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Dichiarazione del 1948, facendo riferimento a tre modalità: il fatto di dedurli da un
dato obbiettivo costante come la natura umana; il considerarli come verità per sé
stesse evidenti; e infine lo scoprire che in un dato momento storico sono generalmente
acconsentiti da un generale consenso. Proprio su questo ultimo punto Norberto
Bobbio ha evidenziato come il fondamento storico del consenso è l’unico che possa
essere fattualmente provato e che “la Dichiarazione universale dei diritti umani può
essere considerata come la più grande prova storica, che mai sia stata data, del
consensus omnium gentium circa un determinato sistema di valori.
Sono trascorsi più di cinquant'anni da quando la Dichiarazione Universale dei Diritti
Umani è stata adottata dalle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948. La Dichiarazione è
stata uno dei più importanti risultati ottenuti dalle Nazioni Unite e, dopo più di
cinquanta anni, rimane uno straordinario strumento che continua ad avere grande
efficacia nella vita dei popoli di tutto il mondo. Questa è stata la prima volta nella
storia che un documento, considerato di valore universale, è stato approvato da
un'organizzazione internazionale. È stata anche la prima volta che i diritti umani e le
libertà fondamentali sono stati presi in considerazione così dettagliatamente. Quando
la Dichiarazione fu adottata ci fu un ampio sostegno internazionale. Secondo le parole
di un rappresentante francese all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la
Dichiarazione fu "una pietra miliare nella lunga battaglia per i diritti umani".
L'adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani trova le sue origini
soprattutto nel grande desiderio di pace conseguente alla Seconda Guerra Mondiale.
Sebbene i 58 Stati membri che al momento formavano le Nazioni Unite avessero
diverse ideologie, diversi sistemi politici con precedenti religiosi e culturali differenti
nonché diversi modelli di sviluppo socioeconomico, la Dichiarazione Universale dei
Diritti dell'Uomo rappresentò un testo comune di obiettivi ed aspirazioni: una visione
di come il mondo sarebbe dovuto divenire secondo la comunità internazionale.
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Fin dal 1948, la Dichiarazione Universale è stata tradotta in più di 200 lingue e con i
suoi 30 articoli, resta uno dei più conosciuti e più spesso citati documenti sui diritti
umani al mondo. Col passare degli anni, la Dichiarazione è stata usata per la difesa e
la promozione dei diritti dei popoli. I suoi principi sono stati sanciti e continuano ad
ispirare le legislazioni nazionali e le costituzioni di molti Stati di recente
indipendenza. Riferimenti alla Dichiarazione sono stati fatti negli statuti e nelle
risoluzioni di organizzazioni regionali intergovernative come pure in trattati e
risoluzioni adottate dal sistema delle Nazioni Unite.
Volendo tracciare un prima, che talaltro non può nemmeno essere scisso dal poi,
rispetto alla Dichiarazione del 1948, si potrebbe arrivare ad una riflessione
paradossale, e cioè che i suoi antecedenti sono rinvenibili nell’inizio della storia
dell’uomo. Nel senso che già il termine stesso di “uomo” porta con sé tutta una serie
di diritti indefettibili, reso gradualmente manifesto nell’esperienza storica. Per usare la
felice ed efficace espressione di Antonio Rosmini
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, la nozione stessa di Diritti
fondamentali è “connaturata” all’uomo, perciò si potrebbe parlare di “diritti
connaturati”, ma questo solleverebbe la questione del fondamento dei diritti umani,
che varia a secondo delle varie teorie filosofiche. Riassuntivamente possiamo
distinguere tra una concezione classica, di tipo giusnaturalistico, basata su un
fondamento assoluto, meta-storico dei diritti umani, secondo cui ogni persona
possiede diritti fondamentali e inalienabili, naturali e anteriori alla società stessa; e
una teoria moderna, in base alla quale i diritti essenziali dell’uomo sono di volta in
volta variabili, soggetti al flusso del divenire e traggono origine dalla società e dai
cicli storici. Lo stesso Norberto Bobbio riteneva che un fondamento assoluto dei diritti
umani, oltre a non essere possibile, non era nemmeno desiderabile. Non è comunque
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Antonio Rosmini, Filosofia del diritto (1841-43), Pogliani, Milano.
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importante attardarsi in contrasti ideologici difficilmente conciliabili a livello teorico
intorno ai possibili fondamenti dei diritti umani, occorre trascendere dai fondamenti
teorici e battersi affinché prosegua il processo di protezione giuridica. Infatti, in
ambito costituzionale negli anni si è passato dalla seconda metà del ventesimo secolo,
dalla tradizione francese, che riteneva sufficiente per la protezione dei diritti, la
separazione dei poteri, l’autonomia dell’ordine giudiziario e la partecipazione diretta
dei cittadini mediante l’elezione dei rappresentanti, a quella americana, che privilegia
un sistema costituzionale rigido, volto soprattutto a garantire i diritti dei cittadini dai
rischi di un eventuale dispotismo della maggioranza parlamentare. Ciò che più conta
oggi è il continuare il processo di universalizzazione dei diritti umani, una
universalizzazione complessa da considerare sotto vari aspetti: il consenso
generalizzato, la dimensione planetaria dei destinatari, la tendenza contenutistica a ri-
comprendere tutti i diritti, che in senso lato possano essere ricondotti alla sfera
essenziale della persona.
Guardando agli ultimi secoli con soddisfazione si nota come l’universalismo dei diritti
dell’uomo sia passato dalle opere dei filosofi, in particolare del giusnaturalismo
moderno, attraverso i primi riconoscimenti nei diritti positivi dei singoli paesi (a
cominciare dalle Dichiarazioni dei diritti degli stati americani e dalla Dichiarazione
francese del 1789) fino all’attuale diritto positivo internazionale, che possiamo
definire “a tendenza universalistica” il cui punto di partenza è rappresentato proprio
dalla Dichiarazione universale del 1948.
Tali diritti hanno dunque una validità assoluta, vanno riconosciuti nelle singole
Costituzioni e, una volta diventati pubblici mediante tale riconoscimento, assumono
una portata meta-costituzionale che trascende gli ambiti delle singole statualità.
È altresì nota un’altra recente impostazione, in chiave politica, volta a rilanciare i
principi tradizionali del liberalismo nell’ottica della tutela dei diritti umani. Infatti
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secondo queste teorie, le idee-guida di una società pluralista e di un’economia di
mercato competitiva, il relativismo etico, il principio di tolleranza e le pari opportunità
e i tutti i principi cardine del liberalismo sarebbero idonei nella società moderna per
garantire i diritti universali dell’individuo.
I precedenti nella storia del pensiero giuridico: il mondo greco-romano
È evidente che i primi “embrioni” di diritti umani siano rinvenibili in quelle stesse
tracce di diritti naturali che le varie culture susseguitesi nel tempo ci hanno
tramandato.
Se la storia del pensiero giuridico occidentale ha il suo punto di partenza nella Grecia,
allora le più antiche testimonianze risiedono nei poemi epici di Omero: l’Iliade e
l’Odissea. Infatti già in questo contesto primordiale emerge una timida distinzione tra
la themis e la dike. La prima nozione indica probabilmente una decisione ispirata dagli
dei, un comportamento moralmente doveroso anche se non conveniente, rispondente
ad una sorta di coscienza sociale collettiva; il secondo termine può significare più che
altro una legge terrena.
Vi è poi la famosa tragedia ateniese, tra l’altro tuttora rappresentata spesso nei nostri
teatri, scritta da Sofocle e risalente alla metà del v secolo a.C.: l’Antigone tutta basata
sul drammatico dilemma tra l’obbedienza o meno a una norma scritta palesemente
ripugnante ai valori morali diffusi nella collettività. In questa opera Sofocle fa
riferimento a leggi non scritte, inalterabili, stabilite dagli dei, eterne e di origine
soprannaturale.
Risalendo all’epoca precristiana dei Romani, si può significativamente fare
riferimento a Cicerone e in particolare ai suoi poliedrici trattati: De legibus e De
Republica. Quasi anticipando le successive tematiche giusnaturalistiche della chiesa
cattolica medioevale, Cicerone richiama: “una vera legge, la retta ragione conforme a
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natura, diffusa tra tutti, costante, eterna…a questa legge non è lecito apportare
modifiche né toglierne alcunché, né annullarla in blocco…essa non sarà diversa da
Roma ad Atene o dall’oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge
governerà tutti i popoli ed in ogni tempo”
3
.
Proprio in Cicerone, infatti, sono rinvenibili degli istituti giuridici, seppur a livello
embrionale, particolarmente significativi a proposito di una concezione universale di
certi diritti fondamentali dell’uomo, dai quali potrebbe dedursi, da un lato, la spettanza
di determinate garanzie giuridiche essenziali a prescindere dalla cittadinanza o
dall’appartenenza a particolari etnie, caste, o infine dal possesso di specifici requisiti
giuridici; e dall’altro, frammenti di una concezione giuridica onto-fenomenologica,
dal momento che a ben guardare si sarebbe trattato già allora di diritti legati all’uomo
in quanto tale, considerato nella sua essenza a-temporale e a-spaziale.
Volendo realizzare un parallelo tra il diritto internazionale umanitario applicabile oggi
nel corso dei conflitti armati: vale a dire tutto quell’insieme di diritti talmente
inalienabili che debbono essere rispettati anche nei confronti dei nemici durante o
comunque in relazione a eventi bellici; e il diritto romano, vanno ricordati gli officia
hostes servanda, cioè l’insieme dei doveri da rispettare nei confronti dei nemici e dei
belligeranti in genere. Vi sono poi i multa iura communi
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, che sarebbero in sostanza le
norme giuridiche comuni ai romani e agli stranieri, i quali tutti sarebbero parimenti
tenuti al loro rispetto.
A parte va citata la ius fetiale, che può ritenersi una sorta di diritto internazionale
primordiale da intendere come complesso di norme giuridiche che regolano i rapporti
tra i popoli, sulla base di un indispensabile riferimento a un collegio sacerdotale.
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Marco Tullio Cicerone, Le leggi.
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[cum iusto enim et legittimo hoste res gerebatur, adversus quem et totum ius fetiale e
multa sunt iura communia]
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È nota poi l’antica nozione di ius gentium, presente anche nel diritto romano e
richiamata dallo stesso Cicerone, che però aveva un’accezione diversa da quella oggi
diffusa nel linguaggio ordinario, indicante l’insieme di principi giuridici riconducibili
a una ratio perennis all’uomo, significando invece a quel tempo le regole di diritto
generalmente riconosciute nelle legislazioni positive dei diversi stati. Pertanto tale
locuzione potrebbe essere assimilabile alla nozione di diritto comune generale
elaborata da Carl Schmitt
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, per indicare il diritto generalmente ri-conosciuto dagli
stati.
Da ultimo, la stessa Lex Iulia maiestatis, qualificava come crimen maiestatis
l’uccisione di ostaggi, la promozione arbitraria della guerra e tutte quelle iniziative
volte a trascinare in guerra lo stato iniussu principis.
Il Medioevo
Sempre nell’ambito di un rapido excursus storico, merita una qualche attenzione
l’esistenza di diritti essenziali della persona durante il Medioevo, periodo in cui,
contrariamente a quanto potrebbe apparire a una disamina superficiale, si possono
rinvenire le prime tracce di una tutela giuridica intesa in senso moderno. Una prima
garanzia dei diritti fondamentali venne attuata, in un periodo caratterizzato da
frammentarismo giuridico e localismo politico, tipici del Medioevo, prima a livello di
diritto privato con accordi particolari di tipo pattizio tra autorità locali e soggetti di
diritto, aventi a oggetto l’acquisto di diritti essenziali e la correlata protezione
dell’autorità locale; da cui prese poi avvio una salvaguardia più ampia in chiave
pubblicista. Pertanto in un primo momento il frammentarismo giuridico, legato
5
Carl Schmitt (1950), Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europäum,
Greven Verlag, Köln.
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intimamente agli istituti feudali, ha comportato a proposito dei diritti essenziali legati
alla persona l’instaurarsi di vincoli di natura privatistica: il diritto alla vita e
all’integrità fisica, il diritto a non essere percosso, ucciso e a non essere preso senza
una giusta causa legale, il diritto di scegliere il domicilio, di allontanarsi dal luogo di
dimora abituale senza difficoltà, il diritto a formarsi una famiglia, il diritto a non
essere privato illegalmente delle cose legittimamente possedute, ecc. Da questi accordi
affermati e protetti giuridicamente mediante formule pattizie e bilaterali secondo gli
schemi dell’ordinamento medioevale, si passò al diritto pubblico dove l’ampiezza dei
destinatari della tutela giuridica è estesa ad un riconoscimento generale attraverso una
intermedialità che segna una tappa fondamentale nel lungo cammino dei diritti
fondamentali della persona, ponendo le basi anche per le stesse moderne Dichiarazioni
universali.
Il riferimento quasi obbligato in questo quadro è alla Magna Charta del 1225, con cui
Enrico III si rivolge in particolare a larghi ceti (arcivescovi, prelati, conti, nobili) e in
generale a “tutti i liberi del Regno”, anche se quest’ultima universalizzazione
semantica viene poi limitata dai contenuti e dai mezzi di tutela dei diritti,
espressamente riferibili solo a particolari situazioni soggettive.
In ogni caso va posta nella dovuta evidenza l’enunciazione di principi a carattere
generale, che possiamo definire di diritto naturale: “nessun uomo libero sarà arrestato,
imprigionato, spossessato della sua indipendenza, della sua libertà o libere usanze,
messo fuori dalla legge, esiliato, molestato in nessuna maniera”, per cui “noi (il
sovrano) non metteremo né faremo mettere la mano su lui e noi non venderemo, né
rifiuteremo o differiremo a nessuno il diritto alla giustizia”.
Sono noti e non verranno in questa sede ripetuti nel dettaglio i contenuti dei successivi
sviluppi pubblicistici in Inghilterra, come la Petition of rights del 1628 e il Bill of
rights del 1689, a seguito della cosiddetta “gloriosa rivoluzione”. Lo scopo primario di
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tali carte è la difesa dei diritti del Parlamento, con la contestuale limitazione delle
prerogative della Corona, e lo sviluppo dei diritti popolari nei confronti del re.
Così per citare solo alcuni dei diritti di più ampia portata di questo insorgente
costituzionalismo, ricordiamo: libertà nelle elezioni, libertà di parola e di discussione,
libertà di procedura in Parlamento, diritto di petizione dei cittadini rivolto al re, ecc.
Le Dichiarazioni americana e francese
Finalmente nel 1789 si giunge al modello normativo moderno e più significativo ai
nostri fini: la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, approvata
dall’Assemblea nazionale francese divenuta costituente. Si tratta della Dichiarazione
dei diritti con una formulazione generale che mai si era raggiunta in precedenza, la
quale a buon titolo può essere considerata l’antesignana più diretta della Dichiarazione
universale del 1948, pur nella diversità delle fonti e dei contesti (costituzionale quella
francese del 1789 e internazionale quella del 1948).
Si è molto dibattuto sui legami tra la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e il
costituzionalismo del Nord America della seconda metà del settecento: in particolare
si è molto insistito sulle analogie anche semantiche delle formulazioni, cui però
secondo alcuni non corrispondeva identità di vedute giuridico-religiose. L’aspetto che
in questo contesto è da sottolineare è la centralità dei diritti dell’individuo nel
costituzionalismo di due continenti diversi nella seconda metà del settecento. Segno
importante di una maturazione ormai raggiunta nell’astuta storia del pensiero umano.
Dal canto suo la Costituzione federale degli Stati Uniti del 1787 si contraddistingue in
primo luogo per l’affermazione di una serie di principi e di diritti che tuttora si
segnalano per la loro attualità: come i concetti di godimento della vita, di felicità, di
sicurezza e di benessere generale, oltre al principio chiave del diritto di proprietà.