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delle filiali e il loro ruolo in un’ottica multi-local o global, come poter gestire i
cambiamenti e come dislocare le attività in base anche al ruolo coperto da ogni filiale. Ho
trattato le strategie di internazionalizzazione analizzando i modelli di Dicken e quello
Ghoshal, Barlett, Nohria, e in particolare la strategia transnazionale. Ho descritto le forme
organizzative che un’azienda internazionalizzata può adottare in modo coerente con la
strategia intrapresa. Infine ho analizzato come il modo più proficuo per dirigere una filiale
estera, tenendo conto anche della strategia che l’azienda ha adottato e del ruolo che le altre
filiali hanno all’interno dell’azienda.
Il quarto capitolo tratta il tema del global sourcing e di come coordinare i fornitori con
l’operato dell’azienda per aumentare la competitività della stessa. All’inizio ho introdotto il
global sourcing definendo anche i costi connessi con questo processo. Poi ho analizzato
alcuni modelli di global sourcing. In particolare ho analizzato le cinque fasi principali per
dare un processo di rifornimento in outsourcing e le strutture di gestione secondo un
modello di Zeng. Poi ho illustrato il modello evolutivo di Trent, Monczka sulle fasi di
approvvigionamento che una impresa può adottare in base alla sua maturità e alle esigenze,
indicando una via per la più ampia integrazione tra i fornitori e le funzioni aziendali. Ho poi
illustrato alcuni punti che se correttamente seguiti portano a un’implementazione di
successo del global sourcing. Ho trattato poi il modello proposto da Arnold per la scelta del
grado di centralizzazione dei processi di fornitura e del ruolo che le filiali devono svolgere
in tale ambito. Infine ho analizzato i principali contratti di fornitura e le strategie di
approvvigionamento che un’azienda può adottare.
Nel quinto capitolo ho trattato il tema del coordinamento delle relazioni che un’azienda ha
con l’esterno. Ho cominciato definendo la struttura di una supply chain, quali sono i
membri che la compongono e che collegamenti vi sono tra questi membri. Ho poi definito
due strategie che possono essere usate per la relazione con i membri esterni all’impresa. In
particolare la strategia cooperativa, volta a perseguire l’interesse dell’azienda attraverso un
rapporto di integrazione con gli altri membri e la strategia competitiva, che persegue
l’interesse dell’azienda a discapito di quello degli altri. Poi ho indicato come poter creare
un centro strategico che possa svolgere da integratore e coordinatore tra tutti i membri della
rete in cui l’azienda è inserita. Ho poi analizzato i tipi di relazioni che si possono sviluppare
con i fornitori e le caratteristiche che esse hanno, in modo da poter trarne il maggior profitto
per entrambe le parti. Infine ho descritto come sviluppare relazioni collaborative tra i vari
membri e le ragioni che portano al successo di una relazione e quindi al raggiungimento
degli obiettivi prefissati.
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Nel sesto capitolo ho descritto come un’azienda gestisce il planning e come sviluppa un
piano di produzione in modo da rendere effettivo anche il coordinamento dei materiali tra le
varie unità e gli attori esterni. In particolare ho analizzato il production planning system, il
master production schedule, e il material requirements plan.
Per concludere ho mostrato come un’azienda applichi quanto trattato in teoria. Ho
analizzato il Gruppo Fedon, un' azienda che si occupa di produzione e vendita di astucci per
occhiali e borse in pelle. Questa azienda ha un’ampia rete di filiali commerciali in vari
paesi del mondo e uno stabilimento produttivo in Cina. Parlo di essa perché ho avuto
esperienza diretta del coordinamento che essa ha con le filiali estere, avendo svolto uno
stage di tre mesi nella filiale in Germania.
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Capitolo 1:
L’analisi dell’ambiente internazionale
Introduzione all’ambiente internazionale
Negli ultimi decenni molte aziende hanno espanso sempre più su scala internazionale lo
svolgimento dei loro affari, sia dal punto di vista della produzione sia da quello delle
vendite.
Aziende, sia grandi che piccole, si sono internazionalizzate nel tentativo di aumentare la
loro competitività e di catturare quote di mercato in nuove aree geografiche che si stanno
rivelando profittevoli.
Il processo d’internazionalizzazione industriale è aumentato significativamente a partire dal
1950, all’inizio da parte delle grandi aziende americane, seguite poi dalle grandi imprese
europee che hanno aumentato sempre più la loro quota d’investimenti diretti esteri, o in
inglese “foreign direct investment” (FDI), creando le imprese multinazionali. Negli ultimi
anni il processo ha avuto un aumento vertiginoso sia per cause politiche (caduta del
comunismo e apertura di molti mercati emergenti), che per cause tecniche (rivoluzione
portata dall’ICT e maggiore facilita di spostamento d’informazioni ma anche di merci e
persone). Questo ha portato anche le medie e piccole imprese (tipiche del contesto
produttivo italiano) ad effettuare il processo di espansione su scala internazionale.
Lo spostamento verso un ambiente internazionale ha comportato un maggiore numero di
variabili in gioco e una maggiore complessità d’analisi per le aziende che hanno ampliato il
loro scenario rispetto a quelle che si confrontano solo con un ambiente nazionale.
La complessità dell’ambiente esterno deriva dalle varietà culturali, economiche, legali e
sociali che si incontrano nei vari ambienti in cui l’impresa opera. La cultura, la lingua, i
costumi sociali, la politica e le leggi possono essere molto differenti da un Paese ad un
altro; cosi può cambiare il sistema economico, la moneta, il sistema bancario, e il grado di
pianificazione centrale operata da quello Stato sull’economia. Ognuna di queste variabili ha
una significativa influenza nella definizione della strategia adottata per l’ingresso nel Paese
e per la continuazione dei rapporti con quel mercato. Le variabili relative al sistema politico
e legale, all’ambiente economico e alla cultura delle transazioni economiche vanno a
costituire l’ambiente istituzionale di quel Paese e vanno a definire le condizioni in cui si
svolgeranno gli affari. (North, 1990)
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Nel descrivere l’ambiente istituzionale si può dividere in forte o debole. Un ambiente
istituzionale forte garantisce sicurezza nelle transazioni che si effettuano in esso. Invece
quando un ambiente è debole significa che le transazioni in quel Paese non sono sicure e
c’è abbastanza rischio nel condurre esse. La debolezza si riferisce alle condizioni legali a
cui sono sottoposti i diritti di proprietà e altre caratteristiche che vanno ad aumentare i
rischi negli scambi e nel ritorno dell’investimento. Queste inefficienze possono ostacolare
lo sviluppo dell’economia in quel Paese e sono sicuramente un inibitore agli investimenti
esteri. In questo senso la conoscenza dell’ambiente istituzionale nazionale è fondamentale
per la comprensione del Paese in cui si vuole entrare e per la definizione di una strategia
efficace. (North, 1990)
Il primo passo per un’espansione verso un nuovo ambiente internazionale è capire le
diversità dell’ambiente istituzionale del Paese preso in esame rispetto al proprio.
Inanzitutto si devono analizzare i fattori base che differenziano i vari Paesi nel mondo; è
importante conoscere quali sono i Paesi con la crescita più veloce, quali hanno il più ampio
mercato in termini di PIL e di PIL pro capite.
Poi si può analizzare l’integrazione del Paese nell’economia globale analizzando il livello
di importazioni ed esportazioni e il grado di “foreign direct investment” (FDI) praticato.
Infine si può includere nell’analisi i costi di fare affari in quel Paese, come il costo del
lavoro, i costi dei fattori produttive, le tasse, se ci sono zone speciali per investimenti
stranieri. (Chung, Mitchell, Yeung, 2003)
Indicazioni generali sull’andamento economico di un Paese come la crescita, l’inflazione ed
altri aspetti macroeconomici sono ampiamente disponibili. La conoscenza di questi dati
sono fondamentali per la comprensione del Paese; essi possono essere usati per la
valutazione del suo mercato e per capire le potenzialità di crescita ed investimento.
Figura 1.1 fonte: The World Bank http://www.worldbank.org/
Italy Data Profile
Click on the indicator to view a definition 2000 2005 2006
People
Population, total 56.9 million 58.6 million 58.8 million
Population growth (annual %) 0.0 0.7 0.4
Share of poorest quintile in national consumption or
income (%)
6.5 .. ..
Life expectancy at birth, total (years) 79.5 80.3 81.1
Fertility rate, total (births per woman) 1.2 1.3 1.4
13
Adolescent fertility rate (births per 1,000 women ages
15-19)
6.7 6.6 6.4
Contraceptive prevalence rate (% of married women
ages 15-49)
.. .. ..
Births attended by skilled health staff (% of total) .. .. ..
Mortality rate, under-5 (per 1,000) 5.0 4.4 4.2
Immunization, measles (% of children ages 12-23
months)
73.0 87.0 87.0
Primary completion rate, total (% of relevant age
group)
100.3 99.8 ..
School enrollment, secondary (% gross) 92.8 99.4 ..
Ratio of girls to boys in primary and secondary
education (%)
.. 98.9 ..
Prevalence of HIV, total (% of population ages 15-49) .. 0.5 ..
Environment
Surface area (sq. km)
301.3
thousand
301.3
thousand
301.3
thousand
Forest area (sq. km) 94,470.0 99,790.0 ..
Deforestation (average annual %, 1990-2005) .. .. ..
Freshwater use (% of internal resources) .. .. ..
Energy use (kg of oil equivalent per capita) 3,040.0 3,159.8 ..
CO2 emissions (metric tons per capita) 7.5 .. ..
Electric power consumption (kWh per capita) 5,299.3 5,668.7 ..
Economy
GNI, Atlas method (current US$) 1.2 trillion 1.8 trillion 1.9 trillion
GNI PPP ($ millions), 2006 1.4 trillion 1.6 trillion 1.7 trillion
GNI per capita, Atlas method (current US$) 20,900.0 30,310.0 31,990.0
GNI per capita PPP ($), 2006 24,290.0 27,630.0 28,970.0
GDP (current US$) 1.1 trillion 1.8 trillion 1.9 trillion
GDP growth (annual %) 3.6 0.1 1.9
Inflation, GDP deflator (annual %) 2.0 2.2 1.8
Agriculture, value added (% of GDP) 2.8 2.2 2.1
Industry, value added (% of GDP) 28.4 26.6 26.6
Services, etc., value added (% of GDP) 68.8 71.2 71.4
Exports of goods and services (% of GDP) 27.1 26.1 27.8
Imports of goods and services (% of GDP) 26.1 26.1 28.7
Gross capital formation (% of GDP) 20.7 20.6 21.2
Revenue, excluding grants (% of GDP) 37.2 35.5 37.2
Cash surplus/deficit (% of GDP) -0.7 -3.5 -3.3
States and market
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Time required to start a business (days) .. 13.0 13.0
Market capitalization of listed companies (% of GDP) 70.0 45.1 55.5
Military expenditure (% of GDP) 2.0 1.9 1.7
Fixed-line and mobile subscribers (per 100 people) 121.9 164.7 ..
Internet users (per 100 people) 23.2 47.8 49.0
Roads, paved (% of total roads) 100.0 .. ..
High-technology exports (% of manufactured exports) 9.2 7.8 7.2
Global links
Merchandise trade (% of GDP) 43.7 42.8 45.8
Net barter terms of trade (2000 = 100) 100.0 101.0 97.5
Foreign direct investment, net inflows (BoP, current
US$)
13.2 billion 19.6 billion 38.9 billion
Workers remittances and compensation of employees,
received (US$)
1.9 billion 2.4 billion 2.6 billion
Nella figura 1.1 sono rappresentati i dati più significativi per avere il profilo generale di un
Paese, non solo dal punto di vista economico. Per un’analisi economica sono
particolarmente rilevanti i dati relativi al PIL e la popolazione per avere un’idea delle
potenzialità del mercato. Il PIL pro capite individua la ricchezza media del Paese. La
crescita del PIL è un buon indicatore per sapere in quale direzione si sta muovendo il Paese.
Un altro indice interessante è l’importo del Foreign direct investment (FDI); infatti gli
investimenti esteri possono stimolare lo sviluppo di un’economia. Infine altri due indici
utili per capire l’andamento del Paese verso l’economia mondiale, per avere una bilancia
dei pagamenti e la sua importanza nei rapporti con l’estero, sono il valore dell’export e
dell’import. (Chung, Mitchell, Yeung, 2003)
C’è poi da tener conto anche dei mercati finanziari e delle diverse valute che si incontrano
in altri Paesi. I mercati finanziari sono il mezzo attraverso il quale le aziende mediano le
loro transazioni, e ogni mercato è regolato dalla propria valuta. Quando si conducono
transazioni con altri Paesi si deve tenere conto anche del tasso di cambio che intercorre tra
le varie valute e della sua variazione nel tempo. Questo tasso di cambio può rimanere
stabile come può cambiare nel corso del tempo. La volatilità del tasso di cambio dipende se
questo è a cambio fisso o variabile e dall’incertezza nel mercato dovuta alla domanda di
moneta rispetto ad un’altra. Si deve considerare poi la differenza tra il tasso di cambio
nominale e quello reale. Il tasso di cambio nominale è la quantità di scambio ufficiale di
una moneta verso un’altra; il tasso di cambio reale è invece la quota di scambio di una
moneta verso l’altra tenendo anche conto dell’inflazione di ogni valuta. Quindi il tasso di
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cambio reale fornisce il prezzo tra i beni e i servizi nei due Paesi; questo tasso differenzierà
dal tasso nominale quanto più la differenza d’inflazione tra i due Paesi sarà grande.
Teorie sull’internazionalizzazione
Le teorie aiutano a capire le ragioni che stanno dietro al commercio internazionale. Le
aziende si sono sempre più aperte al mercato internazionale perché ci sono dei vantaggi che
possono essere perseguiti attraverso il commercio internazionale. La teoria economica da
una forte importanza al Paese in cui l’azienda ha locazione. Il Paese di locazione può
fornire vantaggi nei fattori di produzione, nel costo del lavoro, dell’ambiente economico,
nella tecnologia e nel lavoro specializzato disponibile, e di questo le teorie tengono conto.
Le teorie classiche
Adam Smith fu il primo economista a occuparsi di commercio nel suo libro: La ricchezza
delle nazioni. La sua teoria è definita del vantaggio assoluto. In particolare la teoria si basa
sul fatto che un’azienda localizzata in una nazione che disponga in abbondanza di un fattore
produttivo o di una determinata abilità sarà sempre più efficiente di un’altra allocata in
un’altra nazione. Il commercio internazionale deriva dalla conseguenza che due o più
nazioni hanno vantaggi in differenti prodotti. Come conseguenza esse si specializzano sui
prodotti su cui hanno il rispettivo vantaggio e li scambiano tra di esse rendendoli disponibili
per tutti.
David Ricardo defini la teoria dei vantaggi comparati in base alla quale anche le nazioni
che non hanno vantaggi assoluti in un determinato campo possono entrare nel commercio
internazionale. I vantaggi comparti si riferiscono alla maggiore efficienza, che derivano
dalle differenti tecnologie e dai costi opportunità a cui si deve incorrere, nel produrre un
prodotto anziché un altro. Quindi anche le nazioni che non dispongono di un vantaggio
assoluto possono partecipare al commercio internazionale nel settore in cui dispongono di
un vantaggio comparato. (Smith, 1776)
Queste due teorie spiegano perché sia conveniente entrare nel mercato internazionale.
La teoria del ciclo produttivo di Vernon
Intorno al 1960 Vernon si focalizzo nello studio del commercio internazionale in base alla
fase della produzione in cui si trovano i prodotti che un Paese produce. In particolare la fase
della produzione determina quale Paese importa ed esporta prodotti.
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Vernon identifico che i prodotti seguono un ciclo di tre fasi: nuovi prodotti, prodotti maturi
e prodotti standard. Nella fase di nuovi prodotti sono richiesti forti investimenti in ricerca e
sviluppo perchè i prodotti, appena lanciati, sono all’inizio del loro sviluppo e la produzione
richiede forti innovazioni. Nella fase di prodotto maturo, la produzione è meno innovativa e
più standardizzata. Il successo della produzione si sposta verso la riduzione dei costi e
questo riduce i vantaggi che i Paesi sviluppati hanno nella produzione. Nella fase prodotti
standard la competizione si basa esclusivamente sui costi e l’innovazione è completata. Si
hanno vantaggi nella produzione solamente nei Paesi dove i costi del lavoro sono molto
bassi.
Il luogo della produzione, l’import e l’export cambiano in base alle varie fasi. Nella fase
nuovi prodotti, i Paesi sviluppati tendono ad essere esportatori perché il fattore del successo
produttivo risiede nella tecnologia e nel lavoro specializzato che detengono; invece i Paesi
in via di sviluppo sono importatori.
Nella fase prodotti maturi la produzione nei Paesi sviluppati comincia a diminuire perché il
fattore di successo comincia a spostarsi dall’innovazione alla riduzione di costo. Quindi i
Paesi che dispongono di forza lavoro a basso costo cominciano ad aumentare le
esportazioni mentre i Paesi sviluppati aumentano le importazioni.
Nella fase prodotti standard il passaggio è completato e la produzione è completamente
localizzata nei Paesi in via di sviluppo. In questa fase i Paesi sviluppati sono importatori
netti mente i Paesi in via di sviluppo sono esportatori netti. (Vernon 1966)
La teoria del vantaggio competitivo di Porter
Michael Porter nel 1990 pubblica il libro “Il vantaggio competitivo delle nazioni” in cui
sviluppa un nuovo approccio alla teoria del commercio internazionale considerando i
precedenti approcci inadeguati per spiegare i recenti cambiamenti del commercio globale.
Porter guarda non più alle nazioni come dei concorrenti ma sposta la sua attenzione alle
industrie, e quindi alla microeconomia, come concorrenti nella scena internazionale. Le
nazioni diventano quindi fonte di attrazione delle industrie non più se hanno delle dotazioni
iniziali, ma se hanno le qualità per cui le industrie allocate in esse possano generare dei
vantaggi competitivi rispetto ad altre industrie dislocate in altre nazioni.
In particolare le dotazioni iniziali di una nazione sono venute meno significative a causa di
tre fattori: il primo è il processo di sviluppo delle economie mondiali che ha reso la
maggior parte delle nazioni dotate dei fattori basilari per la produzione come forza lavoro
qualificata, strade, telecomunicazioni; il secondo è lo sviluppo tecnologico cha ha reso
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meno importante il costo del lavoro e anche molti materiali sono stati sostituiti da nuovi
materiali sintetici rendendo più importante il costo della tecnologia che non il costo del
lavoro o dei materiali; il processo di globalizzazione che ha facilitato l’accesso a capitali e a
conoscenze anche fuori dalle propria nazione d’origine.
Per Porter il successo di un’industria nel commercio internazionale anziché risiedere nelle
dotazioni della nazione in cui ha sede, risiedono nella produttività. Le industrie di una
nazione per raggiungere il successo devono possedere due vantaggi competitivi: ridurre i
costi o differenziarsi per avere il premium price. Per sostenere il vantaggio raggiunto poi le
nazioni devono agire offrendo prodotti di alta qualità o rendendo più efficiente la
produzione; questo si trasformerà in crescita della produttività. Il successo comparato di
una nazione risiede nel tentativo di aumentare continuamente le proprie performance;
un’industria deve continuamente aumentare la produttività alzando la qualità dei prodotti,
aggiungendo delle nuove caratteristiche ai prodotti, aumentando la tecnologia di produzione
e aumentando l’efficienza. Quindi i fattori che portano al successo l’azienda in una nazione
sono più legati all’innovazione e al cambiamento che non ai costi.
Per capire come questo processo di continua innovazione e aumento della produttività
interagisce con il contesto di una nazione, Porter ha identificato quattro fattori operanti
assieme per rinforzare una nazione.
Figura 1.2 I determinanti del vantggio nazionale (Porter, 1990)
- Fattori strutturali: che si distinguono a loro volta in: di base (risorse naturali, clima,
posizione fisica, lavoro non qualificato) e avanzati (strutture di comunicazione, personale
qualificato e centri di ricerca); e in fattori generali (utilizzabili in molti settori) e
specializzati (che sono la chiave del successo di alcuni settori). Mentre i fattori di base e
Strategia
dell’azienda,
struttura e rivali
Condizioni della
domanda
Fattori
strutturali
Industrie
correlate e di
supporto