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[…] il rapporto con i fatti politici e storici, ubbidendo così a quella grande intuizione
nata nel 1961 con Salvatore Giuliano. Cinema e conoscenza della mafia si possono
aiutare vicendevolmente se trovano registi capaci di incidere in due ambiti
interdipendenti: la ricerca linguistica e l’indagine della realtà. L’indicazione di Francesco
Rosi – non limitata certo alla vicenda del noto bandito, ma determinante per altre
vicende oscure della nostra storia nei successivi film – è stata quella di orientare il
cinema ad acquisire una propria funzione, un’originalità di sguardo che altrove non
riusciva a maturare. In una società incapace e timorosa finanche di pronunciare il
termine mafia – e con questo di ammettere l’esistenza del fenomeno, tanto che
Salvatore Giuliano precede la costituzione della Commissione parlamentare antimafia –
il più importante film sul Sud del cinema italiano riusciva nell’intento di confessare ciò
che sembrava inconfessabile. […] Spezzando la tradizionale narrazione lineare Rosi evita
semplicistiche affermazioni sulla verità dei fatti e lasciava piuttosto allo spettatore il
compito di riconnettere fili dispersi, obbligando ad un lavoro in prima persona, ad
assumere i panni di chi fruga tra le pieghe della storia per rintracciarvi un significato.
Raramente i film sulla mafia hanno avuto l’impatto e l’importanza di Salvatore Giuliano.2
Per cercare inoltre di capire il quadro socio – politico entro il quale si sviluppa il
fenomeno della mafia, è parso opportuno analizzare un altro film di Rosi, Le mani sulla
città. Questo film, girato come un’inchiesta giornalistica, non è ispirato a fatti reali, ma,
come appare anche nella didascalia finale, ispirato alla realtà sociale e ambientale che
li produce. Un film dunque che nasce dagli ambienti e dalle situazioni, in grado di dare
uno sguardo all’Italia corrotta che permette lo sviluppo del fenomeno mafioso.
Sta di fatto che di mafia non si è occupato un solo genere cinematografico, anzi, se
ne sono occupati, si potrebbe dire, un po’ tutti i generi del cinema. La denuncia del
sopruso e della violenza si riesce ad estrapolare tanto dalla commedia, dalla farsa (che
fanno degli uomini d’onore «una similitudine da ridere»3 che in taluni casi «può
assumere connotazioni di assoluta serietà poiché negli stereotipi risiede l’insieme di
valori della collettività che li ha prodotti»),4 quanto dal western o dal gangster movie.
Si può affermare che la mafia sia divenuta immagine in tutti gli ambiti del
cinematografabile, attraversa generi quali: la denuncia, il poliziesco, la farsa, il comico,
la commedia, la ricostruzione storica, l’impegno civile, la sceneggiata e il western. Più
precisamente questo percorso, mette in relazione alcuni modi diversi di fare cinema, i
2
Michele Marangi, cit., p. 6 – 7.
3
Ivi, p. 8.
4
Ibidem
7
quali trovano diverse corrispondenze ma anche tante differenze. In questo quadro si
sviluppano i messaggi che queste opere divulgano, la denuncia di fatti e situazioni le
quali sembrano ormai essersi perpetuate in questo paese e altrove. Che si tratti di un
film girato con uno stile giornalistico o un cinema prettamente di fiction, lo strumento
resta egualmente efficace, anche se di gusto diverso.
È parso dunque opportuno presentare l’opera prima di Giuseppe Tornatore Il
camorrista, dove è molto particolare il punto di vista dello spettatore, il quale più
volte, a differenza dei film precedenti di Rosi, viene a coincidere con quello del
malvivente. Se Rosi cancella completamente questo tipo di rapporto identificativo
dello spettatore con l’eroe negativo, Tornatore ci porta invece a prendere parte della
psicologia di questo. Il film ripercorre le vicende che vedono implicato il famoso boss
della camorra Raffaele Cutolo.
Come accenno al cinema americano e ad un grande regista come Martin Scorsese, si
è scelto di analizzare il film Goodfellas, Quei bravi ragazzi. Un cinema, quello
americano, che spesso si è occupato di mafia attraverso i gangster movie, dando
addirittura con Il padrino di Francis Ford Coppola, i tratti tipici della rappresentazione
della mafia nel cinema. La trilogia de Il padrino di Coppola è probabilmente l’opera che
più di tutte fornisce della mafia l’immagine più nota, se non addirittura quella più
celebrata fino ad ora. Stampo della grande spettacolarità del fenomeno di cui
risentono tantissime altre opere, anche quelle talvolta ad essa più lontane.
La riprova di quanto il cinema abbia stabilito un rapporto con certi aspetti della cultura
mafiosa sta proprio nel gioco di rimandi e citazioni che intercorre tra i diversi film.
Basterebbe compilare un dizionario delle interpretazioni attoriali per scoprire alcune
costanti, tali da lasciare il dubbio che si siano create vere e proprie regole di
rappresentazione: boss dall’aspetto nobile interpretati da stranieri; caratteristi nel ruolo
di picciotti per diversi anni, con immutate coppole e baffi progressivamente imbiancati;
donne vedove di diversi mariti, e così via. E, nondimeno, anche il curriculum dei registi,
rintracciabile nella filmografia, mostra prese di posizione ferme e andamenti zigzaganti,
abituali frequentazioni in un genere e predilezione per certi ambienti.5
5
Ibidem
8
Si è scelto, in questa sede, di analizzare Quei Bravi ragazzi di Martin Scorsese, poiché
trova una certa corrispondenza in alcuni particolari dei precedenti film citati, anche
appartenendo per molti versi al genere del gangster movie più classico. Il film è tratto
dalla storia vera del gangster americano Henry Hill. Anche qui in chiave molto
romanzata, viene raccontato un fatto di cronaca reale, in cui Scorsese mostra le
spregevoli novità della “nuova mafia”, sottolineando il fatto che non si tratta di gente
che di mestiere spara immotivatamente, ma ne evidenzia come scopo quello di cercare
la propria fortuna nell’illegalità. Tutto nei registri del grande colossal americano.
Questo film gode anche di uno sguardo di stampo documentaristico senza rinunciare
alle critiche nei confronti della società di quel periodo.
Non si può parlare per assoluti nel descrivere opere di questo tipo, la stessa critica
ufficiale non è mai unanime nei giudizi. Talvolta gli stessi autori possono sembrare
contraddittori anche perché la materia da indagare è molto complessa ma soprattutto
difficile da indagare. Marangi e Rossi nella presentazione del loro testo concludono
così:
Tra le tante lenti utilizzabili per osservare la cultura della mafia quella del cinema ha in
sé un grande privilegio, data la grande quantità di opere presenti: la curiosità dello
sguardo. Non sempre […] è sufficiente ad un’effettiva conoscenza del nemico, né
tantomeno alla sua sconfitta. In ogni caso, con fenomeni di tal genere, è bene possedere
tutti gli strumenti del caso per non lasciare nulla d’intentato.6
6
Ibidem
9
CAPITOLO I
Salvatore Giuliano
Anno: 1961
Titolo: Salvatore Giuliano
Durata: 107
Origine: Italia
Colore: b/n
Genere: drammatico, poliziesco.
Specifiche tecniche: panoramica
Produzione:Franco Cristaldi e Lionello Santi per la Lux Vides-Galatea
Distribuzione: Lux Film – Ricordi Video, Vivivideo, Gruppo Editoriale
Bramante, Panarecord, L'Unità Video (Cinecittà, Classici del Cinema Italiano)
Vietato: minori di 14
Regia: Francesco Rosi
Attori: Frank Wolff (Gaspare Pisciotta), Salvo Randone (Presidente della Corte
d'Assise), Federico Zardi (Avvocato di Pisciotta), Pietro Cammarata (Salvatore
Giuliano), Nando Cicero (Un bandito), Giuseppe Teti (Giovane pastore),
Cosimo Torino (Frank Mannino), Giuseppe Calandra (Sottufficiale dei Carabinieri in
borghese), Pietro Franzone (Declamatore dell'inno separatista),
Renato Pinciroli (Pinciroli), Max Cartier (Francesco), Bruno Ukmar (Confidente),
Giovanni Gallina (Picciotto), Vincenzo Norvese (Picciotto),
Sennuccio Benelli (Giornalista), Ugo Torrente, Nino Sorgi.
Soggetto: Francesco Rosi, Suso Cecchi d'Amico, Enzo Provenzale, Franco Solinas.
Sceneggiatura: Francesco Rosi, Suso Cecchi d'Amico, Enzo Provenzale,
Franco Solinas.
Fotografia: Gianni Di Venanzo, Pasqualino De Santis (operatore), Erico Menczer
(assistente operatore).
Musiche: Piero Piccioni, Il canto "Inno dei lavoratori" è di F. Turati e Z. Mattei.
Montaggio: Mario Serandrei
Scenografia: Sergio Canevari, Carlo Egidi
Costumi: Marilù Carteny
Aiuto regia: Franco Indovina, Nando Cicero, Roberto Pariante (assistente).
Premi: Orso d’argento per la miglior regia al XII Festival di Berlino (1962); Nastro
d’argento del S.N.G.C. (1962), per la miglior regia (ex aequo con Le quattro giornate di
Napoli), musica e fotografia in bianco e nero; Grolle d’oro (1962) per la miglior regia;
premio stampa estera per il miglior film italiano del 1962; premio San Fedele 1962.
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1.1 Trama
Il cadavere del bandito Salvatore Giuliano viene trovato nel cortile di Castelvetrano il
5 luglio 1950. Le versioni ufficiali sostengono che sia stato ucciso in uno scontro a
fuoco coi carabinieri. A partire dal ritrovamento del corpo di Giuliano, il film ripercorre
il passato del bandito indagando sulla situazione della Sicilia e sugli sviluppi del caso
comprendendo anche il processo di Viterbo in merito alla strage di Portella della
Ginestra.
Alla fine della seconda guerra mondiale Salvatore Giuliano entra a far parte del
movimento separatista il quale è anche finanziato dai latifondisti mafiosi. Una volta
ottenuta l’autonomia regionale della Sicilia, i separatisti si sciolgono e Giuliano resta un
fuorilegge comune. Le elezioni del ’47 vedono la vittoria del blocco del popolo in
seguito alla quale i latifondisti approfittano del bandito Giuliano e dei suoi sottoposti
per creare un clima di terrore, che vede il suo apice nella strage di Portella della
Ginestra, la quale conta ben undici morti tra contadini e lavoratori riunitisi per
festeggiare il 1° maggio. In seguito a questo tragico avvenimento l’intervento statale si
fa più aspro, con forti repressioni che con l’appoggio di alcune organizzazioni mafiose
vedono la disfatta della banda Giuliano, fino alla morte dello stesso. Le dinamiche della
morte del bandito restano poco chiare, se inizialmente sono attribuite in via ufficiale ai
carabinieri in realtà risulta ucciso da Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano.
Durante il processo di Viterbo, emergono diverse connivenze tra Pisciotta, mafia e
forze dell’ordine. Durante il processo per la strage di Portella della Ginestra, Pisciotta
minaccia di dire tutta la verità sul caso e sulla fine di Giuliano ma viene avvelenato
mentre è detenuto nel carcere dell’Ucciardone di Palermo. A dieci anni dalla morte di
Giuliano viene assassinato il mafioso che fece da intermediario tra lo Stato e i
malviventi.
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1.2 Quadro di riferimento
Senza dubbio si può affermare che gli anni ’60, i quali danno i natali al film Salvatore
Giuliano, in Italia sono anni di un particolare fermento cinematografico e di
maturazione di nuovi movimenti culturali, strettamente legati alle vicende politiche e
sociali nazionali.
Da una parte la produzione cinematografica italiana di quel periodo è molto
diversificata e ricca d’una molteplicità di indirizzi e di scelte per certi versi addirittura
contrastanti. Questa, infatti, vede la contrapposizione di “colossi d’autore”, opere
molto prestigiose che risentono di un suggestivo ritorno al Neorealismo con i propri
elementi e temi caratteristici, a produzioni molto più distensive e disimpegnate.
Dall’altra parte in quegli anni si creano nuovi rapporti politici in cui si vede
chiaramente l’avvicinamento a ideologie fasciste da parte dei centristi, intenti a
mantenere saldo il proprio ruolo centrale di governo sul paese. In queste condizioni si
delinea un processo di rottura irreversibile derivante dal risveglio della coscienza
antifascista popolare e che, inevitabilmente, sfocerà in una nuova tendenza politica di
centro sinistra.
A questo quadro politico si associa la nascita di nuove forze sociali, derivate dallo
sviluppo industriale e dalle migrazioni interne, che in quegli anni cominciano ad
acquisire una propria identità e con le quali poi il centrosinistra dovrà fare i conti a
partire dal ’68.
Qui si colloca Salvatore Giuliano, in un contesto storico e sociale che si potrebbe
definire per certi versi ambiguo, magari limitato, ma sicuramente fertile e colmo di
riferimenti.