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La prima caratteristica impone alle FF.AA. l’adozione di una struttura
organizzativa e valoriale non assimilabile a nessun altra, che rende la professione
militare unica, e non certo un’occupazione tra tante: essa richiede infatti al
proprio personale un’abnegazione quasi totale e prestazioni che possono arrivare
fino al sacrificio della vita. Si ha così l’adozione di una struttura fortemente
gerarchica, in cui l’obbedienza, a volte anche cieca, è elemento organizzativo
irrinunciabile.
La legittimità del compito, invece, pone un legame ineludibile tra
l’istituzione e lo Stato che le fornisce le risorse economiche, ma soprattutto
umane. Il criterio di rappresentatività della società d’appartenenza diventa così
centrale in questo contesto, rendendo necessaria per i sistemi di reclutamento la
formazione di ranghi in grado di essere specchio di tale società (in termini di
categorie sia sociologiche che geografiche). Ma soprattutto occorre che coloro
che legittimano il mandato affidato alle FF.AA. condividano metodi e obiettivi
dell’azione militare.
Gli storici sottolineano che, in tempi moderni, il rapporto tra la società
italiana e il suo esercito è stato piuttosto travagliato: l’importanza e il carico
simbolico accordatigli dalla propaganda fascista e l’ignominiosa débâcle dell’8
settembre, nel dopoguerra hanno confinato l’Esercito in una sorta di limbo
istituzionale, in cui si cercava quasi di dimenticarne l’esistenza facendolo
considerare proprio di una certa fazione politica e non di tutti gli italiani, che al
suo mantenimento, volenti o nolenti contribuivano. I militari si sono così isolati
all’interno delle caserme, “subendo” l’attenzione del pubblico solo in occasione
di incidenti ed eventi negativi che regolarmente venivano ripresi ed esaltati dai
giornali, perdendo però quel rapporto con la società d’appartenenza così
importante per un’istituzione di tale complessità.
L’evoluzione della società negli ultimi cinquant’anni e i nuovi equilibri
internazionali stabilitisi dopo il crollo del muro di Berlino, e quindi la caduta
dell’ex-Unione Sovietica, hanno però in parte modificato questa situazione. La
tipica rosa dei compiti militari si è allargata, sia per quello che riguarda l’ambito
domestico che internazionale, le missioni al di fuori dei confini sono diventate
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sempre più frequenti, la gestione della pace si è spesso sostituita a quella della
guerra e la figura classica degli uomini in divisa ha dovuto adeguarsi, sia dal
punto di vista psicologico (di autodefinizione) che strutturale.
Cambiamenti di simile portata sono altresì intervenuti all’interno della
società civile, modificandone usi e costumi, ma soprattutto facendole prendere
diversa consapevolezza dei propri diritti nei confronti degli organi istituzionali.
Uno dei riflessi di tutto ciò sul mondo militare è stato il presentarsi, forse per la
prima volta, del problema di come ottenere, e poi mantenere, il consenso: la
legittimità dell’azione ha cioè bisogno della legittimazione popolare.
Il problema del consenso emerge a questo punto come centrale, perché
l’evoluzione democratica della società italiana non consente più la sopravvivenza
a istituzioni che si credono intitolate ad agire per “investitura divina”. Infatti,
sono molti gli autori a notare che “il mondo militare è rimasto per troppi anni
chiuso in se stesso, interpretando il privilegio di rappresentare un elemento
fondamentale dell’organizzazione dello Stato come il diritto a escludere qualsiasi
critica nei propri confronti, a negare ingerenze di qualsiasi genere, fatti
inammissibili nella democrazia”
1
.
Le FF.AA. si sono così sempre considerate al di fuori delle regole
democratiche che sottoponevano ogni istituzione e decisione dello Stato
all’approvazione popolare: dietro lo scudo di una specificità della funzione che
non permetteva ai civili di intendersi di temi militari, esse si sono sempre
sottratte all’esame del consenso. Ma la società si è evoluta, l’opinione pubblica
ha acquistato maggior consapevolezza dei propri diritti e la pervasività dei
moderni mezzi di comunicazione di massa l’ha abituata ad avere visibilità anche
su quei fatti che una volta potevano essere considerati appannaggio unico delle
istituzioni. Un poche parole: il mondo è cambiato.
La sfida per l’Esercito moderno, allora, è quella di raggiungere livelli
elevati di efficacia ed efficienza operativa, al fine di adempiere al meglio i propri
compiti istituzionali, ottenere il pieno consenso dell’opinione pubblica, e quindi
una piena legittimazione. Ma, se sul piano operativo si sono potuti rilevare
1
Passarelli (1998), pag. 24.
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significativi miglioramenti, che hanno permesso di affrontare con successo (e
anche con qualche riconoscimento internazionale) i nuovi compiti, al
cambiamento della società, della sua mentalità, delle sue necessità, dei suoi
linguaggi, l’istituzione militare non ha saputo adeguarsi.
Dall’analisi compiuta emerge infatti che, dal punto di vista strutturale, sono
rimaste tutte le rigidità e i limiti propri di una forte burocratizzazione basata sul
tradizionale (e necessario, visti i compiti dell’organizzazione) modello
gerarchico. Dal punto di vista psicologico (come dimostrano diverse interviste e
articoli di esponenti anche di rilievo del mondo militare) non si è ancora usciti
dalla mentalità vittimistica che vuole le FF.AA. ingiustamente e
aprioristicamente attaccate da tutti. Da quello pratico, non si è voluta
abbandonare la passata “separatezza” dalla società civile, perché questo
consentiva di eludere il problema della legittimazione e del consenso, divenuti
ormai invece elementi indispensabili per giustificare le spese per la Difesa agli
occhi dei contribuenti.
Il risultato sotto gli occhi di tutti è un forte scollamento nei confronti dei
giovani (coloro che dovrebbero invece essere considerati interlocutori
privilegiati, soprattutto in vista della trasformazione dal sistema di leva
obbligatoria, ad uno su base volontaria) e delle istanze di cui essi sono portatori.
Così come si vede una forte deficienza nella gestione dei rapporti con i media,
che, a torto, continuano ad essere considerati interlocutori di second’ordine,
scomodi e non legittimati a trattare argomenti di carattere militare.
A questo punto, si trova a rivestire un ruolo non certo di secondo piano la
capacità delle FF.AA. di imparare ad utilizzare compiutamente le potenzialità dei
moderni mezzi di comunicazione di massa, e di costruire un nuovo rapporto con
essi. In una società sempre più spesso definita “dell’immagine”, essere in grado
di sfruttare la potenza dei media e di parlarne i linguaggi è ormai un imperativo
categorico. Infatti “una qualsiasi organizzazione, e massimamente
un’organizzazione importante e articolata come quella militare, se vuole
legittimarsi e agire nell’arena sociale deve imparare a posizionarsi ed agire nel
mercato della comunicazione in modo competitivo, tenendo conto di come
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funziona la comunicazione pubblica e di quanto essa sia importante sia per il
funzionamento stesso della società sia per la presa delle decisioni politiche”
2
.
Ma le FF.AA., in quanto istituzione con caratteristiche diverse da ogni altra,
non si trovano di fronte a un mero problema di mentalità, tecnologia o delle
competenze per utilizzarla: esse devono principalmente essere in grado di
conciliare le esigenze di comunicazione con quelle di segretezza tipiche del
mondo militare. Non che il problema di mentalità, tecnologie e professionalità sia
insignificante o risolto, il fatto è che, rispetto ad altre istituzioni anche pubbliche,
esse si trovano ad operare in un campo che necessita di particolari cautele e sotto
un vincolo politico molto forte.
Tuttavia, i fatti testimoniano anche un ritardo, da parte del mondo militare
nei confronti dell’argomento comunicazione. Un po’ per la sopracitata abitudine
a non considerare rilevanti i rapporti con i cittadini e i media, un po’ per un
atteggiamento di presunta superiorità dell’istituzione che avrebbe dovuto
guadagnarle un trattamento di favore da parte della stampa, un po’ per il
vittimismo con cui i militari si pongono davanti a ogni critica, il settore della
comunicazione è sempre stato considerato piuttosto marginale. Di conseguenza,
come sottolineano i diretti interessati, non è stato curato né dal punto di vista
organizzativo (approntando cioè strutture inidonee), né da quello professionale
(assegnando il personale agli uffici comunicazione come si sarebbe potuto fare
con una qualsiasi fureria di provincia). Questo ha provocato una forte carenza di
efficacia nell’azione di visibilità delle FF.AA. nei confronti del pubblico, con
riflessi negativi sia sul reclutamento che sull’ottenimento del consenso, ma
soprattutto un rapporto difficile con i mezzi di comunicazione.
I problemi del mondo militare nei confronti di quello dei media sono
essenzialmente due. Il primo riguarda il già citato atteggiamento di vittimismo
con cui le FF.AA. accolgono ogni articolo, servizio o commento che le riguardi e
non ne parli in modo assolutamente positivo: dalle risposte che a questi vengono
date emerge infatti che l’autore non è in genere intitolato a trattare l’argomento,
non lo conosce o non si è informato bene, inoltre sicuramente ha dei preconcetti,
2
Bechelloni (1996), pag. 48.
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o quantomeno è aprioristicamente avverso all’istituzione. Non viene mai posta la
domanda di cosa le FF.AA. abbiamo fatto per informare correttamente, né del
perché esse dovrebbero essere trattate con i guanti bianchi rispetto ad altri organi
dello Stato, e non.
Il secondo ordine di problemi riguarda invece l’impreparazione che i
militari hanno nell’utilizzare i media e nel parlarne i linguaggi: le conferenze e i
comunicati stampa hanno il sapore di ordini di servizio, gli eventi che potrebbero
catalizzare l’attenzione (come le missioni all’estero) non vengono sfruttati a fini
comunicativi e d’immagine, il news-management è un illustre sconosciuto, e via
di questo passo.
Questa distanza dal mondo “civile” e il mancato adeguamento alla sua
evoluzione e ai suoi linguaggi, fatti abbastanza preoccupanti anche in momenti
normali, diventano massimamente evidenti e pericolosi in situazioni di crisi
comunicativa, quando l’attenzione sul mondo militare e lo stress toccano picchi
assoluti. Si trovano così a confliggere l’esigenza di segretezza propria di
un’istituzione volta al mantenimento della sicurezza, i suoi vincoli anche di
carattere politico e l’esigenza dei media di produrre scoop e spettacolarizzare
ogni evento; le carenze strutturali e di professionalità nell’ambito comunicativo
del Ministero della Difesa (significative anche in situazioni di ordinaria
amministrazione) e l’organizzazione efficiente e ben oliata dei media, allenati a
puntare fari e convogliare attenzione su argomenti di pubblico interesse; la
lentezza della struttura gerarchica che moltiplica i tempi per ottenere un qualsiasi
permesso, e la velocità di reazione che invece sarebbe necessaria durante una
crisi comunicativa; la tendenza vittimistica dei militari a limitarsi ad accusare i
media di accanimento e aprioristica avversione, e la necessità invece di
contrastare con azioni ad hoc una campagna spesso ben motivata.
L’esempio pratico di tutto ciò si è avuto nel giugno del 1997, quando la
pubblicazione, da parte del settimanale Panorama, di alcune foto che
testimoniavano comportamenti criminali di alcuni paracadutisti italiani impegnati
nella missione Ibis in Somalia, ha scatenato una delle più imponenti crisi
comunicative che il nostro esercito si sia trovato ad affrontare negli ultimi anni.
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L’analisi delle fonti documentali (gli articoli apparsi sulla rivista e alcuni
documenti interni di F.A.) e le interviste con esponenti militari del settore
comunicazione della Scuola di Guerra di Civitavecchia e dell’Ufficio Pubblica
Informazione del Ministero della Difesa, nonché con militari che avevano
prestato servizio durante la suddetta missione, mi hanno permesso di studiare il
“caso Somalia” come emblematico prodotto della situazione fin qui delineata (sia
dal più generale punto di vista della struttura comunicativa delle FF.AA., che nel
merito della specifica vicenda “somala”). Ho potuto così constatare che davanti a
immagini che potevano solo suscitare orrore e riprovazione, soprattutto
continuando a definire la missione in Somalia come “missione di pace” (cosa che
poteva essere considerata nelle intenzioni iniziali, non dopo il conteggio dei
morti), a un attacco non solo alla Folgore ma all’intero esercito come istituzione,
a una campagna di una testata rimbalzata poi su tutti i giornali e le televisioni
nazionali, il Ministero della Difesa non ha trovato di meglio da fare se non
trincerarsi dietro un colpevole silenzio. I risultati della “strategia” si sono così
immediatamente moltiplicati: sul piano esterno, il giudizio di colpevolezza senza
processo e senza appello è stato subito emesso dall’opinione pubblica (con
ripercussioni d’immagine che hanno colpito sia il reclutamento, sia tutti coloro
che indossano la divisa); su quello interno, un’intera brigata (la Folgore), fiore
all’occhiello delle nostre FF.AA., si è sentita abbandonata e non tutelata da
coloro che per primi avrebbero dovuto farlo e si è chiusa nei confronti degli Stati
Maggiori.
Come uscire da questo quadro deprimente, controproducente e pericoloso?
Operando, per prima cosa, un cambio di mentalità: cominciando a considerare i
cittadini come clienti ed azionisti, adeguandosi ai nuovi scenari comunicativi e
accettandone gli imperativi e i bisogni. In poche parole, facendo sì che le FF.AA.
si rendano conto di essere un ente pubblico che come tale deve attuare una
comunicazione pubblica nei confronti di individui con dei diritti, e a media che
faranno il proprio lavoro. Questo implica anche l’accettazione delle critiche e
l’utilizzo delle stesse al fine di migliorarsi e valutare il proprio operato.
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Il secondo passo può essere invece l’ulteriore riconoscimento della
necessità di attuare una politica di promozione d’immagine, non solo per
potenziare il reclutamento ma anche per ottenere il consenso dell’opinione
pubblica e avere buoni rapporti con i referenti politici. E’ allora necessario
imparare ad usare (e poi farlo!) tutti gli strumenti messi a disposizione da questa
disciplina, in modo da gestire (e non subire) il flusso comunicativo, proiettando
all’esterno l’immagine voluta dall’istituzione e migliorando i rapporti con tutti i
pubblici per essa rilevanti: cittadini, mass media, organi dello Stato. Il tutto non
può però prescindere dalla perfetta interiorizzazione, da parte del personale, delle
linee guida del nuovo corso d’azione (affinché anche l’ultimo dei soldati si senta
rappresentante dell’istituzione e agisca come tale) e da un effettivo
miglioramento dei contenuti che la comunicazione si proporrà di veicolare.
Diventa così importante dedicare risorse ed attenzioni specifiche alla
comunicazione interna, così come alla comunicazione verso gli organi politici
che sono quelli che plasmano la “macchina-FF.AA.”.
Se questi sono gli intenti e gli obiettivi, il mezzo per realizzare tutto ciò
dovrebbe allora essere una ristrutturazione organizzativa, che produca uffici
comunicazione efficienti ed efficaci, con personale capace e adeguatamente
addestrato, e che renda il periodo che i cittadini dedicano al servizio dello Stato
un’esperienza interessante e produttiva, in modo da trasferire all’esterno
l’immagine di FF.AA. moderne, funzionali e funzionanti.