dialoghi avvengono processi di inclusione, esclusione, e/o
banalizzazione del cibo italo-americano e sia attraverso l’analisi delle immagini dei
film con cui si allestisce la vera rappresentazione del ruolo identitario che il cibo
ricopre nella cultura italo-americana.
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CAPITOLO 1
IL SIGNIFICATO SOCIALE DEL CIBO ED IL SUO RUOLO NEI
PROCESSI IDENTITARI
1.1 IL CIBO E LA SOCIOLOGIA
L’interesse, e la gran quantità di materiale (testi, ricerche, manuali), che si è
prodotto finora intorno al cibo ed in particolare riguardo al suo ruolo nello sviluppo
e nella riproduzione dei legami sociali, rappresenta un tema relativamente nuovo,
che compare nell’ambito accademico e investigativo solo a partire dagli anni ’90.
Infatti solo in questo periodo iniziano le prime riflessioni e teorizzazioni in campo
sociologico che si pongono l’obiettivo di costruire ed organizzare in maniera coesa
un discorso sociale intorno al cibo. Successivamente tuttavia si assiste quindi ad
un vero e proprio boom su scala sia locale sia internazionale di materiale
accademico e divulgativo sulle tematiche legate al cibo: nascono cosi riviste
dedicate alle mete del turismo gastronomico, movimenti come Slow Food e
ricerche volte a studiare un buon rapporto tra benessere, salute e mangiar bene.
Nonostante il grande sviluppo recente dell’attenzione nei confronti del cibo e
delle sue relazioni nei processi alimentari e culturali, possiamo osservare che
storicamente, nella sociologia, il cibo non ha mai goduto di un ampio spazio di
ricerca. Tale carenza è da ricondurre all’impostazione teorica che la stessa
sociologia si pone al suo diffondersi. Infatti la sociologia nasce, grazie al lavoro di
Comte, come scienza positiva o fisica sociale che si pone l’obiettivo di studiare ed
indagare i “fatti” e le “leggi” (Jedlowski, 1998) che sottostanno al comportamento
sociale; in questo tipo d’impostazione di fatto non appare rilevante studiare
fenomeni che riguardano la vita quotidiana, superficialmente considerati come
privi di interesse. Tali aspetti sono stati meglio affrontati, come vedremo nel
prossimo paragrafo, da un’altra disciplina affine alla sociologia, cioè l’antropologia,
che ha cercato di indagare, attraverso le ricerche etnografiche, il ruolo simbolico
del cibo nelle sue varie sfaccettature: i divieti alimentari di origine religiosa, le
relazioni di genere e di status intorno al consumo di specifici cibi e alle tecniche
materiali di preparazione e di consumo del cibo (Rabbiosi, 2005).
Tornando allo studio del cibo in sociologia, possiamo notare come i padri
fondatori della stessa disciplina abbiano dedicato poco spazio a questo ambito
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nonostante abbiano creato una forma embrionale per lo studio del rapporto tra
cibo, cultura e società. Per esempio Engels, insieme a Marx, aveva condotto un
dettagliato studio sulla condizione alimentare del proletariato inglese durante la
rivoluzione industriale mentre Weber aveva una buona conoscenza della storia
delle piante coltivate e degli animali addomesticati alla base della catena
alimentare.
Tra coloro che iniziano effettivamente a prendere in considerazione il cibo nella
sua dimensione sociale compare Émile Durkheim, che nel suo testo “Le forme
elementari della vita religiosa”, del 1912, utilizza e studia il cibo come strumento
di separazione e classificazione del sacro e del profano. Come si può osservare, il
cibo non è ancora il punto focale di riferimento ma rappresenta un veicolo per
spiegare fenomeni di maggiore interesse sociologico (Jedlowski, 1998).
Tra i precursori dello studio sul rapporto tra sociologia e alimentazione compare
anche Thorstein Veblen che nel testo “La teoria della classe agiata” del 1899
studia il cibo e le bevande come oggetti di consumo. In particolare, secondo
Veblen, le classi agiate, secondo processi di differenziazione delle diete alimentari,
cercherebbero di affermare e mantenere il proprio status di superiorità rispetto
alle altre classi sociali. Possiamo osservare come il cibo considerato elemento di
distinzione sociale e come bene di consumo rappresentino gli ambiti di maggiore
interesse per la sociologia dell’alimentazione; secondo Deborah Lupton, infatti,
nelle società occidentali si assiste ad una lenta ma continua perdita delle
tradizionali fonti di differenziazione sociali (come l’appartenenza di classe, politica,
il livello culturale). In un contesto così delineato il cibo sembra rappresentare un
forte strumento simbolico in grado di costruire e affermare la propria identità
(Lupton 1999).
Tra i fondatori della sociologia che hanno iniziato a proporre uno studio più
dettagliato e sistematico sul significato sociale del cibo vi è Georg Simmel. Nel suo
saggio del 1910 “Soziologie der Mahlzeit” Simmel propone una riflessione sull’uso
rituale e cerimoniale del cibo nella religione. In particolare partendo dalle
prescrizioni e dai divieti, Simmel sottolinea il significato sociale della
commensalità. Lo strumento fondamentale, individuato da Simmel, è la
socializzazione attraverso cui gli individui sviluppano e riproducono i sistemi
alimentari. Di fatto nel ragionamento di Simmel, il cibo oltre a ricoprire un ruolo
prettamente nutritivo e vitale, rappresenta anche un sistema dettato da aspetti
culturali e sociali tipici di ogni gruppo sociale.
Oltre a questi autori, considerati i padri fondatori della sociologia, possiamo
identificare altri tre autori il cui contributo teorico ed investigativo intorno alle
relazioni sociali ed al cibo si può considerare come la base teorica di una nuova
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sotto-disciplina della sociologia: la sociologia del cibo e dell’alimentazione. Questi
tre autori sono Norbert Elias, Pierre Bourdieu e Jack Goody.
Nell’opera “Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione”, edito nel 1939, ma
tradotto in italiano solo nel 1983, Elias non tratta direttamente del ruolo sociale
che assume il cibo, ma il suo interesse primario riguarda, possiamo dire, la
regolazione emotiva nelle società occidentali e lo sviluppo delle maniere tra le
classi alte in Europa dal Medioevo all’età moderna. Nell’apparato teorico di Elias, il
Medioevo viene rappresentato come un periodo di forte incertezza ed insicurezza,
nel quale, in seguito a questo sentimento diffuso, le persone vivevano in maniera
più accentuata ed istintiva le proprie emozioni abbandonandosi spesso
all’esibizione estrema di emozioni come la rabbia, la violenza, l’aggressività ed il
dolore (Rabbiosi, 2005).
A partire dal XVI secolo, con il decadimento dell’ordine feudale e l’affermazione
delle nuove classi sociali, appaiono nuove forme di condotta sociale, nelle quali
l’onore, la pietà, la civiltà e l’ordine sociale ricoprono un ruolo fondamentale nella
vita pubblica (Elias, 1988). In questo nuovo mondo sociale, il contegno del sé
diventa un efficace strumento di rappresentare ed affermare l’appartenenza ad un
determinato gruppo sociale. Condotte basate sull’autocontrollo e la civiltà si
affermano inizialmente nell’ambito della vita di corte per poi diffondersi al ambito
più strettamente familiare. L’autocontrollo, la civiltà e la prudenza diventano così
atteggiamenti fondamentali per il mantenimento di una buona vita pubblica, sia
nelle relazioni sociali che in quelle economiche.
Possiamo quindi sostenere che la gestione del corpo e delle emozioni diventa una
parte fondamentale per la creazione di una moderna accezione di civiltà. Le
conseguenze che tale processo hanno avuto sul ruolo sociale del cibo sono quindi
legate a questa nuova concezione del sé; i modi di assumere il cibo, le quantità di
cibo mangiate diventano infatti simbolo di una nuova forma “moderna” di
autocontrollo e gestione del proprio sé (Lupton, 1999).
L’altro autore che, sempre nell’ambito della sociologia, ha cercato di fornire un
ragionamento teorico intorno al ruolo del cibo all’interno della struttura sociale e
nei rapporti sociale è Pierre Bourdieu. Nella sua opera “La distinzione. La critica
sociale del gusto”, del 1983, l’autore vuole dimostrare come il gusto sia
socialmente, ed anche culturalmente quindi, determinato.
Il complesso teorico di Bourdieu muove dalla considerazione del consumo
come struttura di autoproduzione, conservazione e riproduzione del sistema
sociale. Da questo assunto nasce l’accento che Bourdieu pone sul ruolo svolto
dagli oggetti nella riproduzione delle classi e dei ceti sociale.