scomparire, salvo poi ricomparire sotto nuove forme al contempo straniere e riconoscibili,
rassicuranti ed inquietanti, indomite ed assoggettabili. Si trattava e si desiderava vedere tutto,
vedere diversamente, vedere cose diverse: il Cinema era nato ed emetteva i primi vagiti con una
forza eversiva mai vista.
I b. Motivazioni e finalità di un approccio retorico alla vastissima problematica teorico-pratica del
cinema. [INDICE]
Fin dalle origini ,dunque, il cinematografo si costituisce come prodotto e sintesi costante e in fieri
delle più svariate istanze e porterà sempre, fino ad oggi ed oltre (dopo la sua eventuale morte e la
sua automatica rinascita) l’impronta originale di un voracissimo meccanismo, capace di assimilare
tutto, ogni più disparato elemento di realtà, di discorso e di metodo facendosi costantemente beffe
di ogni tentativo di segregarlo in una gabbia teorica, con l’intento di addomesticarlo. Bernardi
dedica numerose pagine al tentativo di riassumere la grande quantità di teorizzazioni, da parte di
cineasti, critici e cineasti critici che questo apparecchio di ri-produzione meccanica della visione
(oggi sempre più di produzione) ha suscitato nel corso di poco più di un secolo, cercando al
contempo di delineare il contesto e i motivi della sua stessa collocazione nell’orizzonte degli studi
retorici. La domanda allora è: perché è necessaria una retorica del cinema?
Perché nell’affrontare questo ricchissimo, ambiguo e assai mutevole linguaggio (o, non sarebbe
forse meglio dire“linguaggi”, così come “cinemi”?), non ci limitiamo alla già assai cospicua mole
di studi linguistici, semiotici, estetici, psicoanalitici prodotti a dismisura nel corso di così pochi
decenni? Si potrebbe iniziare citando lo stesso Bernardi che a sua volta cita Dudley Andrew:
“I semiologi in sostanza analizzano il discorso artistico senza ascoltarlo»”
4
[Concepts in Film Theory,
D. Andrew, New York, Oxford University Press, 1984.]
Le riflessioni dell’autore su Andrew sono molto illuminanti proprio riguardo la necessità di
un’analisi retorica del fenomeno cinematografico ed espongono brillantemente e sinteticamente il
percorso critico che verrà svolto, nonché la sua più profonda ispirazione:
“Da questo punto di vista, in relazione al rapporto tra film e spettatore, Dudley Andrew ha criticato il modello
semiotico e il modello strutturale nelle loro applicazioni al cinema. Riferendosi alle osservazioni di Lyotard sul
concetto di figura e all’ermeneutica di Paul Ricoeur, Andrew osserva che la teoria di Metz, come ogni modello
linguistico in generale, non rende ragione della complessità del discorso estetico, e meno che mai della ricchezza del
film, poiché considera i tropi, le figure del linguaggio [di cui si occupa invece la retorica, avendo cura di collocarle nel
proprio contesto storico culturale in cui solo, del resto, sono intelligibili da parte dei produttori-fruitori, come ben
evidenzia, ad esempio, la “metaforologia” di Blumenberg, n.d.r.] in modo alquanto riduttivo, limitandoli alla pura e
semplice funzione di comunicare, di rappresentare, per sostituzione, un determinato concetto. Ma il linguaggio, e
soprattutto il linguaggio dell’arte, non è mai solo comunicazione, è anche e soprattutto espressione di contenuti oscuri
ed inconsci, difficili da decodificare, tali anzi da mettere in crisi i codici stessi della comunicazione linguistica, da farli
esplodere. […] Ugualmente, commenta Andrew, una figura qualunque del linguaggio cinematografico, come la
sovrimpressione, può essere interpretata in molti modi, come pensiero di un personaggio che diventa visibile, come
analogia fra due scene, fra due personaggi, ma anche come contrasto tra gli stessi… nessuno di questi significati
soddisfa pienamente le sue esigenze, la sovrimpressione è e rimane ambigua, chiama un lavoro interpretativo infinito,
modifica il rapporto tra linguaggio e mondo e mette in gioco il lavoro dello spettatore sul testo.”
5
In questo significativo commento risulta ben delineata la posizione di Bernardi riguardo la retorica
del cinema: diversamente dalla linguistica, soprattutto strutturalista, derivata da De Saussure, che si
propone di individuare le “invarianti” di un testo, e nello specifico, ad esempio, i corrispondenti
cinematografici dei “fonemi”
6
e la loro organizzazione in una sintassi universalmente e
invariabilmente riconosciuta, la Retorica sprofonda nella semantica di un linguaggio, s’interessa del
“significato” e in particolar modo del “senso” delle parole o, nella fattispecie, delle immagini e del
loro modo di correlarsi, sovrapporsi, organizzarsi in figure produttrici di un significato sui generis,
mai letterale, appropriato e inappropriato allo stesso tempo e, dunque, proprio in virtù di questo,
capace di gonfiare ed espandere sempre più i significati disidratati delle tante venerande tradizioni
3
culturali, mostrandone, al contempo, la natura convenzionale, non ontologica, di tali
categorizzazioni proclamate fisse ed immutabili ed arricchendole, “aprendole”, appunto ad un
ulteriorità di senso, non riducibile alla pura comunicazione razionale, priva di emozioni, di un
messaggio letterale ad un destinatario del tutto neutro, come vorrebbe la Linguistica.
7
Così, è la possibilità di conoscenza permessa dalle figure del linguaggio, e non certo l’abbellimento
tramite orpelli stilistici, che interessa alla Retorica; possibilità non possesso definitivo ed esclusivo:
si tratta infatti più di un “sentore di senso” che di un senso definito e compiuto. Siamo, cioè, nel
campo del pre-categoriale, dei “primitivi semiotici”
8
o dell’”iconismo primario”,
9
direbbe
Umberto Eco, dell’indistinto fluire di sensorialità diverse eppure affini, originatesi da un’unica
fonte, la coscienza, e capaci di dialogare le une con le altre, costruendo le rispettive “grammatiche”
l’una addosso all’altra o, meglio, l’una tramite l’altra . Tale condizione pre-categoriale, tipica del
flusso di coscienza umano, è la ragion d’essere, la condizione ontologica che rende possibile il
costituirsi delle categorie stesse quali essiccazioni fossili di possibilità infinite. Ma come i fossili
evocano, pur nella loro geometrica, scheletrica struttura, un lontanissimo lussureggiare di vita, così
le categorie ammiccano costantemente, pur nella perentorietà e nella freddezza della loro
architettura concettuale, ai bassi e caldi fondali popolati da colorate, informi emozioni ed istinti da
cui, mai dimentiche, hanno tratto origine. Infatti è proprio nell’estremizzazione dei processi analitici
di rarefazione del significato originario che ci accorgiamo dell’impossibilità di giungere a singoli,
univocamente determinati, elementi del linguaggio. Allora, andando sempre più indietro nella
genealogia di una categoria non possiamo non accorgerci che alla base di un concetto c’è sempre
un’analogia e, precisamente un raggruppare sotto uno stesso nome un’ insieme di caratteristiche
“simili” , dato che, se fossero uguali si tratterebbe d’identità con se stessa e, dunque non potremmo
conoscere nulla. La Conoscenza presuppone una divisione un distacco tra soggetto e oggetto o,
almeno la convenzione di esso. L’essere umano vive nell’incredibile paradosso di “sentire” la
profonda unità dell’essere, ma di “conoscere” solo la sua frammentazione. La Retorica ci aiuta
proprio, non a suturare la ferita dell’ “esserci”, ma almeno a vederne i due lembi come due parti,
appunto, della stessa lesione. Inoltre se quello che ci interessa è la possibilità di senso allora,
sostiene Bernardi, non possiamo esimerci dall’ indagare verso chi o cosa è indirizzata questa
“apertura”, che è sempre anche uno “sradicare”.
Ed è qui che avviene l’incontro più fecondo con la Semiotica, (condividendo, da parte nostra, la
posizione di Eco, in “Kant e l’Ornitorinco”, relativa al non occuparsi dei minimali processi della
“scatola nera”, campo d’indagine elettivo delle scienze cognitive
10
), sul piano, cioè, della
“Pragmatica” e non, come si sostiene, su quello dell’individuazione asettica e rigida di codici, tra
l’altro poi sempre clamorosamente smentiti dalla pratica empirica del cinema, macchina estetizzante
senza un’ estetica definita, linguaggio che divora i suoi stessi codici, pratica informe che vive di
mille espedienti e mille altri ne crea, pur di sopravvivere. La Pragmatica concerne, infatti, gli
orizzonti della comunicazione con un forte accenno ai protagonisti della medesima, dai produttori ai
fruitori, comprese tutte le figure intermedie. Non è un caso allora il grande interesse dei pragmatici
per la problematica metaforica, da sempre grande campo d’indagine della retorica dall’antichità ad
oggi, e ciò in virtù delle straordinarie sospensioni di senso, che sono in realtà delle aperture a
possibilità di senso sospese, appunto, sopra la letteralità dell’espressione, che i processi metaforici
permettono. La Pragmatica e la Retorica, in conclusione non temono di sporcarsi le mani
affondandole nel terreno lagunoso, dalla geografia incerta e mutevole, dell’ “epifania” della
coscienza, parafrasando Joyce. Anzi proprio di esso fanno il loro campo privilegiato d’indagine,
cercando inoltre di trarne un prontuario degli aspetti più empirici e meno formalizzabili, ma forse
proprio per questo più importanti ed interessanti, della comunicazione umana. Per concludere
questa rapida esposizione del campo d’indagine e della metodologia della Retorica non possiamo
certo tralasciare i suoi fondamentali legami con l’Estetica, disciplina che già nell’etimologia greca,
αίσθησις,
rivela il suo profondo e originario legame con la sensazione, intesa nella sua accezione
più larga, non solo percezione del “bello” o del “brutto”, a seconda dei punti di vista.
4
Ma la differenza essenziale con l’Estetica (che del resto nel corso della sua evoluzione si è dispersa
in così tanti rivoli ed ha abbracciato così tante cose, che ad un certo punto si è dovuto per forza
affrontare il tormentoso problema di quale fosse, in effetti, l’oggetto dell’Estetica) consiste nel fatto
che la Retorica moderna rimane, pur sempre, una disciplina descrittiva non normativa; ha come
oggetto e come fine il “vissuto”, per così dire, della comunicazione, l’ “enciclopedia” anziché il
“dizionario”, per dirla con Eco che, del resto, ha usato tale dicotomia per indicare il “vissuto” della
metafora,
11
elemento principe della Retorica e forse vero motore segreto di ogni linguaggio se,
come sostiene Bernardi: “Roland Barthes ha osservato che non esiste una scrittura priva di figure,
di tropi, una «scrittura di grado zero» è solo un’ ipotesi del tutto teorica, che serve però a misurare il
valore figurativo di tutte le altre scritture.”
12
L’Estetica, al contrario, cerca di rintracciare, nel “testo artistico” delle forme , delle peculiarità che
lo caratterizzino come “comunicazione artistica” e, nel far questo, pur prestando tutta la dovuta
attenzione e assegnando la dovuta importanza, all’elemento inatteso, all’ “improbabile” (Sorlin),
alla ridondanza o all’ellissi dell’atto comunicativo, al di più di senso, in definitiva, che il fenomeno
artistico comporta, nonostante ciò tende, pur sempre, alla costruzione di una teoria estetica generale
a cui i singoli fenomeni artistici vanno ricondotti, anche con tutte le recalcitrazioni del caso. A tal
proposito, Bernardi annota:
“Ma se le interpretazioni possibili sono innumerevoli, in relazione all’interprete ed al metodo, allora perché la forma, la
struttura dell’opera viene considerata come un dato oggettivo? Dovremmo, una buona volta, abbandonare il miraggio
della forma e della struttura come dati oggettivi; da un punto di vista più scientifico dovremmo considerare la forma del
testo come un’ entità non fissa, ma al contrario mutevole, aperta, una forma che viene continuamente ridefinita e
ricostruita dal lettore, dallo spettatore, dall’analista. [Iser e la struttura d’appello del testo, n.d.r.] La serie di visioni
possibili determina la serie dei sensi possibili, ma anche la serie delle forme possibili del testo, perchè uno spettatore
metterà l’accento su una particolare simmetria tra due punti e un altro, a distanza temporale oppure spaziale, non lo
noterà nemmeno, e segnalerà invece una certa dissimmetria fra altre parti del discorso. La forma si costituisce in sede di
analisi del testo.”
13
Comunque se torniamo al significato più vero e profondo dell’ Estetica, cioè alla sua etimologia
greca, αίσθησις, sensazione e dunque dato iniziale del processo conoscitivo, ci risulta chiaro che
l’oggetto di essa è una riflessione sulla possibilità e sulle potenzialità della percezione stessa, dalle
sue primitive organizzazioni assai vicine all’informe, fino alla sua realizzazione più elaborata e
simbolica, propria dell’attività artistica. Su questo piano la Retorica e l’ Estetica si trovano assai
vicine, individuando nell’ Arte un’esperienza conoscitiva e non solo un’esperienza del bello.
14
E la comunicazione artistica per eccellenza in cui l’ “estetico” (la ricerca di una forma “bella”) e il
“conoscitivo” (l’apertura, la richiesta, l’ “appello” di senso), si fondono, sono la stessa cosa, è
l’esperienza della visione filmica che si manifesta:
“come un viaggio che parte dagli schemi concettuali, dal film come discorso, e se ne allontana solo per ritornare.
Gli schemi e i modelli analitici sono necessari, certo, indispensabili, ma non come fini, piuttosto come strumenti, per
definire e dare un nome all’esperienza della visione. E l’esperienza della visione, a sua volta riapre gli schemi analitici,
li spezza, li allarga, per far rientrare ciò che di nuovo ha rivelato. E se l’analisi linguistica si rivolge al discorso filmico,
la ricerca estetica si rivolge agli aspetti silenziosi del film, alla disseminazione del senso che, come dicevo, è l’altra
faccia del loro significare, del loro raccontare.”
15
II.
.
[ p. 1
1
] [INDICE]
Analisi del “Processo della Visione” come processo essenzialmente metaforico, che organizza e
connette gerarchicamente (almeno nella cultura occidentale) l’ampio orizzonte dei processi
5
percettivi, i quali si mostrano costituirsi, definirsi, “evocarsi” gli uni dagli altri in una sostanziale
unità e corrispondenza delle varie modalità percettive:
II a. Natura e Cultura nell’Esperienza della Visione
II b. Gerarchie dei Sensi e “Culture Altre”: Natura e Cultura nell’Esperienza dell’Immagine e del
Suono
II c. Natura e Cultura nell’Esperienza della Parola.
II d. Il Ritmo, la Musica e la Sintassi-Semantica Originaria.
II e. Immagine Sonora e Suono Visivo.
II f. La Transmodalità nel Fumetto e nel Cinema.
II g. I Processi Metaforici [INDICE]
II a. Natura e Cultura nell’Esperienza della Visione
L’ esperienza della visione è, dunque, strutturalmente ambigua essendo infatti il luogo in cui la
coscienza, intenzionando gli oggetti, li rende percepibili e nello stesso tempo intelligibili, nella
modalità sensoriale-intellettiva della visione: è ovvio, ormai, che vediamo con il cervello e che gli
occhi paradossalmente sono ciechi, abbagliati da un “troppo vedere”, da un troppo assorbire
l’enormità del visibile, senza la necessaria selettività operata, appunto, dal cervello sul materiale
percepito, selettività che, circoscrivendo ed inserendo tale materiale nell’appropriato contesto, lo
rende pertanto “riconoscibile”, cioè effettivamente “visibile”. Le evidenze cliniche dei pazienti con
lesioni in diverse zone cerebrale e i corrispondenti problemi e deficit visivi, salvo restando
l’integrità degli occhi, testimoniano continuamente, se mai fosse necessario, questa realtà.
Non era forse lo stesso Kafka, come Bernardi ricorda, che sosteneva: “per vedere bene occorre
chiudere gli occhi”?
16
(“Eyes Wide Shout”, Kubrick docet!) o, ancora, “il cinema mi impedisce di
guardare”?
17
[Colloqui con Janouch, Kafka, Mondadori, Milano, 1972, p. 1126.]
Queste frasi, apparentemente incomprensibili, esprimono in un’eccellente forma aforistica tutto il
“Paradosso della Visione”, il suo essere costantemente in mutevole ed instabile equilibrio tra il
“vedere” e il “guardare”, o, se si preferisce tra l’ “osservazione” e l’ “estasi”, tra l’ “occhio
clinico” e lo “stupore” (cfr. Zolla e l’indispensabile permanenza, se vogliamo rimanere “umani”,
dello stupore infantile). In effetti l’esperienza della visione oscilla continuamente tra la pura datità
fenomenica dell’impressione retinica (basta osservare lo sguardo vivo eppure cieco dei neonati: un
guardare “puro”, come non riusciremmo più nemmeno a immaginare, senza alcuna categoria
interpretativa o, al massimo, al suo primordiale, segreto incipit), e l’ incessante attività di
elaborazione secondaria dei dati sensoriali in “schemi”, “figure”, “categorie geometriche”, da
parte dell’attività analitica e sintetica della mente umana che, nell’orizzonte vastissimo della
visione, ritaglia e divide elementi minimi per poi ricomporli in unità più grandi e facilmente
riconoscibili. Il “vedere” rispecchia il momento razionale dell’analisi e della sintesi (si dice infatti:
“vedere il pericolo”), mentre il “guardare”
18
il momento estatico, quell’errare vagabondo dello
sguardo senza una meta precisa, ora attratto da un paesaggio, ora perso in un volto, ora rotolato
lontano lungo una via; lo sguardo di un allucinato, di un sognatore distratto, di un innamorato, di un
fumatore d’oppio baudeleiriano, del flâneur perso nella sua rèverie lungo le strade brulicanti della
Parigi di fin de siècle di Benjamin, in una parola lo sguardo di uno spettatore del Cinematografo
delle origini, inconsapevole cavia di un esperimento gigantesco e senza precedenti, cui l’umanità
sottoponeva se stessa: il ritorno alla ribalta dopo secoli di affinamento estenuante e di predominio
della verbalità, sia orale che scritta, del regno dell’ “Immagine”, quasi fosse il ritorno di un rimosso
pericoloso, di una divinità deposta ora in cerca di rivincita, che con le armi possenti e subliminali
del linguaggio iconico sovvertisse nel campo delle arti visive, al pari dello spauracchio terribile e
affascinante della “inaudita parola metaforica” nel linguaggio naturale e letterario, l’ordine
6
l’orizzonte di senso in cui da sempre stiamo e che ci determina, sia per differenziarci dalle altre
culture, e comprendere così cosa ci sia di veramente originario e comune nei processi in questione,
sia, in ultimo, per introdurre la problematica inerente alla natura più profonda della visione, cioè al
suo essere essenzialmente un processo metaforico, che ha senso e si definisce solo in relazione alle
altre modalità sensoriali, con cui concorre, in una sorta di trasposizione reciproca e trans-modale
delle rispettive “grammatiche”, a costruire la fittissima trama del tessuto pre-categoriale, su cui
vengono misurate e accuratamente ritagliate tutte quelle geometriche ed univoche, nonché
rassicuranti ancore, che sono le “Categorie”, con cui dal tempo dei Greci misuriamo, organizziamo
e controlliamo quello strano mostro che chiamiamo Realtà.
Fin dalla “camera ottica” [Figura 1-2] di Leonardo per giungere alle più complete teorizzazioni e
realizzazioni della prospettiva rinascimentale,
21
[Figura 3a-e] lo sforzo gigantesco degli studiosi
della visione non era stato, paradossalmente, l’indagine profonda dei meccanismi fisici e fisiologici
della luce e dell’apparato visivo umano, cosa di là da venire nei secoli futuri (ai suoi tempi
Leonardo era il solo ad aver capito che era la luce a permettere all’occhio di “vedere”, penetrando
in esso e non il contrario, come sostenevano i suoi contemporanei, quasi che l’occhio fosse un
proiettore che illuminasse l’oggetto da “vedere” rendendolo così visibile), ma, piuttosto, un vasto,
complesso ed esaustivo “Ordinamento della Visione”, che oltre, ovviamente, a organizzare il
“visibile” in forme “chiare e distinte” (come avrebbe detto Cartesio) per rendere il più
immediatamente e facilmente accessibile il materiale figurativo da parte di tutti, avesse avuto la
funzione più sottile, segreta e fondamentale, di dettare le “Regole della Buona Visione”: ossia di
stabilire, normativamente, che cosa fosse valso la pena di rappresentare nelle varie arti figurative, il
“come” rappresentarlo, il suo “significato” all’interno di una determinata cultura e tradizione, ma
soprattutto di stabilire il “senso” ultimo, esistenziale e “conoscitivo” insieme, dell’atto stesso della
visione per noi esseri umani.
Lo scopo, dunque, squisitamente filosofico, era certamente non solo quello di fornire le più efficaci
tecniche per la migliore resa dell’illusione di realtà, verso cui l’arte occidentale procedeva spedita
e a gran passi (processo culminato nell’ invenzione della lastra fotografica e poi del cinema ed, ora,
concluso e in qualche modo riaperto dall’algoritmo della visione, dall’immagine virtuale), ma anche
quello di definire l’ “essenza” del “reale” sulla base dell’ “essenza” del “visuale”.
Infatti l’occhio non ci svelava solo il movimento invisibile dell’animo (“L’occhio, che si dice
finestra dell’anima, è la principale via donde il comune senso [ciò che unisce e organizza le varie
impressioni sensoriali] può più copiosamente e magnificamente considerare le infinite opere di
natura e l’orecchio è il secondo, il quale si fa nobile per le cose raccontate, le quali ha veduto
l’occhio.”
22
Così sosteneva Leonardo), ma anche il movimento visibile del reale, che pur sotto le
spoglie di un caotico flusso informe di luci ed ombre, colori e sfumature, racchiudeva, per chi lo
sapeva cogliere e di conseguenza rappresentare, tutto un insieme di direttive geometrico-spaziali
ben precise, di punti di vista privilegiati se non esclusivi, di ordinamento appunto degli elementi
visivi in rigide grammatiche dei colori, dei simboli e delle forme, che non costituivano, tutte
insieme, solo delle modalità di costruzione di un buon quadro, ma soprattutto ed in maniera non del
tutto cosciente, delle modalità di conoscenza della realtà, di configurazione della realtà stessa.
23
Si trattava di un’educazione dello sguardo atta ad estrapolare nel gran caledoiscopio del visibile,
certi elementi costanti che garantissero una “sostanza” allo sguardo stesso, impedendogli di perdersi
nel puro fenomenico visivo, privo di senso e di significato; si trattava, in una sola espressione, di
trovare nel magma dell’ esperienza visuale delle “Categorie della Visione”, al pari di quelle logico-
concettuali che organizzavano, di fatto, il magma del linguaggio naturale. Ed è a questo punto che,
ancora una volta in Occidente, dopo la grande stagione della filosofia greca
24
a fondamento della
nostre civiltà, accadde un evento epocale, destinato a segnare i secoli successivi: la possente spinta
logico-razionale, mai sopita in Occidente, torna a farsi sentire, nel pieno del ‘400, con una decisa ed
impressionante virata dal piano delle parole al piano delle immagini, quasi che la cultura alta del
tempo avesse oscuramente avvertito che, per liberarsi dai labirinti e dalle paludi del formalismo fine
a se stesso e per giungere a nuove esperienze e conoscenze del reale, fosse strettamente necessario
8
costituito, tradizionale e addomesticato dello sguardo istituzionalizzato. Eppure quanto poco docile,
ancora oggi, è lo “Sguardo”, questo primitivo contatto con la realtà, che anche in un’epoca di
simulazione, contraffazione e addomesticamento, per saturazione, della Visione, conserva tuttavia,
in chi lo difende con perseveranza, tutto il potere eversivo di un esperienza tra il sensoriale e il
simbolico (tra i cineasti contemporanei, forse Lynch risulta quello che più vomiti addosso allo
spettatore tutto lo straordinario potere perturbante delle immagini, potere insieme sia emotivo che
conoscitivo, quasi a destarci con violenza, come un tempo riusciva magnificamente a Pasolini, dal
torpore pericolosissimo dell’immagine indifferente, assuefatta e asservita, tecnicamente
professionale, esteticamente gradevole, emotivamente piatta e neutra o, al contrario, eccessiva e
violenta su misura, perfettamente adatta ad un veloce sgorgo emotivo per menti poco propense alla
lucidità e alla riflessione). E il prepotente ritorno dell’esperienza visiva nella centralità della vita
quotidiana (ruolo che prenderà sempre più campo nel corso del secolo scorso fino a prefigurarsi,
con le icone informatiche, nella forma di una nuova alfabetizzazione), costringerà a fare di nuovo i
conti con ciò che ai tempi di Leonardo era solo una ovvietà e cioè la simbiosi perfetta tra visione e
conoscenza, tanto è vero che nessuna delle straordinarie macchine di Leonardo e, ancor meno,
nessuna delle sue teorie anatomiche, geologiche, pittoriche, architettoniche, ottiche, idrauliche,
astronomiche e geometriche sarebbero state non solo concepibili, tanto l’ “immagine mentale” è
fondante per esse, come nei moderni “modelli mentali” delle scienze, ma neanche rappresentabili e
dunque analizzabili (quanto la moderna grafica anatomica computerizzata deve alle incredibili
tavole anatomiche [Figura 5b] di Leonardo?). Che l’esperienza della visione costituisse il fulcro
attorno al quale si strutturassero, in qualche forma gerarchica, sempre influenzata dalle culture,
dalla storia e dalle latitudini diverse, tutte le altre modalità percettive sì da costituire in un’unità il
più possibile coerente ed omogenea, il continuum informe percettivo era, almeno in area
occidentale, un dato di fatto riconosciuto da tempo: che cosa sono infatti, in Kant le “Forme a
priori dello Spazio e del Tempo”, le condizioni di sperimentabilità scientifica e falsificazionista
(basti pensare alla fisica galileiana e newtoniana, assai note a Kant), se non, anche, le coordinate
della visione, una visione certamente non statica ma dinamica, in continua messa a fuoco da parte di
una coscienza che non può in alcun modo prescindere da esse nel suo processo di elaborazione dei
dati sensibili, pena la caduta nel misticismo dell’ “oggetto in sé”? Dunque la coscienza
intenzionando l’oggetto lo fa letteralmente apparire, fa sì che acquisisca una forma e che si
differenzi da altre forme.
A questo punto ci si chiederà quanto nell’ apparire dell’immagine vi sia di “costruzione” da parte
della soggettività della coscienza e quanto invece di “materia bruta”, di ontologicamente irriducibile
a quell’ “ente intramondano”, che è l’uomo o, in altre parole, quanto rimane di ciò che le cose sono
in se stesse, anche senza di noi che le guardiamo. Il problema ovviamente è enorme ed abbraccia
tutta l’intera storia della filosofia, e più che tentare ad ogni costo di ridurlo ad un opzione piuttosto
che ad un'altra, quasi che i processi più fondanti della realtà dovessero e potessero davvero ridursi
banalmente ad un misero optare binario, credo sia molto più proficuo “descrivere”
fenomenologicamente la complessità della situazione paradossale dell’esistenza umana, di un ente
che è al contempo soggetto ed oggetto di conoscenza e la cui conoscenza è, al contempo un
ritrovare e uno scoprire, un riconoscere e uno stupirsi. Cercando, in tal modo, di guardare noi stessi,
e ciò che ci circonda, “in medias res”,
19
senza mai dimenticare, cioè, che non possiamo osservare
noi stessi mentre osserviamo e che ogni vedere, anche il più apparentemente neutro è sempre il
vedere di un occhio, quand’anche meccanico o elettronico, ma pur sempre di un occhio progettato
da un altro occhio, quello umano e che, in definitiva, se anche fosse possibile lo “sguardo di Dio”,
sarebbe comunque quello di un cieco demente e dimentico della propria onniscienza, così come il
povero “Funes”, dalla memoria ipertrofica ed illimitata, condannato alla perdita di sé, dello
straordinario racconto di Borges. Il processo della visione è così sempre un avvenimento ibrido,
sporco, e necessita, per capirlo, di sporcarsi le mani, di mettersi in gioco. Ma, prima di entrare nello
specifico, è interessante richiamare all’attenzione la struttura gerarchica che in Occidente (a partire
dalla sua origine nel mondo greco
20
) hanno assunto le varie modalità percettive, sia per capire
7
abbandonare, per il momento, la ricerca logora sulle parole
25
e gettarsi a capofitto nella nuova e
feconda sfida dell’arti e delle tecniche, regni da sempre del disegno e del progetto, di quella sorta di
“immagine mentale” pre-categoriale, pre-cognitiva, ma che risulta essere la condizione necessaria
di ogni categorizzazione successiva, in quanto sintesi d’ immaginazione e dato esperenziale.
Riscoprendo, così, l’enorme funzione euristica dei “modelli metaforici”,
26
modelli visivi e
immaginativi della conoscenza, sintesi di misurazioni geometrico-matematiche e ipotesi esplicative,
come era stato per la grande cartografia greca,
27
[Figura 4a-c] molto più avanti nella
rappresentazione grafica e “mentale” del mondo, di quanto lo furono i secoli successivi. E
Leonardo, nel Rinascimento, diviene il campione di questa nuova pratica conoscitiva. Nella sua
analisi delle procedure creative e cognitive di Leonardo, Martin Kemp, a proposito dei suoi
disegni,
28
[Figura 5a-b] sottolinea la loro straordinarietà e novità:
“Si tratta di creazioni davvero eccezionali. Nessuno dei suoi precedessori, o dei suoi contemporanei, ha prodotto nulla
di comparabile per varietà, intelligenza speculativa e intensità visiva. Né conosciamo nessuno cui lo spossa paragonare
nei secoli successivi. Molti dei suoi «disegni» sono accompagnate da didascalie, così come i suoi testi scritti sono
provvisti di illustrazioni. Leonardo scrive in modo singolare e straordinario, sebbene la sua comprensione del mondo
naturale sia prevalentemente di tipo visivo. Egli è un supremo «visualizzatore», un maestro nella manipolazione della
«scultura» mentale, e quasi tutto ciò che scrive è in ultima analisi basato sull’osservazione e sulla rappresentazione
cerebrale. È sintomatico, per quanto riguarda la sua immaginazione visiva,che egli sia in grado di lavorare su di una
geometria solida attraverso la gestione mentale di modelli spaziali di tipo «scultoreo». In compenso la sua aritmetica è
piuttosto mediocre, privo com’è di una solida conoscenza del linguaggio simbolico dell’algebra. Se non può «vederlo»,
Leonardo non è in grado di risolvere un problema, o meglio, neanche vale la pena farlo.”
29
E riguardo la centralità della “visione”
30
per l’attività conoscitiva, nel pensiero e nella pratica di
Leonardo, così come nell’ambito della cultura quattrocentesca, in cui viene recuperata e
notevolmente approfondita la tradizione platonico-aristotelica,
31
Kemp è alquanto esplicito:
“ L’unica fonte di conoscenza pienamente valida è, per Leonardo, l’osservazione delle cose e dei fenomeni reali.
E nessuno li ha mai osservati con maggiore intensità né li ha rappresentati con maggiore originalità di quanto abbia fatto
lui. Difatti, egli non si limita al semplice guardare, come se l’occhio fosse un apparecchio fotografico. La nozione
leonardesca di ciò che è «da vedere» abbraccia il doppio senso del verbo – ossia «guardare» e «comprendere».
Quest’ultima accezione caratterizza ad esempio l’enunciato «posso vedere la logica di ciò che stai dicendo».
Il particolare obiettivo di Leonardo, ossia l’atto del vedere come atto del «comprendere», può essere raggiunto solo
attraverso un’analisi della visione stessa e, più in generale, un’analisi del funzionamento della mente. L’occhio è lo
strumento più importante dei cinque sensi – una tesi tradizionale, questa, sostenuta già da Platone e da Aristotele.
L’udito, il tatto, il gusto e l’olfatto sono ritenuti di gran lunga inferiori. L’occhio è la matrice analitica di ogni ricerca
visiva. […]La concezione leonardesca del «vedere» come analisi, nonché la sua concezione della rappresentazione
come infinitamente varia, sono in parte frutto della sua formazione all’interno della tradizione artistica fiorentina.
Dato il sistema di prospettiva lineare ideato da Filippo Brunelleschi all’inizio del Quattrocento, l’arte fiorentina opta per
il principio secondo cui il pittore deve utilizzare delle regole con «radici nella natura», per inventare nuove ambientazioni
secondo principi sistematici e razionali.”
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Nella tradizione occidentale, dunque, l’atto del vedere è, fin dall’antichità, considerato il modo
primario di dare forma al mondo, quello che fornisce la griglia, la cornice entro cui inserire, in una
struttura gerarchica, tutti gli elementi di senso forniti dalle altre modalità sensoriali (una certa
importanza ebbe, nella cultura greca, anche la sfera sensoriale del “tatto”,
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come ricorda Jacques
Brunschwig in Il Sapere Greco), con le loro rispettive grammatiche interagenti.
E nella “storia della visione occidentale” e della genesi e dello sviluppo delle sue peculiari tecniche
di riproduzione della realtà, o meglio, d’ “illusione” di essa, il cinema si colloca come ultimo, e già
superato, stadio di estremizzazione di tale tendenza. Come ricorda, acutamente, Bernardi:
“Secondo Jean Louis Baudry e Jean Pierre Oudart, il cinema è erede in tutto e per tutto, nel bene come nel male, della
visione prospettica elaborata dal Quattrocento italiano. Però, come erede della rappresentazione prospettica e realistica,
il cinema eredita anche tutte le forti ipoteche che gravano su questa. Come ha osservato Panofsky, nella visione
prospettica è implicita una fondamentale ambivalenza: da una parte un profondo senso della realtà distanziante e
obiettivante e dall’altra parte un’espressione della «volontà di potenza dell’uomo» che tende ad impadronirsi
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mentalmente del mondo e a collocarsi al centro dell’ universo. Un nuovo sogno tolemaico. Questa radicale
ambivalenza, tra realismo e senso di onnipotenza, secondo Baudry si trasmette direttamente al cinema, al suo mito
della riproduzione obiettiva del mondo reale. La macchina da presa da una parte funziona come macchina prospettica
che organizza la visione in modo logico-scientifico, ma d’altra parte, e proprio per lo stesso motivo, diventa lo
strumento di un’ illusione di realtà e di un sogno onnipotente, per cui noi siamo condotti a crederci al centro del mondo
stesso. La rappresentazione prospettica organizza la visione intorno ad un centro, che svolge la funzione di soggetto
della visione, e l’osservatore, lo spettatore s’identifica con tale centro. Questo effetto ideologico prodotto dalla
macchina viene a costituire una specie di «soggetto trascendentale» onnipresente, onnisciente, onnipotente. Per Baudry,
il cinema riproduce il mito della caverna platonica, e lo spettatore si trova ad essere come lo schiavo incatenato del
mito, che crede di vedere la realtà mentre non vede che pallide ombre dell’idee. Secondo Jean Pierre Oudart, inoltre, il
dispositivo cinematografico genera, oltre che un soggetto trascendentale, anche un «effetto di reale» che, collocando il
soggetto-spettatore all’interno della scena che viene rappresentata, lo conduce a formulare un «giudizio di esistenza»
circa le cose che vede, in sostanza a considerarle reali in tutto e per tutto. Le immagini , segnatamente le immagini
prospettiche e al massimo grado l’immagine cinematografica, sarebbero il trionfo dell’illusione, un tempo chiamata
potenza demoniaca, ora più semplicemente alienazione.”
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In conclusione, quindi, il cinema si colloca, non a caso, in una tradizione e in un contesto storico-
culturale ben precisi, in cui la “visione”, nei suoi due aspetti di “atto del vedere” e di
“rappresentazione”,
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costituisce un elemento gerarchico di strutturazione della realtà. Non così,
però, in tutte le altre tradizioni culturali (si veda, ad esempio, la tradizione figurativa in India, Cina
e Giappone),
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in cui emergono come poli d’attrazione e di gerarchizzazione, altre “grammatiche”
sensoriali, a ricordarci sempre la natura, in parte di costruzione, del “reale”. Ejzenstejn stesso,
come riporta Bernardi, notava che nella tecnica giapponese
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e cinese dell’ emakemono,
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[Figura 8a-f] ossia la pittura di paesaggio su rotolo, disposta orizzontalmente, la rappresentazione
visiva soggiace ad un principio di modulazione musicale
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e dunque temporale e non, piuttosto,
ad un' organizzazione spaziale verosimile, che riproduca in modo illusorio prospettico, la veduta
paesaggistica che si offre allo sguardo. Ejzenstejn, inoltre, per sottolineare la facilità della mente
umana di trasferire principi e grammatiche sensoriali da una modalità all’altra, presenta
l’emakemono come una sorta di “monologo interiore visivo”,
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istituendo un’esplicita analogia
con il famoso monologo interiore di Molly, dall’ “Ulisse” di Joyce:
“Ma come è costituita, si chiede Ejzenstejn, la pittura di paesaggio nell’emakemono? Si tratta di una composizione di
tipo musicale, un canone e una serie di variazioni elaborate su un numero molto esiguo di motivi, che si ripresentano in
composizioni sempre differenti. Lo si potrebbe paragonare, osserva ancora, alla tecnica di composizione del canone e
fuga di Bach. Questa forma di pittura è basata per Ejzenstejn, sulla ripresa continua di certi motivi figurativi,
sul«rintocco», sulla «ridondanza», sulla ricorrenza e sulla variazione, sulla relazione complessa tra «autonomia del
singolo elemento» ed «unità del tutto», su un flusso primordiale indifferenziato (il fiume [il soggetto del paesaggio], il
flusso di coscienza) da una parte, ed un ordine compositivo inderogabile (il canone) dall’altra. In definitiva, sul gioco
continuo di ordine e libertà, coercizione e autonomia,sulla relazione dialettica di elementi contrari e antitetici.”
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Ejzenstejn riconosce dunque nel “ritmo”, in un elemento peculiare della modalità uditiva, il
“senso” dell’ immagine, il quale è sempre evocativo, allusivo, rimandante ad altro, in una fuga
infinita del senso, cioè in una “apertura” al vissuto, alla dimensione metaforica dell’atto primordiale
del vedere, che si coagula in “significato”, appunto, proprio nel momento in cui dall’ “immagine” si
passa alla “rappresentazione”, dal “visibile” al “visto”, dalla possente instabilità e destabilizzazione
della metafora viva, alla rassicurante stabilità (e convenzionalità) del “categorizzato”, del
riconosciuto appropriato.
“ Per Ejzenstejn lo spettatore è come un attore che deve rivivere recitando internamente il suo film /dramma.
La rappresentazione da sola non è niente, è solo un groviglio insensato di oggetti, un montaggio di volti, di oggetti, un
mazzo di carte. Il suo senso nasce altrove, nello spettatore in cui l’opera si trascende e si realizza. L’opera, che è
sempre rappresentazione, tende sempre a uscire da se stessa, a oltrepassare i suoi limiti, in un movimento verso la vita
che viene definito “estatico”. Le figure immobili tendono al movimento, il bianco e il nero tende al colore, il muto tende
al suono, ma non basta,l’ultimo salto è quello verso lo spettatore.
Ejzenstejn ripete spesso come il fine della rappresentazione non sia la trasmissione di un significato, ma soprattutto la
produzione di senso, inteso come reviviscenza, o come esperienza di un fenomeno da parte dello spettatore. Il senso non
è per Ejzenstejn il contenuto, ovvero il significato della rappresentazione ma, al contrario, è proprio ciò che manca alla
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rappresentazione, ciò che la spinge costantemente verso l’impossibile uscita da se stessa, verso la ricreazione del
«vissuto». Nel cinema abbiamo sempre a che fare non con eventi, ma con rappresentazioni visive che sono dette, con
mirabile espressione: le ombre grigie degli eventi. Per questo è necessario che la dinamica, il conflitto, si sposti dal
piano del significato al piano del significante […] Occorre che la lotta tra gli uomini diventi una lotta fra le immagini
per essere non solo capita, ma anche rivissuta.
”
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Dunque, anche il “montaggio degli opposti”,
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figura stilistica fondamentale in Ejzenstejn,
nasce come trasposizione sul piano stilistico, del significante, dell’esperienza reale del conflitto
esistenziale, cioè del vissuto. E riguardo il nodo cruciale in questione, ossia la natura della visione
come processo metaforico, come costante sintesi in fieri delle diverse ma complementari
“grammatiche sensoriali” (un esempio significativo è la costante presenza, nel cinema giapponese,
di una sorta di trasposizione visiva della struttura delle liriche “haiku”, e ciò perché il particolare
sentimento giapponese verso la natura permea ogni aspetto della loro espressione artistica, dalla
poesia alla pittura
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al cinema
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), che costituiscono il fondo pre-categoriale (sia pur in qualche
modo, come vedremo più approfonditamente in seguito, influenzato dalle “culture”), da cui hanno
origine i concetti e dunque anche le categorie della percezione, i cosiddetti “percetti”, ossia ciò che
ogni singola cultura stabilisce come gli oggetti della percezione, le unità minime sensoriali (e
vedremo quale grado di relatività, proporzionale alla diversità o inconciliabilità delle culture,
nascondano i cosiddetti “universali della percezione”, sotto la loro apparente oggettività), così
Bernardi riepiloga, sintetizzando, la concezione attualissima dell’ “immagine” in Ejzenstejn:
“Come abbiamo visto quando Ejzenstejn parla di immagine cinematografica intende la sintesi mentale, una sintesi in
continuo divenire, tra ciò che abbiamo visto, ciò che stiamo vedendo e gli orizzonti di attese della nostra cultura e della
nostra predisposizione. Come nel modello musicale, in cui la melodia si forma solo nella memoria dell’ascoltatore,
questa sintesi nel corso della visione, viene continuamente aperta e continuamente ristrutturata. Come per Benjamin,
che coniava il termine di «immagini dialettiche», sintesi di presente e di passato, di memoria e di proiezione, così per
Ejzenstejn l’immagine è il prodotto, l’eventuale risultato, e non un elemento del film. […] Anche l’immagine di
Ejzenstejn è memoria e proiezione. Memoria nel senso di accumulo dei dati visivi-percettivi e proiezione nel senso di
uso dei modelli conoscitivi e dei modelli estetici già conosciuti dallo spettatore, quelli che Schmidt chiamerebbe oggi
gli «orizzonti d’attesa», orizzonti che il film continuamente chiama in causa e trasforma. L’immagine è il prodotto che,
come abbiamo visto, il film trascendendo se stesso, cerca di creare nella mente dello spettatore. È quindi il senso del
film, senso in quanto esperienza vissuta o sintesi di rappresentazione e di esperienza.”
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Ma come si costituisce in concreto questa “immagine” nella coscienza dello spettatore, in che modo
peculiare riesce a comunicare il suo senso? Ejzenstejn non ha dubbi: il senso non è qualcosa di
stabile, di uguale per tutti, di dato una volta per sempre, ma è, al contrario precario, foriero di
apertura e di ulteriorità, imprevedibile e relativo alle diverse coscienze o, meglio, ai diversi vissuti,
in continua evoluzione e mutamento, cioè in una sola espressione, essenzialmente metaforico:
“[...] il film non fa veder solo della cose, ma fa vedere anche se stesso , si dà a vedere come film, come sguardo in
movimento. […] Non è solo il «comportamento dell’oggetto» ma anche e soprattutto il «comportamento di chi guarda»
a fare il senso, a conferire carattere dinamico alla rappresentazione.[…] Per Ejzenstejn, l’opera è quindi sempre tesa in
un movimento che la spinge continuamente a portarsi dietro se stessa, a fare riferimento a se stessa in quanto opera; in
un processo di infinite metafore in cui, oltre a trattare il suo tema, tratta anche se stessa. Un continuo inarrestabile
autotrascendimento, una metafora della metafora.
Per questo la rappresentazione è costantemente un voler saltare oltre la rappresentazione stessa, verso il senso e verso lo
spettatore in cui l’opera solo può compiersi. […] La metafora funziona per lui come sipario di significanti, attraverso
cui è costretto continuamente a passare senza mai giungere alla stanza centrale. Ma esiste tale stanza centrale?
In realtà, come ha osservato Pietro Montani, se Ejzenstejn sfugge continuamente a ciò che vuol dire non è per
trasformismo o evasività del suo discorso, ma perché quello che egli vuol dire sfugge al linguaggio stesso. Spiegare il
mistero della genesi dell’opera d’arte è come spiegare ai bambini il mistero della loro nascita, cogliere il misterioso e
inattingibile punto in cui s’instaura nelle cose la qualità. Montani indica nel procedimento estatico, o epifanico
vagheggiato da Ejzenstejn, un movimento interno all’opera d’arte in generale che, pur legata al linguaggio e alla sua
natura essenzialmente figurale, cerca sempre di andare oltre il linguaggio stesso. Ogni linguaggio è costruito sul
principio della metafora, come notava Rousseau, e come ribadisce Ejzenstejn, e il linguaggio dell’arte è un infinito
movimento di uscita del linguaggio da se stesso, verso il vissuto.”
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