IV
Il Trattato di Amsterdam, a poco più di dieci anni dalla sua
adozione, ha costituito per il diritto antidiscriminatorio in generale, e
per il divieto di discriminazione sulla base del sesso in particolare,
ancor prima che un traguardo, un importantissimo punto di partenza:
l’inserimento di una clausola quale quella contenuta nell’art. 13 che, per
la prima volta, superando i confini tradizionali del diritto comunitario
costituiti dalla nazionalità e dal sesso, ha stabilito quali motivi di
illecita differenziazione la razza, l’origine etnica, la religione, le
convinzioni personali, l’handicap, l’età e l’orientamento sessuale ha
rappresentato il primo deciso e decisivo passo verso l’accoglimento di
una concezione sostanziale di uguaglianza all’interno della Comunità.
Gli sviluppi successivi sono rappresentati dall’inserimento
dell’uguaglianza nella Carta dei diritti fondamentali del 2000 e
dall’adozione delle direttive di «seconda generazione», le cui
disposizioni, dando attuazione all’art. 13 del Trattato di Amsterdam,
innovano in modo significativo le tecniche di tutela in materia
antidiscriminatoria, attingendo ampiamente proprio da quel laboratorio
normativo che si era andato formando sulle fondamenta dell’art. 119,
unica disposizione di carattere cogente contenuta nel capitolo originario
delle politiche sociali del Trattato.
Il diritto derivato sviluppatosi sulla base di tale articolo, nonché
la ricchissima giurisprudenza della Corte in tema di discriminazione di
genere, hanno costituito, dunque, per la nuova legislazione
antidiscriminatoria, in primo luogo, un formidabile fattore di impulso e,
in seconda battuta, un irrinunciabile punto di riferimento per
l’elaborazione di soluzioni più avanzate di quelle sperimentate in
passato.
Alla luce di questi importantissimi sviluppi si cercherà, in
quest’analisi, di delineare quali siano i confini attuali del divieto in
questione, sottolineando sin da subito quello che è sembrato
V
rappresentarne l’aspetto più innovativo: parlare, oggi, di
discriminazione sulla base del sesso nell’ordinamento comunitario non
implica più un riferimento esclusivo alla discriminazione di genere.
Alla luce anche delle pronunce della Corte europea dei diritti
dell’uomo, sempre molto sensibile ai cambiamenti sociali e giuridici in
atto negli Stati membri, si prenderà in considerazione la giurisprudenza
della Corte di giustizia che, da più di dieci anni, si è trovata ad
affrontare nuove questioni, in cui la causa di trattamenti discriminatori
è riconducibile sì al sesso, ma non al genere della persona: le istanze di
transessuali e di omosessuali discriminati sulla base della loro identità e
del loro orientamento sessuale. Su questo terreno, nuovo e insidioso,
proprio il “dialogo” tra le due Corti ha costituito il principale fattore
per un processo, ancora in atto, di estensione a tali situazioni della
tutela contro le discriminazioni, prima che il legislatore comunitario con
la direttiva 2000/78/CE, per quanto riguarda l’orientamento sessuale, e
con la direttiva 2006/54/CE, per quanto riguarda il cambiamento di
sesso, non fornisse ai giudici una chiara base giuridica in tal senso.
1
CAPITOLO I
L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO SUL DIVIETO
DI DISCRIMINAZIONE SULLA BASE DEL SESSO
1. L’origine del divieto di discriminazione basata sul sesso: l’art. 119
del Trattato di Roma e il primo periodo «di eclissi» del principio
All’origine dell’attuale divieto di discriminazione sulla base del
sesso vi è l’articolo 119 del Trattato di Roma del 1957 che stabiliva
unicamente la parità salariale tra uomini e donne e che, lungi dal
rappresentare il riconoscimento di un diritto fondamentale della persona,
rispondeva piuttosto a precise esigenze e preoccupazioni di carattere
economico. In particolare la Francia, unico tra i Paesi fondatori che
sulla base della propria legislazione postbellica aveva già introdotto e
reso effettivo nel proprio ordinamento il principio « salaire égal pour un
travail égal», preoccupata che industrie di altri Paesi retribuissero la loro
mano d’opera femminile in misura notevolmente inferiore, temeva
pericolose distorsioni nella concorrenza
1
.
Senza dunque voler negare che la ratio dell’articolo in questione
si inserisse anche «in un indirizzo legislativo ben più vasto […] un
processo ormai secolare, destinato ad eliminare lo sfruttamento del
lavoro femminile»
2
e che fosse comunque inquadrabile «in quel
fenomeno di ben più profondo respiro costituito dalla rivendicazione
della parità dei diritti delle lavoratrici, ma prima di tutto delle donne in
quanto tali»
3
, il «principio di uguaglianza retributiva senza
1
Con lo stesso scopo del resto la clausola del «salaire égal pour un travail égal» aveva fatto la
sua prima apparizione nella parte XIII del Trattato di Versailles del 19 giugno 1919, inserita tra
i principi cardine cui, secondo l’intento enunciato dai rappresentanti dei principali sindacati
europei e dei governi degli Stati negoziatori, i Paesi firmatari avrebbero dovuto attenersi al fine
di omogeneizzare la disciplina interna delle condizioni di lavoro.
2
LEVI, SANDRI, Art. 119, in QUADRI, R., MONACO, R., TRABUCCHI, A., (diretto da), Trattato
istitutivo della Comunità economica europea; Commentario, Milano, 1965, p. 954.
3
MORI, P., La parità tra uomo e donna nel Trattato di Amsterdam, in DUE, 1998, p. 572.
2
discriminazione tra uomini e donne», così come predisposto dal Trattato
CEE, fu sostanzialmente il frutto di un compromesso politico, raggiunto
grazie alla limitazione del principio a scopi essenzialmente economici,
come risulta già chiaramente dall’ eliminazione della formula originaria
che riferiva la parità salariale ad un «travail de même valeur»
4
. Nella sua
versione definitiva l’art. 119 imponeva agli Stati l’obbligo di introdurre e
dare applicazione all’interno dei loro ordinamenti al «principio della
parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e i lavoratori di
sesso femminile per uno stesso lavoro».
E ciò in piena conformità
all’orizzonte neoliberista in cui si muovevano i padri fondatori, seguendo
un disegno politico che mirava alla costruzione di un mercato comune
europeo incentrato sulla libera concorrenza e sulla libera circolazione dei
lavoratori all’interno della Comunità; i meccanismi della libera
concorrenza erano ritenuti in grado di produrre una correzione spontanea
degli squilibri indotti dalla presenza di condizioni di lavoro non
omogenee tra un paese e l’altro e il Trattato si sarebbe dovuto occupare
del lavoro limitatamente a quegli aspetti che avessero potuto interferire
con il buon funzionamento del mercato. Tra i due principali compititi
della Comunità, la creazione di un mercato comune (art. 2 del Trattato
costitutivo) e la promozione di migliori condizioni sociali all’interno dei
paesi membri (art. 3 del Trattato costitutivo), era sicuramente il primo ad
assumere, in questa fase, un carattere prioritario e, del resto, non pochi
diritti sociali trovarono origine e fondamento proprio da istanze di
carattere economico. Se la non discriminazione retributiva, così come,
soprattutto, quella sulla base della nazionalità, appariva già come uno dei
4
Si veda sul punto BARBERA, M., L’ evoluzione storica e normativa del problema della parità
retributiva tra uomo e donna, in LD, 1989, III, p. 593 ss., dove l’autrice sottolinea anche come
la storia dell’insorgere e del consolidarsi del principio giuridico di eguaglianza retributiva tra i
sessi sia stata da sempre percorsa dal segno dell’ambivalenza e come, fin dalle prime
formulazioni risalenti alla fine del XIX, in particolare con Stuart Mill, in esso si manifestarono
istanze di giustizia distributiva ed esigenze di regolazione della concorrenza che ne segneranno
in modo durevole le vicende.
3
principi caratterizzanti il Trattato di Roma del 1957, ad essa dobbiamo
riconoscere il preminente, se non esclusivo, scopo di evitare fenomeni
distorsivi della concorrenza
5
.
Introdotto con questi limitati fini nell’atto costitutivo della CEE,
il divieto delle discriminazioni salariali a danno delle donne vi rimase in
fase latente fino agli inizi degli anni ’70. Da un lato, per l’inerzia dei
Governi europei, dovuta sia alle difficoltà rappresentate dal fatto che la
materia salariale era in alcuni casi istituzionalmente demandata alla
contrattazione collettiva, sia alla generale «attitudine che pubblici
poteri e parti sociali avevano nei confronti del lavoro femminile»
6
.
Dall’altro, a livello comunitario, gli organi della Comunità furono
impegnati per un lungo periodo in un «frigido dibattito», che vedeva
contrapposti da una parte la Commissione europea, dall’altra i
rappresentanti degli Stati membri presenti nel Consiglio, circa il
significato del termine «lavoro uguale» e circa il carattere direttamente
vincolante o meno dell’art. 119
7
.
Alla prima questione fu trovata una soluzione mediata con la
Risoluzione del 30 dicembre 1961, che, pur rimarcando il carattere più
limitato del concetto di lavoro eguale rispetto al concetto di lavoro di
eguale valore adoperato dalla Convenzione n. 100 dell’oIL
8
, dava
comunque del principio stesso una definizione più rigorosa, escludendo
5
Ibidem, pp. 614-619.
6
Ibidem, p. 617.
7
Sul punto LEVI SANDRI, in Art. 119, cit., pp. 953-956; l’autore, ricostruendo la questione,
mette in risalto come l’interpretazione restrittiva si basasse sul considerare «stesso lavoro» solo
quello che si ha nel caso delle c.d. funzioni miste, cioè di quelle funzioni che nella stessa
impresa e nelle stesse condizioni di lavoro erano svolte simultaneamente e indifferentemente
da uomini e da donne e che, pur esistendo, erano talmente rare (secondo un’ indagine allora
compiuta dalla Commissione della CEE solo il 2 o il 3 per cento della manodopera femminile
dei sei Paesi poteva essere considerato come addetto a funzioni miste), che limitare ad esse
l’applicazione della parità retributiva, avrebbe di fatto svuotato l’art. 119 di ogni significato.
8
Tale Convenzione faceva infatti riferimento all’ esistenza di un «lavoro uguale», così come
più ampia era anche l’ espressione utilizzata dall’art. 37 della Costituzione italiana che collega
la parità di retribuzione a «parità di lavoro». Per un’ analisi comparativa delle tre diverse
espressioni si veda GUIDOTTI, F., La «parità di retribuzione» per il lavoro femminile, in RIDL,
1957, p. 344 ss.
4
la rilevanza del fattore rendimento e mettendo l’accento sugli effetti
prodotti dall’uso di criteri discriminatori nei meccanismi di fissazione dei
salari e di classificazione del personale
9
.
Quanto al problema dell’applicabilità diretta della normativa
comunitaria, gli Stati membri mostrarono implicitamente di aderire alle
posizioni più restrittive prevedendo che ciascuno Stato introducesse nel
proprio ordinamento norme di attuazione dell’art. 119, che i singoli
avrebbero potuto invocare davanti ai giudici nazionali.
Tutto ciò aveva contribuito in maniera determinante alla scarsa
effettività del principio in questione: nonostante l’art. 119 impegnasse
ogni Stato membro ad assicurare durante la prima tappa (entro il 31
dicembre 1961) e a mantenere in seguito il principio della parità
retributiva, tale termine era stato poi prorogato, da una norma
interpretativa contenuta nella citata Risoluzione del 1961, al 31dicembre
1964: se gli Stati con detta Risoluzione riconoscevano che la graduale
applicazione del principio della parità di retribuzione aveva lo scopo di
eliminare qualsiasi discriminazione nella determinazione dei salari e, in
generale, il mantenimento di differenze di retribuzione fondate sul sesso
nei contratti collettivi, nelle tabelle e negli accordi salariali, lo
slittamento del termine non poteva senz’altro che rendere più debole il
carattere prescrittivo e cogente del principio
10
.
.
9
E in realtà tale problema interpretativo era, malgrado ogni contraria apparenza, irrilevante ai
fini dell’applicazione dell’art. 119 che non vuole accertare quando uomini e donne compiano
uno stesso lavoro, ma solo evitare che nella determinazione del salario si tenga conto
comunque del sesso del lavoratore. Che il lavoro sia lo stesso o diverso è questione da
accertare in ogni singolo caso concreto, in relazione alle mansioni attribuite all’uno o all’altro
soggetto e non può formare oggetto di una determinazione aprioristica. Sul punto si veda LEVI
SANDRI, Art. 119, cit., p. 955.
10
Confronta BARBERA, M., L’ evoluzione storica e normativa del problema della parità
retributiva tra uomo e donna, cit., p. 617.
5
2. Il principio di non discriminazione sulla base del sesso acquista
effettività: il contributo della Corte e l’attivismo normativo della
comunità
Nel 1968 il Comitato giuridico della Commissione, in un parere
non vincolante in cui affermava che la disuguaglianza salariale tra i sessi
costituiva un «attentato alla dignità umana e non solo come problema
economico», obbiettava, a quanti negavano l’applicabilità diretta del
principio richiamandosi al potere di apprezzamento riconosciuto ai
singoli Stati, che tale potere era limitato alle modalità di attuazione
mentre il risultato da raggiungere restava vincolato.
Ma per vedere significativi passi in avanti occorrerà attendere
fino agli anni ’70 quando la crisi economica, minando la solida fiducia
di stampo neoliberista in uno sviluppo economico accompagnato da un
simultaneo e automatico progresso delle tutele sociali e del lavoro,
determinò una fase di originale attivismo normativo da parte della
Comunità.
Il punto di svolta in questo senso è rappresentato dalla
Dichiarazione siglata dai capi di Stato e di Governo a conclusione del
summit di Parigi dell’ottobre 1972, nella quale essi affermavano di
attribuire pari importanza tanto all’azione in campo sociale, quanto al
raggiungimento dell’unità economica e finanziaria; ad esso farà seguito il
primo programma sociale, adottato con la Risoluzione del 21 gennaio
1974, in cui il Consiglio, per cercare di tamponare la situazione di grave
inadempimento ancora di fatto persistente nella maggior parte degli Stati
membri, inserirà tra le priorità azioni dirette a realizzare la parità tra gli
uomini e le donne in materia di accesso al lavoro e alla formazione e alla
promozione professionale come pure in materia di condizioni di lavoro
ivi compresi gli aspetti salariali; infine, l’emanazione, tra il 1975 e il
6
1980, delle prime due direttive in materia a cui faranno poi seguito
numerosi altri interventi nei due decenni successivi
11
.
Parallelamente un contributo determinante in merito all’ effettività
del divieto in questione è stato fornito dalla Corte di Giustizia.
Innanzitutto con la sentenza Defrenne II
12
, con cui la Corte ha
compiuto un primo passo nella direzione di svincolare il principio
sancito nell’art. 119 dalla connotazione esclusivamente economica in cui
l’aveva confinato il Trattato, per riconoscergli la natura più generale di
diritto fondamentale della persona. Per i giudici di Lussemburgo infatti
l’articolo perseguiva un duplice scopo: quello di evitare che le aziende
che avevano dato attuazione al principio della parità di retribuzione
potessero risultare svantaggiate rispetto a quelle che, invece, non
avevano ancora eliminato le discriminazioni retributive; ma anche quello
di garantire «il progresso sociale e promuovere il costante miglioramento
delle condizioni di vita e di lavoro dei popoli europei, come viene posto
in rilievo nel preambolo del Trattato»
13
. Da ciò derivava che la parità di
retribuzione doveva considerarsi uno dei principi fondamentali della
Comunità e che, pertanto, essa era direttamente applicabile negli
ordinamenti degli Stati membri, dotato di un effetto diretto non solo
verticale ma anche orizzontale tra privati. Nel sancire ciò la Corte di
giustizia adottava un’interpretazione che superava lo stesso dato letterale
della disposizione che poneva un obbligo esplicitamente ed
esclusivamente rivolto agli Stati membri.
Nello scenario sopra analizzato di inerzia generalizzata in
relazione ad un’effettiva applicazione del principio in questione tale
11
Sul punto si vedano MORI, P., La parità tra uomo e donna nel Trattato di Amsterdam, cit.,
p. 572 e BARBERA, M., L’ evoluzione storica e normativa del problema della parità
retributiva tra uomo e donna, cit., pp. 618-619.
12
CGE, sent. 8 aprile 1976, Causa 43/75, Gabrielle Defrenne c. Société anonyme belge de
navigation aérienne Sabena, in Racc., p. 455.
13
Ibidem, punti 7/11 .
7
fondamentale pronuncia, e l’operazione ermeneutica che ne era alla base,
assumeva dunque anche un significato politico ben preciso: i diritti
derivanti ai singoli dai principi sanciti nel Trattato che gli Stati membri
non avevano reso effettivi, sarebbero stati attributi dalla Corte per via
giudiziale
14
.
Tale processo di “sdoganamento” dell’art. 119 dalle finalità di
carattere economico che ne avevano determinato la genesi è stato poi
portato a termine dalla stessa Corte di Giustizia due anni dopo, con la
sentenza Defrenne III
15
, dove i giudici sancirono che senza alcun dubbio
l’ eliminazione delle discriminazioni basate sul sesso dovesse essere
considerata «parte dei diritti fondamentali dell’uomo il cui rispetto
costituisce uno dei principi generali dell’ordinamento comunitario di cui
la Corte garantisce l’osservanza»
16
.
2.1 Il diritto derivato: in particolare le direttive 75/117/CEE e
76/207/CEE
I primi due atti comunitari in materia si caratterizzano sia perché,
riflettendo i tempi in cui sono stati emanati, si collocano palesemente
all’interno di una concezione formale della parità uomo-donna, sia
perché in entrambi manca una definizione di discriminazione .
La prima della direttive in questione, la direttiva 75/117/CEE
dedicata «all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra
i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile», trovava il suo
fondamento giuridico nell’art. 94 (ex art. 100) del Trattato, relativo
14
Così POLLICINO, O., Discriminazione sulla base del sesso e trattamento preferenziale nel
diritto comunitario: un profilo giurisprudenziale alla ricerca del nucleo duro del new legal
order, Milano, 2005, p. 39
15
CGE, sent. 15 giugno 1978, causa 149/77, Gabrielle Defrenne c. Société anonyme belge de
navigation aérienne Sabena, in Racc., p. 1365.
16
Cfr. sul punto NOVI, C., La parità di trattamento tra uomo e donna in materia di
occupazione e condizioni di lavoro nel diritto comunitario: il felice connubio tra innovazione e
codificazione, in DPCE, 2004, p. 1240.
8
all’armonizzazione delle legislazioni nazionali e, reinterpretando l’art.
119, stabiliva che «il principio della parità di retribuzioni tra lavoratori e
lavoratrici previsto dall’art. 119 del Trattato […] implica, per uno stesso
lavoro o per un lavoro al quale è stato attribuito un valore eguale, l’
eliminazione di qualsiasi discriminazione basata sul sesso in tutti gli
elementi e condizioni delle retribuzioni»
17
.
Questo provvedimento può essere considerato un provvedimento
«ad abundantiam»
18
nel senso che, pur essendo finalizzato a facilitare e
rendere effettiva l’applicazione del principio di parità retributiva
19
, non
ne rappresenta una condizione di applicazione, come dimostra, da un
lato, il fatto che non preveda per gli Stati obblighi aggiuntivi, ma si limiti
a indicare i comportamenti da tenere per assicurare il divieto ex art. 119,
dall’altro, la successiva giurisprudenza della Corte di Giustizia, che in
tema di discriminazioni salariali fondate sul sesso non ha mai fondato il
proprio ragionamento esclusivamente sulla direttiva, ma ha sempre fatto
riferimento all’art. 119 o a questo articolo e alla direttiva
congiuntamente.
Da sottolineare, inoltre, come il divieto di discriminazione appaia,
nell’ottica della direttiva in questione, ancora intimamente e direttamente
legato all’obbiettivo dell’instaurazione del mercato comune, come
dimostra in modo palese il suo primo considerando nel prevedere che
«l’attuazione del principio di parità delle retribuzioni tra lavoratori di
sesso maschile e femminile, considerato dall’art. 119 del Trattato, è parte
integrante dell’instaurazione e del funzionamento del mercato comune».
17
Si può notare come già la direttiva, anticipando il nuovo testo dell’articolo 119 introdotto dal
Trattato di Amsterdam, estenda il divieto al «lavoro al quale è stato attribuito eguale valore».
18
CORTESE PINTO, E., Art. 141, in TIZZANO, A., (a cura di), Trattati dell’unione europea e
della Comunità europea, Milano, 2004, p. 783.
19
In particolare veniva statuito che qualora si fosse fatto ricorso a un sistema di job evaluation,
questo avrebbe dovuto basarsi su criteri comuni a uomini e donne ed essere elaborato in modo
da escludere qualsiasi discriminazione tra i sessi.
9
Un ampliamento e una rivalutazione della portata sociale del
divieto di discriminazione sulla base del sesso può invece riscontrarsi nel
testo della direttiva 76/207/CEE
20
, che estende l’ambito di applicazione
del principio di parità all’intero settore dell’impiego e
dell’occupazione
21
. Infatti, oltre a scomparire il riferimento
all’instaurazione e al funzionamento del mercato comune, si segnala la
previsione del terzo considerando che, da un lato, nell’indicare la parità
di trattamento tra i lavoratori di sesso maschile e quello di sesso
femminile come uno degli obbiettivi della Comunità al fine di
«promuovere la parificazione nel progresso delle condizioni di vita e
nella manodopera», sancisce il superamento delle finalità meramente
economiche del principio; inoltre, perché, nel sottolineare che «il
Trattato non ha previsto i poteri di azione specifici necessari a tale
scopo», apre la strada alle successive novelle in materia
22
.
Il «cuore» della direttiva è rappresentato dal suo articolo 2 che, al
primo comma, pur non introducendo una nozione di discriminazione, si
segnala per contenere un pioneristico, seppur sfuggente, riferimento alla
discriminazione indiretta affermando che «il principio di parità di
trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul
sesso, tanto direttamente quanto indirettamente».
20
Anche in questo caso la base della direttiva non è rappresentata dall’art. 119, non riferendosi
al solo aspetto della retribuzione, bensì dall’art. 308 (ex 235) TCE, fondamento normativo
della c.d. «teoria dei poteri impliciti della Comunità».
21
L’art. 1 della Direttiva prevede infatti che lo scopo della stessa sia «l’attuazione negli Stati
membri del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda
l’accesso al lavoro, ivi compresa la promozione e la sicurezza sociale, nonché le condizioni di
lavoro».
22
Successivamente il principio della parità di trattamento è stato esteso anche alla materia della
sicurezza sociale con la direttiva 79/7/CEE e qualche anno dopo al lavoro autonomo,
comprese anche le attività nel settore agricolo, con la direttiva 86/613/CEE. Sul punto si
vedano NOVI, C., La parità di trattamento tra uomo e donna in materia di occupazione e
condizioni di lavoro nel diritto comunitario:il felice connubio tra innovazione e codificazione,
cit., p. 1239 ss. e DE SIMONE, G., La riforma delle istituzioni e degli strumenti delle politiche
di pari opportunità, in NLCC, 2003, p. 720 ss.
10
Posta la regola generale nel primo comma, i tre commi successivi
consentono la non applicazione del principio in casi particolari: il
secondo comma, prevede una deroga per le attività professionali e le
relative formazioni per le quali, in considerazione della loro natura e
delle condizioni per il loro esercizio, il sesso rappresenti una condizione
determinante; il terzo comma introduce un’ulteriore eccezione riguardo
alle disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per
quanto riguarda la gravidanza e la maternità; il quarto comma, infine, fa
salve «le misure volte a promuovere la parità delle opportunità per gli
uomini e le donne, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto»,
costituendo per decenni, fino al Trattato di Amsterdam, il punto di
riferimento obbligato in tema di misure preferenziali a livello
comunitario
23
.
In generale, pur apparendo evidente la reticenza in relazione alle
nozioni di discriminazione (diretta e indiretta) e di azione positiva, si può
affermare che la direttiva in esame fornisse per la prima volta un
modello piuttosto esteso di tutela contro le discriminazioni sulla base del
sesso, attraverso l’indicazione specifica degli aspetti del rapporto di
lavoro su cui incide il precetto paritario (l’accesso all’impiego e alla
formazione, la promozione e il licenziamento) e la previsione che, per
ognuno di questi ambiti, gli Stati hanno l’obbligo di eliminare le
disposizioni normative e regolamentari in contrasto con il principio di
parità, sancendo inoltre la nullità delle eventuali disposizioni contrarie
contenute tanto nei contratti individuali che in quelli collettivi. Una tutela
antidiscriminatoria che, dunque, al conflitto tra l’interesse delle
23
Sul punto si veda POLLICINO, O., Discriminazione sulla base del sesso e trattamento
preferenziale nel diritto comunitario: un profilo giurisprudenziale alla ricerca del nucleo duro
del new legal order, cit., pp. 45-52, dove l’autore sottolinea anche come in tema di trattamento
preferenziale l’orientamento «autorestringente» della giurisprudenza della Corte sia stato
sicuramente condizionato dalla caratterizzazione legislativa in termini di regola/eccezione
dell’art. 2, comma 1 e 4, della direttiva 76/207.
11
lavoratrici e quello dell’azienda, già presente con rifermento alla parità
retributiva, aggiunge, con l’estensione del principio di parità a tutti gli
aspetti del rapporto di lavoro, quello fra lavoratori e lavoratrici in
relazione alla distribuzione di risorse limitate quali sono i posti di
lavoro
24
.
2.2 La direttiva 97/80/CE sull’onere della prova: la prima
nozione di discriminazione in una fonte normativa comunitaria
Soltanto nel 1997, dopo un iter formativo durato ben nove anni,
durante i quali si sono succedute quattro proposte di direttiva contenenti
le relative nozioni di discriminazione indiretta, si arrivava a fissare con la
direttiva 97/80/CE, riguardante l’onere della prova nei casi di
discriminazione basata sul sesso
25
, la definizione di discriminazione
indiretta.
Tale atto ribadisce innanzitutto sul piano normativo la disciplina
sull’onere della prova elaborata in sede giudiziaria
26
ed estende la sua
applicazione anche a situazioni estranee all’art. 119 ed in particolare a
tutte quelle coperte dalla direttiva 76/207/CEE, dalla direttiva
92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il
miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici
gestanti, puerpere o in periodo di allattamento e dalla direttiva 96/34/CE
sul congedo parentale.
24
Sul punto si veda NANÌ, L., Uguaglianza tra lavoratori e lavoratrici nel rapporto di lavoro,
in DLRI, 1998, p. 351 e ss.
25
L’art. 4 della direttiva 97/80/CE prevede al comma 1 che: «Gli Stati membri, secondo i loro
sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta
provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si
ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto
dinanzi ad un organo giurisdizionale, ovvero dinanzi ad un altro organo competente, elementi
di fatto in base ai quali si possa desumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta»;
mentre il comma 2 specifica che: «La presente direttiva non osta a che gli Stati membri,
impongano un regime probatorio più favorevole alla parte attrice».
26
Su cui si veda infra capitolo II.