La verifica della messa alla prova
Ornella Lucente
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distinzione, nell‟ambito del diritto processuale, tra giustizia ordinaria e
giustizia minorile: il minore che commetteva un reato veniva
giudicato e punito alla stregua di un adulto.
In Italia il codice penale del 1930 introduce una serie di norme
specifiche per i minorenni: in tema di imputabilità prevede la
presunzione assoluta di non imputabilità fino ai quattordici anni (art.
97 c.p.), mentre prima il limite era di dieci. Per il minore di età
compresa fra i quattordici e i diciotto anni la capacità di intendere e di
volere, requisito imprescindibile ai fini dell‟imputabilità, deve essere
accertata di volta in volta (art. 98 c.p.): non essendo prevista, per
questa fascia di età, alcuna presunzione il soggetto sarà imputabile
solo ove l‟accertamento della capacità di intendere e di volere abbia
avuto esito positivo. L‟incapacità può essere causata da situazioni
patologiche di anormalità biologica o psichica o da “immaturità”,
(concetto elaborato successivamente dalla giurisprudenza). Infine per i
soggetti di maggiore età è prevista la presunzione assoluta di
imputabilità, in quanto la loro incapacità di intendere e di volere è
ricondotta a situazioni patologiche.
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Pochi anni dopo l‟entrata in vigore del codice penale, con R.D.L. n.
1404 del 20 luglio 1934 (convertito in L. n. 885/1935), venne
introdotto il “Tribunale per i Minorenni” .
Questo tribunale è istituito presso ogni sede di Corte d‟appello o di
sezione di Corte d‟appello ed è composto da due membri togati e due
onorari: i primi sono magistrati, (di cui uno, che svolge le funzioni di
presidente, della Corte d‟appello); i due membri onorari,
(necessariamente un uomo e una donna), sono esperti
alternativamente in biologia, psichiatria, antropologia criminale,
pedagogia, psicologia, sociologia; e devono aver compiuto il
trentesimo anno di età.
Il Tribunale per i minorenni ha competenza penale (giudica sui reati
commessi da persone che, al momento del fatto, non hanno compiuto i
diciotto anni di età), amministrativa (si occupa del disadattamento del
minore applicando misure “rieducative”) e civile (competenza molto
vasta nelle materie di cui al libro primo del codice civile).
L‟introduzione del Tribunale per i minorenni segna una svolta
decisiva verso la creazione del diritto penale minorile; nonostante ciò,
I primi tribunali per i minorenni risalgono alla metà dell’800 in alcuni Stati americani e ai primi
del ‘900 in Europa (Francia, Olanda e Germania).
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con un ritardo di oltre 80 anni rispetto alle pionieristiche esperienze
legislative di diversi Paesi stranieri, dobbiamo attendere l‟anno 1988
per poter assistere ad una regolamentazione vera e propria della
materia: anno in cui, con l‟emanazione del D.P.R. 22 settembre 1988,
n. 448 vengono introdotti nel nostro ordinamento, in seguito ad un
positivo spostamento dell‟attenzione dal fatto all‟autore del fatto,
istituti processuali fortemente innovativi, per reati rientranti nelle
ipotesi di perdono giudiziale, quando il reato o i reati possano
ricondursi ad un ciclo temporale di disadattamento sociale e si ravvisi
l‟opportunità di interventi di protezione e di sostegno del minore.
Prima d‟allora ve n‟erano stati di svariati tra disegni di legge, relazioni
e progetti di riforma penale nel campo della giustizia minorile, come
accadde nel 1976, nel 1979 e nel 1986, ma per motivi diversi non
videro mai la luce.
Di particolare rilevanza fu la “Relazione ministeriale al testo
preliminare sul procedimento penale a carico di imputati minorenni
del 1976”, nella quale si sottolineava l‟opportunità, nei casi in cui la
personalità del minore non fosse già strutturata in senso
delinquenziale e il reato ascritto non fosse di particolare gravità, di
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“cercare di risolvere la crisi del ragazzo con idonei provvedimenti di
sostegno e attendere, per pronunciarsi definitivamente in sede penale,
l‟esaurimento del periodo di esperimento e di sostegno per il minore”.
Piena legittimazione all‟introduzione dell‟istituto nel nostro sistema
giurisdizionale fu data dalla direttiva contenuta nell‟art. 3, lett. e),
legge delega n. 81 del 16 febbraio 1987 , che ricevette una sua prima
traduzione ad opera dell‟art. 24 del Prog. prel.
Quest‟ultimo articolo, peraltro, non mancò di essere oggetto di
critiche soprattutto concernenti la possibilità di applicare l‟istituto nei
confronti di qualsiasi tipo di reato, in seguito alle quali, durante la fase
di passaggio dal Progetto preliminare al Progetto definitivo, fu
previsto un prolungamento fino a tre anni del periodo massimo di
sospensione del processo, stabilendo così due differenti periodi in
relazione alla gravità del reato. Non mancò però chi sostenne che
quella diversa disciplina venne adottata per erigere un discrimine tra
reati di diversa gravità, snaturando la ratio stessa dell‟istituto.
Per un ulteriore approfondimento v. Cass., Sez. VI, 12 aprile 1994, Chiarolanza, secondo cui: in
materia di processo a carico di minorenni, la previsione dell‟estinzione del reato all'‟esito positivo
della prova, contenuta nell‟art. 29 D.P.R. 448/1988, manifestamente non si pone in contrasto nè
con l‟art. 76 Cost. (non essendo ravvisabile un eccesso di delega rispetto ai principi fissati nella l.
16 febbraio 1987, n. 81 e, segnatamente, nell‟art. 3, comma 1, lett. e) di detta legge), nè con l‟art. 3
Cost., non dando luogo ad alcuna ingiustificata disparità di trattamento riconducibile alla norma in
sè.
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La disciplina della sospensione del processo con messa alla prova è
contenuta negli artt. 28 e 29 D.P.R. 448/1988 e 27 D.ls. 28 luglio
1989, n. 272.
Tale istituto processuale, mutuato dal probation anglosassone (che a
differenza del nostro, è concepito sì come misura alternativa alla
detenzione, ma a seguito di una sentenza di condanna), è uno
strumento di c.d. diversion, poiché consiste nell‟adesione ad un
rigoroso progetto educativo (progetto di intervento) antecedente alla
sentenza, rivolto a valutare la personalità del minore in un non troppo
lungo arco di tempo (per evitare che la posizione processuale del
minore resti a lungo pendente e incorrere così nel rischio di una
stigmatizzazione penale), alla fine del quale il giudice verificherà se
sia opportuno continuare o meno il processo a carico dello stesso.
Peculiarità di tale strumento, volto ad agevolare la crescita e la
maturazione della personalità del minore in fieri e modellato tenendo
conto anche del reato commesso e della responsabilità del suo autore,
consiste nel fatto che - in caso di esito positivo - il reato si estingue e il
minore esce definitivamente dal circuito penale, evitando sia la
condanna che l‟esecuzione della pena detentiva. Ciò nella
consapevolezza che la detenzione non induce il reo al recupero
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sociale, (non si può considerare il processo come uno strumento
educativo), ma anzi può essa stessa costituire motivo di conferma
nella delinquenza e rappresenta in molti casi una sofferenza inflitta
inutilmente.
Si afferma che storicamente tale istituto risalga all‟iniziativa di un
ricco calzolaio, un certo Sir John Angustus, il quale nel 1841 a
Boston, sentendo un povero ubriacone lamentare in un‟aula di
giustizia che se avesse trovato una persona a lui amica avrebbe
probabilmente trovato la forza di comportarsi in modo corretto e
dignitoso, si offrì di prendersi cura di lui ottenendo dal giudice che
l‟uomo non fosse condannato alla prigione.
Ancora in Inghilterra, fin dal 1847 vi sono tracce di un documento, lo
“Juvenil Offenders Act”, che autorizzava il magistrato, riconosciuta la
colpevolezza del minore, a non condannarlo bensì a limitarsi a
rimproverarlo; dopo pochi anni, con legge dell‟1 luglio 1899 fu
istituita a Chicago la prima Juvenile Court, che prevedeva come
principale risposta alla delinquenza minorile l‟utilizzazione del
probation.
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Altro esempio è costituito dal Childrens Hearing, applicato in Scozia,
ove il minore rimane affidato alla giurisdizione penale in caso di gravi
reati o di coimputazione con un maggiorenne, oppure se il minore
stesso o i suoi genitori lo chiedano espressamente.
Ulteriori sistemi di probation simili a quello della Gran Bretagna sono
previsti anche in Belgio, USA, Canada, Germania, Olanda,
Danimarca, Norvegia, Svezia, ecc.
Differenze, seppur non enormi, si colgono tra la messa alla prova ex
art. 28 D.P.R. 448/1988 e il probation di tipo anglosassone: secondo il
profilo delineato dall‟associazione dei giuristi americani ABA
(l’American Bar Association) nell‟agosto del 1970, tale istituto
prevede l‟affidamento facoltativo del minore all‟ufficiale di
probation; mentre, ai sensi dell‟art. 6 D.P.R. 448/1988 «in ogni stato e
grado del procedimento l‟autorità giudiziaria si avvale dei Servizi
Minorili dell‟amministrazione della giustizia …». La particella “si”
sembra presupporre la necessità di tale affidamento: se al suo posto il
legislatore avesse scritto «può avvalersi», l‟interpretazione sarebbe
stata sicuramente in linea con l‟orientamento sopra indicato.
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D‟altronde prestano conferma a tale osservazione gli artt. 12 comma 2
e 28 comma 2 del D.P.R. 448/1988.
Sempre secondo l‟ABA, il giudice dovrebbe poter adottare il probation
senza eccezioni, salvo che per i delitti più gravi. Al contrario, per tali
ipotesi, si riscontra da noi un‟inversione di tendenza negli ultimi anni,
specie per quanto attiene alla messa alla prova nei casi di reati di
rilevante gravità.
Altra differenza si ravvisa nella durata della misura, che va da un
massimo di uno o tre anni, a seconda della gravità del fatto, nel nostro
ordinamento, contro i due – cinque anni dell‟ordinamento
anglosassone.
Rimandando ai capitoli che seguono un‟analisi più approfondita delle
suddette tematiche, continuiamo con un breve cenno alle fonti che
sono state alla base dell‟introduzione, nel nostro sistema penale,
dell‟innovazione di cui si tratta.
Alle radici dell‟«innovazione più significativa e coraggiosa operata
dal nuovo codice di procedura penale» , vi è stata la necessità di
Così Corte Cost., 27 settembre 1990, n. 412, Dell‟Andro.
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adeguare il nostro diritto interno alla vasta normativa comunitaria, che
col passare degli anni acquisiva un ruolo sempre più autorevole.
Ricordiamo a tal proposito: la Dichiarazione di Ginevra del 1924 sui
Diritti del Fanciullo; la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo adottata
dall‟Assemblea Generale dell‟ONU il 20 novembre 1959; la
Raccomandazione n. 20 del Consiglio d‟Europa approvata a
Strasburgo il 20 aprile 1987; la Convenzione internazionale sui diritti
del fanciullo, approvata a New York dall‟Assemblea Generale delle
Nazioni Unite il 20 novembre 1989, che delinea un vero e proprio
Statuto dei diritti del minore e impone agli Stati che la ratificano di
adeguare le norme di diritto interno a quelle in essa enunciate; le
regole minime delle Nazioni Unite relative all‟amministrazione della
giustizia minorile del 29 novembre 1985 (Regole di Beijing-Pechino),
in cui si sottolinea l‟importanza di percorsi alternativi al procedimento
penale, come risposta adeguata alla specificità del disagio giovanile
espresso nella commissione di reati, viste l‟inadeguatezza e
l‟insufficienza di una reazione di tipo meramente “custodialistico”
(così recitano i par. 11 e 19).
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Possiamo notare infine, come sin dalle sue origini, la giustizia
minorile sia stata caratterizzata dal contemporaneo perseguimento di
due obiettivi: quello penale in senso stretto, di proteggere la società
dai minori devianti, allontanando nello stesso tempo il rischio della
recidiva, e quello socio-assistenziale di proteggere i minori da una
risposta giudiziaria che, in particolari situazioni, finivano per tradursi
in una vera e propria “violenza” nei loro confronti.
Bisogna infatti considerare che preoccuparsi del minore, preservarne il
più possibile il diritto all‟educazione, recuperarlo al rispetto della
legalità, non vuol dire abbandonare la sanzione penale, ma al contrario
ricercare un sistema sanzionatorio atto a tale scopo.
Di opinione avversa sembra essere chi invece sostiene che
l‟applicazione di tale istanza specialpreventiva suona come
emblematica denuncia della profonda crisi in cui versa la pena
detentiva, la cui perdita di legittimazione e di credibilità sembra
crescere ogni giorno di più .
In tal senso v. PALERMO FABRIS E., PRESUTTI A., “Diritto e procedura penale minorile”,
vol. 5, (a cura di), Giuffrè Editore, Milano, 2002, p. 216.