2
Il Buddha ha indicato nel nirvāṇa la condizione, inesprimibile perché
impensabile, dell’estinzione del dolore. Il Cristo, passando attraverso la sofferenza
e la croce, è risorto come primizia per tutti gli uomini. La ruota buddhista e la
croce cristiana sono simboli millenari che interpellano, oggi come ieri, chiunque è
alla ricerca della verità e del senso della vita.
In questo senso approvo quanto Ponchaud afferma quando dice: “Solo chi
osserva la propria religione in profondità può capire un’altra religione. Colui che
non ha interesse per la propria religione, non può giudicare un’altra religione. (…)
Non discutiamo per sopraffare l’altro, ma uniamoci per ricercare l’unica verità nel
più profondo del nostro cuore”
2
.
2
F. PONCHAUD, Buddha e Cristo le due salvezze, EDB, Bologna, 2005, pp. 45-46.
3
CAPITOLO PRIMO
IL BUDDHISMO DELLE ORIGINI
1.1 Ambiente di nascita del buddhismo.
Per cercare di comprendere una religione occorre anzitutto mettere in luce alcuni aspetti
della storia, della vita religiosa e delle speculazioni filosofiche propri dell’ambiente in cui essa è
nata.
Intorno al 1500 a.C. un’ondata di popolazioni nomadi, gli indo-ari, era penetrata in India da
nord-ovest attraverso l’Iran e l’ Afghanistan, ponendo fine alla civiltà della valle dell’Indo ormai in
fase di decadenza. La società degli indo-ari “si articolò in un primo tempo in tre categorie”
3
, per
ciascuna delle quali erano previsti particolari attività: quella del sacerdote (brāhmaṇa), detentore
del sapere sacro dei Veda, quella del guerriero e del principe (kṣatriya) legittimati ad usare la forza, e
quella dell’artigiano, del pastore e del contadino (vaiśya). Solo in un secondo momento fu aggiunta
la categoria degli śūdra, rappresentata dalle popolazioni sottomesse, alle quali era negato il diritto
di accedere ai testi sacri del Veda e il cui compito principale era quello di servire le tre categorie
sociali superiori.
In disaccordo con l’eccessivo ritualismo e lo strapotere brahmanico, che sacrificava la vita di
animali e di esseri umani per appagare la felicità di singoli individui ignari di sentimenti di
compassione e altruistico rispetto della vita e dell’uguaglianza umana, si affermano fra l’ VIII e il
VI secolo dei movimenti ascetici, promossi da persone che prendono la decisione di rinunciare al
mondo e di ritirarsi nella solitudine della foresta o delle montagne, dedicandosi a una vita di
meditazione, di ascesi, e praticando forme interiori di disciplina che saranno meglio conosciute col
nome di yoga. Ciò viene documentato dai primi testi a carattere filosofico dell’India, le Upaniṣad, in
cui si pone in discussione l’utilità del rituale e dei sacrifici per raggiungere la salvezza e in cui si
tenta di dimostrare l’equivalenza tra l’essenza dell’uomo e l’essenza dell’universo. In queste ultime
opere si trova pure la prima enunciazione della dottrina della trasmigrazione (saṃsāra), la catena
delle nascite e rinascite alle quali e’ vincolato l’essere umano, condizionata dalla ferrea legge della
retribuzione delle azioni (karman), da quell’insieme di componenti che si accumulano dopo ogni
azione e che determinano le rinascite successive in forme di esistenza che vanno da quelle vegetali
e animali fino a quelle superiori di uomini o dei.
Intorno al VI secolo a.C. le popolazioni ariane, ormai indianizzate, avevano completato il loro
stanziamento su tutta la pianura del Gange. In quest’epoca l’India settentrionale si presenta
suddivisa secondo un sistema politico di stati regionali, la maggior parte dei quali a costituzione
monarchica, altri a costituzione oligarchica.
3
M. D’ONZA CHIODO, Buddhismo, Queriniana, Brescia, 2000, p. 9.
4
Tra le correnti di pensiero di questo periodo non manca quella degli scettici, che rifiutavano
ogni forma di conoscenza, dei materialisti che riducevano l’essere umano alla somma dei quattro
elementi costitutivi del corpo fisico (terra, acqua, fuoco, aria) destinata a dissolversi al momento
della morte, e dei fatalisti che non lasciavano alcuna possibilità all’umana iniziativa nel lungo
cammino verso la perfezione. Il VI secolo a.C. rappresenta un momento storico di importante
rinnovamento spirituale destinato a segnare una svolta nella maggior parte delle grandi civiltà
antiche: Confucio e Lao-tzu in Cina, Zarathustra in Persia, Pitagora in Sicilia, Parmenide e Zenone
maestri della scuola filosofica sorta a Elea in Magna Grecia, Talete nella Ionia, i profeti Geremia,
Ezechiele e il Secondo Isaia in Israele sono esempi noti di questa ricerca; in India essa si
accompagna al sorgere di due grandi movimenti ascetici: il giainismo e il buddhismo .
1.2 La vita del Buddha.
La data di nascita del Buddha è piuttosto controversa e viene infatti fatta risalire, secondo
alcuni al 566 a.C., al 564 o 563 o 560 a.C. secondo altri
4
. Essa avviene a Kapilavastu in una
regione sub-himalayana, oggi compresa fra il Nepāl meridionale e l’estremo nord della pianura
gangetica, durante il viaggio che doveva portare la regina Māyā, moglie del nobile Śuddhodana, a
partorire il primo figlio nella casa paterna. La tradizione vuole che la giovane non raggiungesse
mai la casa e partorisse in un boschetto (a Lumbinī nel sud del Nepāl) morendo sette giorni più
tardi, per poi rinascere nel cielo degli dei beati: da quel momento fu la zia materna
(Mahāprajāpatī), che più tardi andò in sposa al padre, a prendersi cura del futuro Buddha.
Appena nato, il bimbo fu chiamato col nome di Siddhārtha, “colui che ha raggiunto lo
scopo”, Gautama, che gli veniva dall’appartenere alla stirpe brahmanica di Gotama, ma nei testi e
nelle iscrizioni gli sono dati anche altri appellativi quali, dopo la sua scelta di darsi a vita ascetica,
Śākyamuni “asceta dei Śākya” o, dopo che ebbe sperimentato il risveglio Tathāgata “colui che e’
giunto in possesso della Verità, il Perfetto”, o anche il Buddha
5
“il Risvegliato”.
Alla sua nascita i genitori interpellarono un astrologo che riscontrò sul suo corpo i
trentadue marchi maggiori del corpo di un grande asceta o di un grande sovrano universale;
pertanto essi cercarono di evitargli l’esperienza della sofferenza poiché questa avrebbe potuto
condurlo, proprio alla scelta della vita ascetica.
Prima di intraprendere la sua ricerca spirituale, egli viveva nell'agio nel palazzo del padre
Śuddhodana, (capo elettivo della una repubblica aristocratica degli Śākya, lungo il confine indo-
nepālese), dopo aver sposato Yaśodharā che gli diede un figlio di nome Rāhula.
4
“Se si pensa che qualche anno fa è uscita un’opera di più di mille pagine The dating of the Historical Buddha, che
raccoglie su questo problema interventi di specialisti fra i più illustri, e il quadro non è sostanzialmente cambiato da
allora, ci si può rendere conto di come la questione sia incerta”. (G. R. FRANCI, Il buddhismo, il Mulino, 2004, p. 19). La
data più comunemente accettata”, afferma la Chiodo, “è il 563 a.C., ma non mancano i sostenitori di datazioni anche
molto più alte o più basse”. (M. D’ONZA CHIODO, Buddhismo, Queriniana, Brescia, 2000, p. 9).
5
“Il fondatore del buddhismo non detiene l’esclusivo possesso del titolo di Buddha. I buddhisti ammettono che, nel corso
dei secoli, altri personaggi hanno raggiunto questo alto grado di evoluzione”. (A. Davd-Neel, Il Buddhismo del Buddha. Alle
radici dell’insegnamento del maestro, Ecig, Genova, 2003, p. 15).
5
La leggenda racconta che un giorno, uscito dal palazzo paterno, Siddhārtha si imbatté prima
in un vecchio, poi in un ammalato, in un corteo funebre e infine in un asceta, la cui calma e pace
lo ispirarono a cercare una via che cercasse di superare gli aspetti negativi dell’esistenza. Queste
esperienze del tutto nuove per lui lo fecero riflettere sulla vita fino a fargli abbandonare totalmente
il lusso e gli agi del palazzo: da quel momento, preso da compassione per ogni essere vivente, si
rade il capo e indossa la veste gialla dell’asceta itinerante, cominciando a elaborare quello che
sarà il cardine del pensiero buddhista: risolvere le quattro "sofferenze" fondamentali della vita:
nascita, vecchiaia, malattia, morte. Fuggito dal palazzo del padre, inizia una lunga peregrinazione
che durerà 7 anni.
Durante il primo anno Siddhārtha incontra vari maestri, nei successivi sei anni si dedica a
durissime macerazioni corporali che gli fan comprendere che l’eccessiva mortificazione del corpo
porta necessariamente a un indebolimento delle capacità della mente. Abbandonata anche
quest’ultima strada, ai piedi di un albero
6
si immerge in profonda meditazione individuando nella
sete di vivere, nei desideri terreni e nell’ignoranza la causa prima delle umane sofferenze, e
riconoscendo tra una vita dedita alle passioni e una vita di inutili mortificazioni “la via di mezzo”
7
,
il nobile ottuplice sentiero che conduce alla pace, al sapere, alla illuminazione, al nirvāṇa: da
questo momento egli e’ un Buddha, uno Svegliato, o, come egli volle anche chiamarsi, il Tathāgata
“Colui che è giunto in possesso della verità”. Siddhārtha non rinascerà più, poiché, conseguita la
bodhi (risveglio) ha attinto lo stato indefinibile del nirvāṇa.
Il Buddha dedicò il resto della sua vita a predicare, operando conversioni, accogliendo
monaci, istruendo laici, rivolgendosi a uomini e donne di qualunque professione e classe, fino a
circa ottant’anni, età della sua morte, avvenuta per intossicazione alimentare che, come la
nascita, fu caratterizzata da eventi straordinari: la terra tremò, dagli alberi scese una pioggia di
fiori,… Con la morte Buddha entra nel parinirvāṇa, quello stato di completa estinzione in cui non fa
più seguito nessuna rinascita.
Subito dopo la sua scomparsa un’assemblea di monaci avrebbe raccolto e ordinato i suoi
insegnamenti raccogliendoli nel Tripiṭaka ovvero il triplice canestro composto di tre parti principali:
“Vinaya” la disciplina (che tratta delle regole, norme e procedure monastiche), “Sūtra”, i discorsi (le
parole del Buddha e la documentazione dei suoi dibattiti e dialoghi), e l’ “Abhidharma” aggiunto più
tardi e dedicato alla metafisica e alle interpretazioni scolastiche e alla sintesi dei concetti
filosofici
8
.
6
Secondo la tradizione, Siddhārtha, seduto sotto un albero nella posizione cosiddetta del loto, a gambe incrociate, rivolto
verso oriente, entra in un profondo stato di meditazione e attraversa i quattro stadi del risveglio: concentrazione, lievità
dell’animo, abbandono, imperturbabilità assoluta non offuscata da gioia o dolore. Per il raggiungimento di questa fase
finale, nel corso della notte ha una triplice visione: nella prima rivede le sue esistenze passate, comprende quindi che il
ciclo delle rinascite è infinito; nella seconda visione vede il destino di vita, morte e rinascita di tutti gli esseri e la legge che
lo governa; nell’ultima, libero da ignoranza e attaccamento, conquista la conoscenza della causa del dolore e di come
liberarsene. Al termine di queste visioni Siddhārtha arriva a comprendere le quattro verità fondamentali: non può esservi
esistenza senza dolore, la causa del dolore è il desiderio, l’eliminazione del desiderio porta alla cessazione del dolore, al
nirvāṇa, esiste la via che conduce all’eliminazione del desiderio e dunque del dolore, il nobile ottuplice sentiero.
7
Gli antichi Latini avrebbero invece detto: “In medio stat virtus.”
8
Come Buddha anche Gesù ha predicato ma non ha scritto nulla: i suoi discepoli hanno memorizzato le sue parole e a
partire dall’evento pasquale le hanno ripetute ad altri ascoltatori finché sono state messe per iscritto nei Vangeli. Anche lo
insegnamento di Buddha è stato trasmesso oralmente ma l’epoca in cui la tradizione orale è stata fissata per iscritto è
difficilmente precisabile: l’essenziale della trascrizione era terminato durante il primo secolo della nostra era.