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ostacoli incontrati, nonché alle loro implicazioni nell’ambito dell’interpretazione.
Alla luce dei risultati ottenuti e dei limiti incontrati abbiamo ritenuto, infine, utile
e necessario introdurre un discorso generale in cui venissero illustrate le proposte
di approfondimenti e di ricerche future.
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Capitolo 1
La psicologia del ciclo di vita
1.1 Vivere significa modificarsi
La presente tesi si sviluppa su un terreno piuttosto recente rappresentato dalla
psicologia del ciclo di vita (life-span theory).
L’obiettivo principale di questo capitolo è quello di fornire al lettore le coordinate
chiave per poter collocare temi quali quello di sviluppo, di cambiamento, di
transizioni, all’interno del quadro definito dalla prospettiva del ciclo di vita.
L’attenzione verrà focalizzata sulle evoluzioni delle teorie che si sono occupate di
studiare il corso della vita delle persone e verranno illustrati diversi modelli al fine
di trovare risposte ad alcuni interrogativi che provengono dalla prospettiva della
life-span theory (cosa rimane costante e cosa cambia nell'individuo con il
trascorrere del tempo? Quali elementi concorrono a definire la sua identità e quali
invece il suo rinnovamento? Come evolvono le funzioni psichiche? In che senso
alcuni cambiamenti possono essere definiti "sviluppo"?).
Cominciamo innanzitutto a vedere cosa intendiamo quando parliamo di psicologia
del ciclo di vita.
A partire dagli anni settanta, l’interesse degli studiosi di psicologia dello sviluppo
umano e di non pochi pedagogisti si è spostato progressivamente dallo studio
della prima infanzia e dell’adolescenza a quello dell’età adulta o matura, dando
vita a quella che è stata definita appunto life-span theory o prospettiva centrata
sull’arco della vita. È da notare che viene utilizzata l’espressione “arco di vita”
per indicare che l’interesse degli studiosi (Baltes, Reese, 1986) si concentra su
tutto il vissuto della persona e non solo su una parte di esso, indicando con il
termine "arco" proprio il fatto per cui la formazione dell’adulto non precede con
modalità regolare e lineare, ma include momenti evolutivi ascendenti e momenti
involutivi discendenti, così come avviene naturalmente per qualsiasi altro aspetto
della vita quotidiana dell’individuo.
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Dunque, Baltes e Reese (1980), i due fautori di questa nuova prospettiva, basano
le loro idee sul presupposto scientifico che lo sviluppo cognitivo umano avvenga
per tutta la vita e che dipenda anche da interazioni tra condizioni socio-culturali,
socio-ambientali, situazione storico-geografica e predisposizioni personali
(Gardner, 1983).
Quindi, l’elemento tempo e il concetto di sviluppo sono i due aspetti che segnano
la vera rottura con la tradizione precedente.
Per quanto riguarda il primo elemento, la prospettiva dell’età evolutiva aveva dato
sicuramente maggiore peso al passato, in particolare alle prime esperienze
infantili, rispetto al presente e al futuro. Nella psicologia del ciclo di vita, invece,
il passato si lega al presente e il presente al futuro (presente nelle rappresentazioni
dell’individuo) in un flusso continuo e dinamico. Per quanto riguarda invece il
modello utilizzato per spiegare lo sviluppo, questo subisce man mano importanti
cambiamenti: in precedenza il termine sviluppo era associato esclusivamente ai
cambiamenti fisici, cognitivi e personali o sociali che soddisfacevano determinati
criteri come, per esempio, l’essere sequenziale, unidirezionale, universale,
irreversibile e orientato ad un obiettivo; poco a poco si è compreso che questi
criteri non possono essere rispettati dai cambiamenti che avvengono nella vita
adulta (periodo comunque non slegato dallo sviluppo) e in aggiunta, si è compreso
che non tutti i cambiamenti corrispondono necessariamente ad evoluzioni.
Da tutto ciò ne consegue che la definizione stessa di sviluppo viene messa in
discussione e diversi studiosi si adoperano alla ri-definizione del concetto.
Nei contributi di alcuni autori (Thomas, 1990), l'idea di sviluppo si lega a quella
di "miglioramento" e, quindi, in un certo senso, al concetto di “valore”. Per
comprendere se un evento di vita è interpretabile come "sviluppo" è necessario,
dunque, comprendere ciò che è valore e ciò che non lo è, pensando sia alla realtà
sociale e comunitaria in cui l'individuo è inserito, sia al singolo e ai suoi principi.
Per Kaplan (1983) “ Il termine sviluppo si riferisce ad un ideale che raramente
viene perseguito, e non a ciò che accade realmente” (Kaplan, 1983), egli distingue
quindi lo sviluppo come processo ideale da quanto accade realmente nel corso
della vita e per questo motivo lo sviluppo in sè deve essere considerato alla
stregua di un processo e non di uno stato.
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Anche Rogers (1961) vede lo sviluppo come un processo verso un ideale teorico.
Egli parla di "persona pienamente funzionante": per l'autore lo sviluppo implica il
procedere verso lo stato di funzionamento completo come persona. Questo
processo comporta: una crescente apertura alle esperienze, una maggiore
consapevolezza del presente e una fiducia nel proprio organismo. L'autore pone al
centro il concetto di "apprendimento dall'esperienza" che permette alla persona di
"espandersi", accettando "sfide" e assumendosi i rischi della vita per cambiare
nella direzione desiderata (Rogers, 1980, p. 80).
L’approccio di Chaplin (1988, p. 45), invece, si allontana da questa visione
idealistica dello sviluppo che tende necessariamente ad un “miglioramento”.
L’autore, rifiutando l’idea di un movimento direzionale verso una condizione
finale (esplicita e coerente), descrive lo sviluppo come caratterizzato sia da
"avanzamenti", sia da "retrocessioni". La nostra “crescita” è, dunque, non
paragonabile all’andamento di una linea retta.
Infine è Baltes (1987, citato in Sugarman) che focalizza l’attenzione sullo
sviluppo come concetto principale attorno a cui si struttura la prospettiva del ciclo
di vita e a tal proposito stabilisce alcuni principi base.
Le intuizioni a cui è giunto Baltes rappresentano il punto di arrivo di un percorso
che ha visto diverse tappe segnate innanzitutto dalle teorie classiche sullo
sviluppo per giungere poi alla maturazione di teorie attuali.
È importante notare la presenza di un filo conduttore che lega teorie vecchie a
quelle nuove: il concetto di sviluppo, sebbene in passato fosse associato
esclusivamente alla fase infantile-adolescenziale, è comunque sempre stato visto
come un processo dialettico di interazione, da parte dell’individuo, con
l’ambiente.
Oggi si è capito che questo processo caratterizza tutto il corso della vita.
Ma procediamo con ordine.
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1.1.1 Prospettive teoriche classiche e attuali
“Tutto il mondo è un teatro e gli uomini e le donne non sono che attori
: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; ed ogni uomo,
nel suo ciclo di vita, interpreta più ruoli,
passando attraverso sette età."
(da "As you like it" di W. Shakespeare, atto II, scena 7)
Le diverse teorie sullo sviluppo, come è stato poc’anzi espresso, hanno da sempre
individuato questo processo dialettico di interazione da parte dell’uomo con
l’ambiente, e in particolare si è sempre evidenziato come lo sviluppo fosse il
risultato di una risoluzione di sfide, compiti, crisi che si presentano di volta in
volta nel corso della vita.
L’elemento di “sfida”, per esempio, è già rintracciabile nella teoria di Freud.
Freud (1905) descrive come il bambino, nel corso dello sviluppo, attraversa quella
che definisce fasi di sviluppo psicossesuale. Nel superare queste fasi il bambino
sperimenta dei conflitti tra i desideri personali e le richieste sociali. Se riesce a
padroneggiare queste fasi raggiunge uno sviluppo sano, altrimenti si verificano
delle “fissazioni” che portano a problemi di nevrosi.
Anche Vygotskij (1930) con il concetto di “zona di sviluppo prossimale” pone
enfasi sull’interazione tra sfide intellettuali e risorse personali, mentre Piaget
(1964) si concentra invece sullo sviluppo cognitivo e considera lo sviluppo un
processo di costruzione attivo e dialettico.
L’unico autore, però, che ci ha fornito un quadro completo, anche se a volte un
po’ schematico, dell’intero ciclo vitale dell’uomo, dalla nascita alla vecchiaia, è
stato Erikson (1980).
Possiamo pertanto individuare in questa figura il pioniere della prospettiva del
ciclo di vita.
L’autore, infatti, pur di estrazione psicoanalitica, considera lo sviluppo della
persona in relazione ad esperienze sociali che sono tipiche di un certo periodo
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dell’esistenza ed è per questo motivo che lo sviluppo, nella sua teoria, viene
definito psicosociale, contrapponendolo allo sviluppo psicosessuale della teoria
freudiana.
La prospettiva psicosociale vede lo sviluppo cognitivo come interazione tra la
maturazione fisica, che porta con sé nuove abilità e quindi nuove possibilità, e le
richieste che la società indirizza al bambino sollecitandolo affinché egli apprenda
nuovi comportamenti.
Le civiltà hanno elaborato modi convenzionali per far fronte alle esigenze che il
bambino presenta lungo le varie fasi della sua maturazione: le cure dei genitori, le
organizzazioni sociali, un insieme di valori ecc. E così, come la cultura ha cercato
di adattarsi al bambino, anche quest’ultimo si adatta ad essa. Erikson osservò che
anche se tutti i bambini attraversano la stessa sequenza di stadi, è pur vero che
ogni cultura ha sviluppato un proprio modo di guidare e promuovere il
comportamento del bambino a seconda dei bisogni e dei valori che ogni società ha
sviluppato. La personalità si differenzia e si organizza gerarchicamente, secondo
Erikson, passando attraverso una serie di "crisi" psicologiche ed, in concomitanza
a ciò, l’individuo allarga la gamma delle sue relazioni sociali. La ricerca
dell’identità è il tema centrale della vita che comprende sia l’accettazione del sé,
sia della civiltà in cui si vive.
Lo sviluppo psicosociale viene definito “epigenetico” per sottolineare la funzione
dell’ambiente all’ interno del quale si forma. Non esisterebbe, per Erikson, uno
schema evolutivo determinato; ogni individuo ha i propri ritmi in senso evolutivo
e le fasi precedenti non vengono mai abbandonate ma gradualmente esse si
integrano in un "insieme funzionale". Risolvere con successo uno stadio
costituisce un requisito necessario perché anche lo stadio successivo possa avere
soluzione positiva.
La persona che non riesce a risolvere in modo positivo la crisi di un dato stadio, se
è circondata da un ambiente sociale adeguato, può sovvertire l’esito degli stadi
precedenti, benché ciò avvenga con notevole difficoltà.
Vediamo ora in particolare gli otto stadi nei quali viene suddivisa la vita umana;
in ognuno di questi stadi viene presentata una coppia di opposizioni che individua
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il conflitto da superare in quel determinato periodo della vita attraverso una forza
di base o di qualità dell’io:
1. Dalla nascita ad 1 anno: fiducia o sfiducia. I bambini imparano ad avere
fiducia o sfiducia nel fatto che chi si occupa di loro risponderà ai loro
bisogni di base che comprendono il nutrimento, il calore, la pulizia e il
contatto fisico.
2. Da 1 a 3 anni: autonomia, dubbio o vergogna.
I bambini imparano ad essere autosufficienti in molte attività, fra cui
andare in bagno, camminare e parlare o a dubitare delle proprie capacità.
3. Dai 3 ai 6 anni: iniziativa o colpa.
I bambini vogliono intraprendere molte attività che, a volte, prevaricano i
limiti imposti dai genitori, per cui si sentono in colpa.
4. Dai 6 agli 11 anni: industriosità o inferiorità.
I bambini imparano ad essere competenti e produttivi o si sentono inferiori
e incapaci di fare bene qualsiasi cosa.
5. Adolescenza: identità o confusione dei ruoli.
Gli adolescenti cercano di rispondere alla domanda “chi sono?” e si creano
un'identità sessuale, etnica e professionale oppure sono confusi sui ruoli
che dovranno interpretare.
Età adulta
6. Dai 20 ai 35 anni: intimità o isolamento. I giovani adulti cercano di formarsi
una compagnia e una relazione amorosa con un’altra persona o si isolano
dagli altri.
7. Dai 35 ai 65 anni: generatività o stagnazione.
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Gli adulti sono produttivi, impegnati in un lavoro soddisfacente e si
costruiscono una famiglia oppure diventano stagnanti e inattivi.
8. Dai 65 anni in poi: Integrità o disperazione.
Le persone cercano di dare un senso alla loro vita, in quanto o riescono a
vedere la vita come un tutto dotato di significato o si disperano perché non
hanno raggiunto i fini che si proponevano o non hanno trovato risposta ai
quesiti determinati.
Erikson (1968), facendo considerazioni di natura evolutiva, ha anche parlato di
temi centrali quali la “speranza”, la “fedeltà” e la “cura” come forze umane o
qualità dell’Io emergenti negli strategici stadi dell’infanzia, adolescenza e dell’età
adulta.
La “speranza”, definita da Erikson (1980) come "la convinzione permanente della
realizzabilità dei desideri [...]" è ciò che permette la modulazione di fiducia come
conferma e sfiducia come disconferma dell’Io e della relazione che il bambino ha
con la madre e le figure di riferimento. Quando prevale la sfiducia-disconferma, lo
sviluppo tende ad affievolirsi sia sul versante cognitivo sia su quello emotivo.
Quando prevale la fiducia-conferma, si ha uno sviluppo cognitivo ed emotivo
armonico e permette alla speranza come sentimento di fare il salto, il lanciarsi
avanti che permette il passaggio allo stadio successivo.
Nell’adolescenza troviamo la “fedeltà” intesa come capacità di impegnarsi verso
una causa, capacità di rinnovare ad un più alto livello la capacità di fiducia negli
altri e in se stessi e l’esigenza di essere degni di fiducia. Questa virtù si
rinforzerebbe nel momento in cui il tentativo, messo in atto dall'adolescente, di
superare la confusione e l'ambivalenza per lasciare poi spazio alla propria identità
stabile e coerente, vada a buon fine.
Tipica invece dell’età adulta è la “cura”: scaturisce dall’antitesi tra generatività e
stagnazione (oppure preoccupazione eccessiva di sé).
La generatività ha le caratteristiche della procreatività, produttività e creatività; è
capacità di generare nuovi individui, nuovi prodotti e nuove idee, una sorta di
potere auto-generativo relativo al nuovo sviluppo dell’identità.