2
Faggioni interpreta il ruolo di Bert, il protagonista, ed è affiancato da Gabriella
Giacobbi come Nicoletta; le scene e i costumi sono di Luciano Damiani, le musiche
di Fiorenzo Carpi.
Questo spettacolo che a Broadway era stato un fiasco, presentato a Milano insieme a
L’eccezione e la regola di Brecht, ottiene buoni risultati e anche le critiche sono
favorevoli.
Tutti i maggiori quotidiani italiani, il giorno seguente alla prima, che fu il giorno 11
Maggio del 1961, riportano l’entusiastica accoglienza del pubblico e lusinghieri
giudizi sugli interpreti e sulla regia di Strehler al quale era arrivato, a mezzo
telegramma, l’incoraggiante in bocca al lupo di Arthur Miller per il debutto milanese
(e anche italiano) della piece teatrale.
Sul venticinquenne Faggioni si soffermano “L’Avvenire d’Italia”: La giovinezza, la
purezza e la tenerezza di Bert sono state rese con vivida efficacia dal giovane Piero
Faggioni
1
, “L’Italia”: Faggioni giovane sensibile e ispirato
2
, “Il Giorno”: Faggioni
ha dato fresco fiducioso stupore e semplicità all’immagine del protagonista
3
, “La
Nazione”: Eccellente Bert
4
e altri.
La collaborazione con Strehler e gli ideali che animavano in quegli anni il “Piccolo”
di Milano porteranno frutti nell’ambito della sua attività di regista lirico.
Il teatro come servizio pubblico, rivolto a tutti e il teatro come centro di cultura e
d’incontro nel segno dell’esperienza culturale, erano concetti alla base della
formazione e della gestione del teatro milanese di Grassi e Strehler.
A questi si ispirerà Faggioni nel gestire il suo lavoro avendo sempre come finalità
quella di realizzare un teatro forma d’arte suprema e che trova il suo completamento
e la sua ragione d’essere nella comunicazione sociale e nel servizio alla comunità.
Di Strehler assumerà anche l’atteggiamento severo, terribile a volte, nei confronti dei
cantanti in regime di prove.
Infatti, a chi gli rimprovera d’essere troppo duro, Faggioni risponde che in confronto
a Strehler è buono, lui gli attori li faceva piangere!
1
O. Bertani, “L’Avvenire d’Italia”, 11 Maggio 1961.
2
D. Manzella, “L’Italia”, 11 Maggio 1961.
3
R. de Ponticelli, “Il Giorno”, 11 Maggio 1961.
4
P.E. Poesio, “La Nazione”, 11 Maggio 1961.
3
L’avvicinamento al teatro lirico, che comporterà in breve tempo l’abbandono del
teatro di prosa e dell’attività di attore, avviene nel 1963 e determinante in questo
senso è l’incontro con Jean Vilar.
Faggioni esordisce come suo aiuto regista nella Gerusalemme di Giuseppe Verdi al
Teatro La Fenice di Venezia; il direttore d’orchestra era il grande Gianandrea
Gavazzeni e la realizzazione scenica era affidata ad Antono Orlandini e Mario
Ronchese, su bozzetti di Gianrico Becher.
Questa Gerusalemme è importante per Faggioni per diversi motivi, è il suo primo
lavoro all’interno di una produzione operistica ed è quindi il primo passo della sua
prestigiosa carriera di regista, vi è l’incontro con Jean Vilar il cui pensiero resterà
sempre un ideale da condividere e la cui opera un esempio da seguire, infine, durante
il periodo di prove, avverrà la conoscenza con Ruggero Raimondi.
Raimondi sta sostenendo un piccolo ruolo, non è ancora il Basso famoso in tutto il
mondo che diventerà anche grazie all’avere trovato Faggioni sulla propria strada.
Questo incontro sarà importante per entrambi perché da esso nascerà una
collaborazione di lavoro e anche un’amicizia che lascerà tracce profonde nel loro
percorso di uomini ed artisti e porterà alla realizzazione di spettacoli futuri di grande
importanza come il Boris Godunov e il Don Quichotte.
La collaborazione con Vilar come aiuto regista proseguirà per tutti i successivi
allestimenti d’opera di Vilar tra il 1963 e il 1969: Macbeth di Verdi, Le Nozze di
Figaro di Mozart e Don Carlos di Verdi alla Fenice di Venezia, al Teatro alla Scala
di Milano e all’Arena di Verona (con Pierluigi Pizzi come scenografo).
Jean Vilar arriva a Venezia per la Gerusalemme essendosi lasciato alle spalle
l’esperienza del Théatre National Populaire cominciata nel 1951 a Parigi e la sua
intenzione, accostandosi al lavoro di regista d’opera, è quella di trasportare
nell’ambito del teatro lirico, perlomeno per quello che poteva essere possibile, la
grande trasformazione di cui aveva beneficiato il teatro di prosa negli anni Venti-
Trenta.
Questa operazione viene attuata su tutte le componenti che intervengono nella
realizzazione di uno spettacolo affinché questo possa diventare veicolo di
comunicazione di idee, espressione di sentimenti ed emozioni ma la centralità del
progetto sta nel lavoro sull’interpretazione drammatica, lavoro che era già stato
iniziato con Visconti e la Callas negli anni Cinquanta e proseguito in seguito, negli
anni Settanta, da Abbado e Strehler.
4
Dice, infatti, lo stesso Vilar:
L’arte della regia non deve essere considerata fine a se stessa. Bisogna evitare di
fare del palcoscenico un crocicchio dove si incontrano tutte le arti, architettura,
scenotecnica, luci, a tutto danno della cosa più importante: la recitazione
scenica, più esattamente la recitazione dell’attore-cantante.
Anche in un genere come l’opera romantica, dove pur sussistono un certo fasto
e ricchezza d’immagini, è la recitazione dei cantanti, la verità dei rapporti umani
a determinare alla fin fine la forza della rappresentazione
5
.
Dunque il concetto di teatro popolare non solo nel senso di accessibile al popolo, a
tutti, sia dal punto di vista materiale (prezzo del biglietto, distanza dalla propria
abitazione) che intellettuale (livello di preparazione culturale) ma anche luogo di
cultura al servizio della comunità, strumento sociale che si fa interprete dei valori
etici della gente e ne ripropone i sentimenti umani più profondi attraverso lo studio
attento dell’animo umano e dei mezzi che possono comunicarne le espressioni.
Dagli insegnamenti di Vilar e dalle esperienze lavorative consumate a stretto contatto
con lui, Faggioni eredita l’utopia di teatro popolare e matura la convinzione che
l’opera, se realizzata correttamente, sia la forma di teatro più completa e più
universale.
Il compito del regista consiste nel realizzare la volontà interpretativa dell’autore
tramite una visione complessiva del senso e del messaggio dell’opera e nel compiere
una ricerca che conduce alla riflessione sull’essenza della nostra natura umana
tramite un’indagine accurata e sensibile della psicologia dei personaggi e dei tipi
umani che essi rivestono o che potrebbero rivestire nell’ambito di una simbologia
che colleghi queste figure storiche o fantastiche a luoghi o persone della nostra vita
presente, a sentimenti della nostra umanità odierna.
Questo compito può portarsi al fine solo nel momento in cui si verifichino certe
condizioni, la prima delle quali è la possibilità di collaborare con cantanti che siano
sulla stessa lunghezza d’onda dal punto di vista delle esigenze interpretative e quindi
siano disposti e abbiano la possibilità di svolgere insieme al regista una ricerca sul
personaggio e sulle intenzioni comunicative dell’autore tramite quel personaggio.
5
J. Vilar, libretto di sala di Rigoletto, Teatro Alla Scala di Milano, stagione lirica 1993-1994,
pag. 120.
5
Queste condizioni sono però assai difficili da realizzare nel teatro lirico, in quello di
oggi in particolare ciò che sembra mettere d’accordo tutti non è tanto la qualità degli
spettacoli quanto la velocità con cui si cerca di “sfornare” a tutti i costi il prodotto
culturale:
La tendenza è di accontentarsi di un modo mediocre di fare teatro, [scrive Costa
nel 1991] tanto in teatro qualche cosa succede sempre: purtroppo non è vero,
sembra che succeda qualche cosa però se questa cosa non riesce a commuovere
nessuno, non riesce a dare qualche impulso di idee, di sentimenti di bellezza, di
senso, secondo i diversi autori, allora non si è ottenuto niente
6
.
Questa situazione suggerisce a Faggioni il paragone, da cui nascerà uno dei suoi
spettacoli più belli, tra Don Quichotte e gli uomini di teatro, che il teatro vogliono
farlo “seriamente”; Orazio Costa insieme a Jean Vilar sono le due personalità
artistiche ed umane a cui più si ispira, e il giudizio sul teatro d’opera contemporaneo
è espresso duramente:
Da qui [nasce] l’idea del parallelo tra l’utopia di Don Quichotte e quella di fare
“seriamente” del teatro d’opera, cioè una forma d’arte trattata dai più come
“poco seria”.
Cosa potrebbe esserci di più utopistico, infatti, che battersi per la messa in
valore delle radici spirituali che sono alla base della creazione dell’opera lirica,
in un’epoca come la nostra che ignora quel minimo di organizzazione dello
spazio – tempo umano necessario a risvegliare negli interpreti la coscienza dei
sentimenti che devono esprimere, al di là della semplice emissione delle note?
Troppo spesso per ignoranza, superficialità e interesse, il mestiere dello stare in
scena nel mondo dell’opera è ridotto ad una mercenaria prestazione in cui tutti
sembrano mettersi d’accordo solo su un punto: sfornare il prodotto nel modo
più rapido possibile. E non importa se il “pane” della cultura musicale è servito
crudo, nel totale disinteresse del destinatario che deve nutrirsene
7
.
6
O. Costa in: M. Boggio, Mistero e teatro. Orazio Costa, regia e pedagogia, Bulzoni, Roma,
2004, pag. 188.
7
P. Faggioni, Don Quichotte? C’ est moi, libretto di sala del Don Quichotte, Teatro Regio di
Torino, stagione d’opera 2002-2003, pag. 145.