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facilmente educabili, ma, allo stesso tempo, più facilmente soggetti ad influssi
criminogeni derivanti da trattamenti penali non adeguati.
L’autonomia del diritto penale minorile si attua a livello della considerazione della
personalità e della tipologia delle conseguenze, mentre la tipologia dei reati è la stessa del
diritto penale per adulti.
In Italia è il codice penale del 1930 che introduce una serie di norme specifiche per i
minorenni. In tema d’imputabilità prevede la presunzione assoluta di non imputabilità
fino ai quattordici anni (art. 97 c.p.), mentre prima il limite era di dieci. Per il minore di
età compresa fra i quattordici e i diciotto anni la capacità di intendere e di volere, che
sottende all’imputabilità, deve essere accertata di volta in volta (art. 98 c.p.); non essendo
prevista, per questa fascia di età, alcuna presunzione il soggetto sarà imputabile solo ove
l’accertamento della capacità di intendere e di volere abbia avuto esito positivo.
L’incapacità può essere causata da situazioni patologiche di anormalità biologica o
psichica o da immaturità, concetto elaborato successivamente dalla giurisprudenza.
Infine per i soggetti di maggiore età è prevista la presunzione assoluta di imputabilità, in
quanto la loro incapacità di intendere e di volere è ricondotta a situazioni patologiche.
Pochi anni dopo l’entrata in vigore del codice penale, con R.D.L. n. 1404 del 20 luglio
1934 (convertito in l. n.885 del 1935), fu introdotto il Tribunale per i Minorenni e
previsti una serie d’istituti per minori condannati o corrigendi, compresi all’interno di un
Centro di rieducazione, istituito accanto al Tribunale.
Il Tribunale per i Minorenni ha competenza penale, amministrativa e civile.
Nonostante tutto, comunque, prima del 1988 il sistema penale minorile
era caratterizzato dalla sua scarsa specificità rispetto alla condizione minorile.
Infatti, sebbene con l’avvento della Costituzione Repubblicana del 1948 siano introdotti
una serie di nuovi principi, che assurgono al rango di fonte primaria dell’ordinamento
giuridico, per quanto riguarda i minori si nota come l’art. 27 della Costituzione non
faccia riferimento a tali soggetti. Nemmeno dai lavori preparatori della Costituzione
emerge un qualche riferimento all’applicazione del principio rieducativo ai soggetti di
minore età. Questa lacuna verrà, però, colmata dall’opera della Corte Costituzionale.
7
E’ col D.P.R. 448 del 1988 che è disciplinato il processo penale minorile e che è
affermato esplicitamente che il processo penale “non deve interrompere i processi
educativi in atto”.
Tra le caratteristiche proprie del processo penale minorile è da individuare la natura
finalistica di tale processo. Infatti, mentre il processo penale generale si configura come
attività processuale volta ad accertare la sussistenza del fatto (‘processo penale del fatto’)
e la sua attribuibilità all’imputato, il processo penale a carico d’imputati minorenni si
caratterizza per il fatto di avere una funzione ulteriore rispetto a quella dell’accertamento
della verità, la funzione del ‘recupero del minore’.
Accanto all’attitudine responsabilizzante e alla finalizzazione educativa del processo
penale minorile, occorre evidenziare anche la sua natura garantista. Il processo penale
minorile assicura all’imputato tutte le garanzie tipiche del ‘processo penale di fatto’,
proprie del codice di procedura penale. Oltre a queste sono previste per gli imputati di
minore età delle garanzie specifiche, dettate dalla loro particolare condizione: l’assistenza
dei genitori, la riservatezza, una disciplina specifica del Casellario Giudiziale per i
minorenni, l’eliminazione delle iscrizioni prevista nell’art. 15.
I principi alla base del processo penale minorile sono:
• principio di adeguatezza
• principio della minima offensività
• principio di destigmatizzazione
• principio di autoselettività
• principio della indisponibilità del rito
• principio della residualità della detenzione: impone che la pena detentiva sia
considerata come estrema ratio.
Col D.P.R. 272 del 1989 (recante le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie
del D.P.R. 448 del 1988), vengono previsti i Centri per la giustizia minorile, dipendenti
dal Ministero della Giustizia ed aventi competenza regionale.
Tali Centri si articolano nei seguenti servizi:
1. Centri di prima accoglienza
2. Istituti penali per minorenni
8
3. Comunità
4. Uffici di servizio sociale per minorenni
I centri di prima accoglienza sono strutture non carcerarie, collocate in gran parte presso
gli uffici giudiziari, che assicurano la permanenza del minore arrestato o fermato fino
all’udienza di convalida, permettendo, così, di evitare l’impatto con l’Istituto Penale.
Gli I.P.M. ospitano i minori sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria che si
trovano in custodia cautelare o in espiazione di pena. Ospitano, inoltre, i “giovani adulti”
che hanno commesso reato da minorenni e che, come previsto dalla legislazione italiana,
espiano la pena nelle strutture per minorenni fino al compimento del 21° anno di età.
Le finalità proprie dell’I.P.M. sono identificabili nell’esecuzione dei provvedimenti
dell’Autorità Giudiziaria, nel rispetto dei diritti soggettivi dei minori e nell’attivazione di
processi di responsabilizzazione e di promozione umana del minore.
In Italia gli I.P.M. sono, attualmente, 17 localizzati soprattutto al sud. La loro
organizzazione e gestione tecnica è stata rideterminata tramite la circolare n. 5391 del
17.02.2006 emanata dal Dipartimento per la Giustizia Minorile con sede a Roma che, tra
l’altro, riconoscendo le specifiche esigenze di ciascun Istituto permette la stesura di
singoli progetti d’Istituto in relazione alle caratteristiche ed esigenze individuali per il
perseguimento degli obiettivi Istituzionali.
Per quanto riguarda, invece, l’ordinamento penitenziario per i minorenni in Italia è atteso
da 33 anni.
Infatti, nel disegno di legge presentato tra il 1974 e il 1975 sull’ordinamento
penitenziario, che, però, riguardava solo gli adulti, fu inserito solo l’art. 79 che, in via
transitoria, applicava la disciplina per gli adulti anche ai ragazzi minori di 18 anni. Da
allora non c’è stato alcun provvedimento legislativo che sostituisse la “transitorietà”
dell’art. 79 O.P..
Attualmente, però, è in corso la stesura dell’Ordinamento Penitenziario per i Minorenni
da parte di una apposita Commissione costituita, presso il Dipartimento per la Giustizia
Minorile, da personale comprendente tutte le figure professionali della giustizia minorile,
iniziata nel 2006.
9
Alla base degli obiettivi e delle disposizioni contenute nella bozza dello Ordinamento
Penitenziario Minorile ci sono le numerose sperimentazioni e i percorsi già tracciati e
realizzati nelle strutture detentive per i minori nel corso di tutti questi anni, sia pure
informalmente e per situazioni particolari, nonché i principi contenuti nelle convenzioni
internazionali ed esperienze relative ad altri Paesi.
In sostanza sono stati messi a punto e formalizzati certi aspetti già esistenti ed introdotti
altri del tutto innovativi, considerando anche che oggi i ragazzi che si incontrano nei
percorsi della giustizia penale sono cambiati, perché è cambiata la nostra società.
Come primo obiettivo il Ministero della Giustizia ritiene di dover usufruire di un certo
numero di strutture diverse e di operatori qualificati sul territorio dando attenzione
anche ai giovani adulti di età tra i 18 e i 21 anni che abbiano commesso reati da
minorenni.
S’intende riservare a costoro degli Istituti autonomi o delle sezioni all’interno degli I.P.M.
dove verranno spostati anche gli ormai ultradiciottenni separandoli dai più giovani.
Vengono introdotte altre pene, oltre la pena detentiva, consistenti in un fare o un non
fare seguendo le migliori esperienze fatte con successo nei paesi stranieri.
Agli istituti detentivi già esistenti – istituto penale minorile e centro di prima accoglienza
– si sono aggiunti la comunità penale, l’istituto penale per giovani adulti (ragazzi dai 18 ai
25 anni) e comunità specifiche per l’accoglienza dei minori infraquattordicenni i quali
devono avere un trattamento personalizzato e attuato da personale particolarmente
qualificato.
È posta particolare attenzione alle dimissioni dalla struttura, che saranno preparate in
anticipo e sarà data la possibilità ai giovani adulti privi di riferimento sul territorio di
poter permanere, per non più di 3 mesi, in piccoli alloggi da realizzare accanto alle
strutture detentive, in attesa di soluzioni elaborate dai servizi sociali.
Le comunità pubbliche dovranno accogliere separatamente ragazzi e ragazze.
E’ stata ampliata l’area delle pene sostitutive alla detenzione che il Tribunale per i
minorenni applicherà per un tempo pari alla pena detentiva, passando alla pena detentiva
in caso d’inosservanza.
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Sono state previste misure alternative in corrispondenza a misure sostitutive con
persistenza della liberazione anticipata.
Viene introdotta la mediazione penitenziaria, per cui quando c’è stata attività di
mediazione-riparazione con esito positivo il Magistrato di Sorveglianza può ordinare la
liberazione anticipata.
Sono state maggiormente diversificate le competenze del Magistrato di Sorveglianza
rispetto a quelle del Tribunale di Sorveglianza e disciplinate in modo autonomo le
procedure di entrambi prevedendo le adeguate garanzie difensive.
Un giudice onorario potrà effettuare il monitoraggio del programma di reinserimento in
raccordo con i servizi minorili.
Per ciò che riguarda la Polizia Penitenziaria del contingente minorile potrà essere
utilizzata, come le altre forze di polizia, nell’attività di controllo all’esterno sui giovani
sottoposti a misura, rassicurando in tal modo la collettività che vede controllato il
giovane che ha sbagliato, il quale a sua volta avrà così la possibilità di confrontarsi in
caso di necessità, con chi conosce la sua storia personale e sociale. In tal modo anche la
Polizia Penitenziaria viene ad acquisire una visione diversa da parte della popolazione
che attualmente la considera esclusivamente per la sola funzione custodiale.
Alla luce di tutto quanto esposto si deduce che l’orientamento e le disposizioni in
materia di giustizia minorile vertono verso un trattamento, una rieducazione e un
reinserimento sociale che comportano il ricorso allo sconto della pena presso gli Istituti
penali solo per i ragazzi che abbiano commesso reati di maggiore allarme sociale e per i
quali la comunità non sembra in grado di gestire adeguatamente, o limitare, le ripetute
fughe e i conseguenti aggravamenti che non consentono di delineare un percorso
rieducativo efficace.
Al momento, però gli I.P.M. restano insostituibili.
12
CAPITOLO 1
IL SISTEMA GIUDIZIARIO MINORILE
13
1. 1. Nascita ed evoluzione del sistema giudiziario minorile
Le scelte operative operanti nel settore penale minorile sono frutto di un percorso
ideologico - culturale che merita di essere ricordato.
Nel periodo compreso tra il codice penale del 1859 al codice Zanardelli del 1899,
l’obiettivo principale fu l’unificazione e la sistematizzazione della materia minorile. Per la
prima volta s’indicò come criterio della responsabilità penale la capacità di distinguere
riguardo misure istituzionali (minori di 14 anni ) e di trattamento, differenziate ed
articolate in base all’età
1
. Per i minori di età compresa tra i 14 e i 20 anni era prevista solo
una riduzione della pena, mentre per quelli di 21 anni, entrando nella maggiore età vi era
il riconoscimento della piena responsabilità.
Oltre a questo vi era una norma penale del c.c. del 1865 che, su richiesta dei genitori,
prevedeva che i minori “traviati e discoli”
2
fossero internati in speciali case di educazione
o correzione fino al compimento della maggiore età.
Negli anni 1862 e 1877 furono emanati due regolamenti specifici per le case di custodia
penali per i minori con delle novità: sostituzione delle guardie carcerarie con nuove
figure di istitutori o censori; separazione assoluta tra maggiorenni e minorenni nonché
tra minorenni sottoposti a custodia per una condanna e quelli per altre cause; altre
classificazioni per età ecc
3
.
Tali regolamenti non trovarono un vero riscontro di attuazione nella realtà, per il forte
contrasto tra le istituzioni e l’ideologia.
Questo scollamento si accentuò notevolmente, a partire dal codice Zanardelli, in seguito
al confronto-scontro che in campo criminologico e giuridico, in generale, si verificava tra
la scuola classica e la scuola positiva.
La prima partiva dal presupposto che ogni uomo è capace di libero arbitrio e sosteneva
la certezza della norma e della pena, e l’articolazione di questa in senso retributivo.
1
Gorra, in De Cataldo Neuburger L., 1984
2
Beltrani-Scalia, M., La riforma penitenziaria in Italia, Giunti-Martello, Firenze 1879.
3
Beltrani-Scalia, M., La riforma penitenziaria in Italia, Giunti-Martello, Firenze 1879.
14
La seconda affermava invece che il comportamento dell’uomo è determinato da fattori
ereditari, biologici, ambientali, economici ecc., negando così l’esistenza del libero
arbitrio; con queste convinzioni metteva in crisi la concezione retributiva di pena ed
introduceva la categoria della pericolosità sociale, il cui rimedio fu la misura di sicurezza.
In pratica la scuola positiva, dunque, affermava il principio in base al quale la
responsabilità e la pena fossero graduate in relazione alle condizioni specifiche dei
soggetti.
Le nuove tendenze positivistiche furono applicate in campo penale minorile e proprio il
codice Zanardelli (come già quello del 1859) fissa due criteri fondamentali per
differenziare i minori di fronte alla pena: l’età e l’elemento soggettivo del discernimento
per stabilire l’imputabilità.
L’età minima per l’imputabilità era fissata a nove anni, quindi ancora quasi nell’infanzia;
dai nove ai quattordici anni il ragazzo era imputabile, ma solo nel caso in cui il
Magistrato, che ne aveva espresso obbligo, ne avesse accertato il discernimento; dai
quattordici ai diciotto anni era ugualmente imputabile, salvo la prova dell’assenza del
discernimento. Qualora il minore fosse stato ritenuto imputabile, era assoggettato a pene
diminuite, e lo stesso era previsto per il minore di ventuno anni
4
.
Si cercò di sistemare la materia minorile con il regolamento penitenziario del 1891 e il
regolamento per i riformatori governativi del 1907, che furono articolati in 4 categorie e
rinnovati con importanti cambiamenti: importanti cambiamenti relativi al personale e ai
metodi di intervento. In particolare è istituita la nuova figura dell’istitutore, che doveva
essere un insegnante elementare, in sostituzione dell’agente carcerario, sotto la direzione
di un censore e di un vice censore
5
.
Per l’individuazione della pena adeguata, si procedeva con l’osservazione e lo studio del
minore (art. 14), e con l’esame psicofisico dello stesso (art. 24), per valutarne i termini di
imputabilità.
4
De Cataldo Neuburger, L., (a cura di), Giudicando un minore, Mito e realtà della giustizia minorile, Giuffrè, Milano
1984.
5
De Leo, G., (a cura di), L'interazione deviante. Per un orientamento psicologico al problema norma-devianza e criminologia,
Giuffrè, Milano 1981.
15
I codici penali e di procedura penale approvati nel 1930, e la legge minorile del 1934,
rappresentano elementi di continuità e di sintesi rispetto a tutto il processo precedente.
Il codice Rocco (1931) ha rappresentato un momento di equilibrio nello scontro
ideologico tra scuola classica e scuola positiva: per i soggetti valutati in termini di
normalità biologica e psichica viene presunto il libero arbitrio e perciò sono imputabili e
la pena è determinata e ha funzione retributiva (scuola classica); ai soggetti che non si
trovano in tali condizioni di normalità biologica e psichica è negato il libero arbitrio e
deve essere provata l’imputabilità. La pena è concepita in termini quantitativi
indeterminati, non ha funzione retributiva bensì acquista, sotto la forma della misura
della sicurezza, funzioni terapeutiche e di difesa sociale (scuola positiva).
Il codice Rocco e la legge del 1934 considerano i minorenni come appartenenti all’area
della non normalità biologica e psichica; inoltre il limite di età richiesto per la non
imputabilità passa dai 9 ai 14 anni.
Nell’arco di età dai 14 ai 18 anni, il minore è ritenuto imputabile solo dopo che il
tribunale per i minorenni avesse riscontrato in lui la capacità di intendere e di volere,
capacità che doveva essere dimostrata di volta in volta con l’ausilio della scienza positiva.
Al contrario, dai 18 anni in poi la capacità di intendere e volere è sempre presunta.
I minori riconosciuti non imputabili erano considerati socialmente pericolosi e quindi
affidati a un riformatorio giudiziario o alla libertà vigilata.
Per quanto riguarda l’esecuzione della pena, il codice Rocco prevedeva che i minori
dovessero scontare la condanna in “stabilimenti separati da quelli destinati agli adulti,
ovvero in sezioni separate di tali stabilimenti ed era loro impartita, durante le ore
destinate al lavoro, una istruzione diretta soprattutto alla rieducazione morale”.
La rieducazione, quindi, rappresentava l’obiettivo principale da perseguire ma, nella
realtà, esso difficilmente veniva raggiunto.
Il R.D.L. n. 1404 del 20 luglio 1934 rappresenta un passo avanti nel settore minorile,
poiché furono istituite due nuove strutture, competenti territorialmente, che
rappresentano la base giudiziaria, penitenziaria e rieducativa: il Tribunale per i minorenni
e il Centro di Rieducazione per i minori.
16
I Tribunali per i minorenni sono stati istituiti nell’ambito di ogni Distretto di Corte di
Appello; questo perché era sentita la necessità di attenuare il rigore delle misure penali
nei confronti dei giovani e di rispettare le esigenze educative dei minori che avevano
infranto la legge. Tale organo comprende le competenze penali, civili e amministrative.
Secondo l’art. 2 del R. D. L. citato, il tribunale è composto “da un magistrato di Corte di
Appello che lo presiede, da un magistrato di Tribunale e da due cittadini, un uomo ed
una donna, benemeriti dell’assistenza sociale, scelti fra i cultori di biologia, di psichiatria,
di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia, che abbiano compiuto il
trentesimo anno di età”.
Il Centro di Rieducazione per minorenni comprendeva:
a) l’Istituto di Osservazione che coincideva con la carcerazione preventiva e che
ospitava minori dai 14 ai 18 anni in attesa di giudizio;
b) gli Uffici di Servizio Sociale ;
c) i Riformatori Giudiziari;
d) le Prigioni Scuola, vere e proprie strutture penitenziarie dove i minori
scontavano la condanna fino al compimento del diciottesimo anno di età.
Per quanto concerne la competenza penale, il Tribunale per i minorenni è competente
per i procedimenti penali riguardanti reati commessi dai minori degli anni 18.
Originariamente tale competenza passava al Tribunale ordinario per tutti quei casi in cui
il minorenne avesse compiuto il fatto reato assieme a maggiorenni: tale articolo è stato
comunque modificato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 222 del 27 luglio 1983
denominata “sentenza stralcio” che conferma la competenza al tribunale per i minorenni
per tutti i giudizi concernenti minori anche quando vi siano coimputati maggiorenni.
Negli anni successivi la legge del 1934 ha subito varie modifiche e integrazioni (la sua
conversione in legge nel 1935, una notevole integrazione con la legge 25 Luglio 1956, n.
888 e 27 Dicembre 1956, n. 1441, e più recentemente il DPR 24 Luglio 1977, n. 616).
Nel 1956 fu approvata la cosiddetta legge di riforma, che affermò decisamente l’ideologia
rieducativa, programmando una serie di presidi di carattere assistenziale e rieducativo, tra
i quali, in particolare, il Servizio Sociale minorile, realizzato poi di fatto nel 1962. La
legge del 1956 attribuisce particolare importanza all’osservazione scientifica della
17
personalità e prevede l’organizzazione di strutture rieducative diversificate, da affiancare
alle case di rieducazione.
Il Tribunale dei minorenni, fino al 1977, si serviva di strutture e servizi sociali
appositamente costituiti ed afferenti al Ministero della Giustizia, che avevano il compito
di fornire un supporto tecnico ed organizzativo alle attività dei giudici minorili nel
campo penale, civile e amministrativo.
Alla fine degli anni ‘60, l’ideologia rieducativa largamente sottoposta a critiche da una
contestazione giovanile che evidenziava come il sistema giudiziario fosse sempre stato
pesantemente punitivo, facendo ricorso frequentemente, sia attraverso misure penali, sia
attraverso misure amministrative, all’internamento in istituzioni chiuse e separate dal
resto della comunità, assumendo in questo modo una funzione di etichettamento. In tale
discussione influirono autori come Goffman, Laing e Basaglia, mentre importanti furono
i contributi e le richieste di rinnovamento forniti da alcuni tecnici come Canevaro,
Radaelli, Giannotti e Occulto, Meucci, Canestrari e Battacchi. Questo portò
all’affermazione di un orientamento verso la non istituzionalizzazione dei minori che,
mentre da una parte vedeva una maggiore apertura, con più tolleranza e permissivismo,
dall’altra evidenziava un incremento delle carcerazioni preventive e degli internamenti in
riformatorio giudiziario.
Tutti questi mutamenti, facenti parte di un movimento politico e culturale più vasto,
furono affiancati da alcune innovazioni legislative che influirono profondamente
sull’azione dei magistrati minorili: la legge sull’adozione speciale, del 1967, che antepone
il bene dei minori al tradizionale vincolo di sangue; la riforma del diritto di famiglia, del
1975, dove si tratta della parità tra i coniugi e l’interesse prioritario dei figli.
La legge n. 382 del 1975 e il DPR n.616 del 1977, sanciscono il passaggio del sistema
rieducativo minorile dalla gestione del Ministero della Giustizia a quella dei Comuni,
secondo una linea di decentramento e di istituzionalizzazione. Con il DPR 616 i Comuni
inserivano dei programmi finalizzati alla prevenzione e al trattamento della devianza
giovanile all’interno di piani più vasti di politica sociale.
Le case di rieducazione furono chiuse e sostituite con strutture di piccole dimensioni,
strettamente connesse con il territorio circostante.
18
Il DPR 616 ha inoltre introdotto un maggior ampliamento di rapporti tra realtà esterna e
Tribunale per i minorenni. Tutte le misure rieducative decretate dall’autorità giudiziaria,
infatti, sono gestite dai Comuni con ampia autonomia operativa, ma spesso con
difficoltà, a causa della mancanza di risorse, insufficienti per rispondere adeguatamente
alle decisioni dei giudici. Tutto ciò è sicuramente avvenuto sull’intero territorio nazionale
e alcune esperienze specifiche e significative del nord come Milano, Torino e Bologna lo
stanno a dimostrare: in Sardegna tale decreto è divenuto Legge Regionale solo dopo
circa 10 anni per cui vi è un notevole ritardo applicativo e organizzativo rispetto alle altre
regioni d’Italia.
1. 2. Imputabilità e incapacità di intendere e volere
Riguardo all’imputabilità e la capacità di intendere e volere, è utile evidenziare
l’evoluzione storica e significativa nel procedimento a carico dei minori autori di reato.
Dalla fine del secolo scorso le scienze umane divennero parte integrante del sistema della
giustizia penale, conseguentemente allo spostamento dell’interesse delle scienze
criminologiche dal crimine al criminale, dall’atto commesso al pericolo potenziale
dell’individuo, dalla punizione del colpevole alla protezione del corpo sociale.
In questo periodo il sistema penale tradizionale fu affiancato da un apparato tecnico nel
cui ambito le scienze mediche assunsero una sempre maggiore rilevanza, soprattutto con
l’affermarsi della scuola italiana di antropologia criminale e la conseguente introduzione
di strumenti clinici finalizzati alla valutazione della “pericolosità sociale”. Per quanto
riguarda il sistema della giustizia minorile, nel 1934, in Italia, il connubio tra diritto
penale e scienze psicologiche trovò concreta esemplificazione nell’istituzione del
tribunale per i minorenni e nel nuovo assetto legislativo dei cosiddetti “interventi
rieducativi”: venne sancito, nel mondo giudiziario minorile, l’ingresso di “esperti” la cui
funzione, all’interno dei centri di osservazione, consiste nell’eseguire “l’esame scientifico
del minorenne, stabilirne la vera personalità e segnalare i mezzi più idonei per assicurarne
il recupero alla vita sociale” (Art. 8 R.D.L. 20 Luglio 1934, n. 10404).
19
Nel 1956, con l’approvazione della legge di riforma, le scienze umane raggiunsero la loro
massima espressione nel sistema della giustizia minorile con la decisa affermazione di
un’ideologia rieducativa e con la previsione, almeno sulla carta, di strutture riabilitative
diversificate (pensionati giovanili, focolari di semilibertà, laboratori speciali, ecc.) da
affiancare agli istituti rieducativi.
Le varie disposizioni contenute nella nuova legge di riforma, evidenziarono uno stretto
rapporto fra tratti di personalità e cause del comportamento deviante, dal punto di vista
di un approccio alla devianza ispirato ai criteri della rieducazione e del reinserimento
sociale. In tale periodo il comportamento deviante era visto come un disagio della
personalità e l’intervento doveva servire come terapia. Questa concezione richiedeva un
intervento operativo che s’ispirava a quello medico, pur cadendo in un contesto
strutturalmente diverso da quello connaturale al rapporto terapeutico.
All’interno di questo tipo di schema, la legge del 1956 valorizza, in particolare, un
momento diagnostico in cui lo psicologo valuta la capacità di intendere e volere e la
maturità del minore, al fine di attenuare il rigore delle misure penali nei suoi confronti.
Tale valutazione, al di là di ogni riferimento a parametri patologici, è vincolata
all’elemento cronologico e quindi allo studio degli stati di sviluppo e dei livelli di
maturazione individuale, da un punto di vista biologico, psicologico e sociale.
L’intervento terapeutico è ispirato, in tale contesto, al principio della individualizzazione
e l’intervento prognostico è richiesto dalla legge al fine della concessione del perdono
giudiziale, ma anche e soprattutto al fine della dichiarazione della pericolosità sociale del
minore, secondo la definizione creata ed elaborata dalla scuola Italiana di antropologia
criminale.
Nella sua attività diagnostica-prognostica lo psicologo del dopo-riforma, tra gli strumenti
tecnici tradizionali della psicologia clinica, ricorre sempre più spesso alle indagini che si
avvalgono della somministrazione di reattivi mentali, di livello e di personalità.
I reattivi mentali, soprattutto quelli di personalità, ottennero ampi consensi per la loro
presunta capacità diagnostica e, in particolare, il test di Rorschach fu considerato uno
strumento essenziale per una corretta diagnosi psichiatrica.
20
In questo momento storico quindi, considerato il successo della psicologia e della
psichiatria clinica, si verificò una sempre maggiore utilizzazione di tali scienze all’interno
del processo penale, mentre il fenomeno della delinquenza minorile veniva inteso come
semplice espressione di disturbi della personalità.
Tale concezione, che considera i minori come portatori di particolari mancanze o
problemi, prevalentemente individuali, si tradussero, in campo psicologico - giuridico,
nell’esaltazione scientifica e strumentale del concetto d’immaturità e nella conseguente
valorizzazione di nuove strutture terapeutiche, finalizzate a correggere i tratti “asociali”
della personalità dei minori.
Verso la fine degli anni ‘60, la nascita di nuovi orientamenti teorici come l’interazionismo
e il naturalismo, sottopose a dure critiche l’approccio clinico nell’interpretazione della
devianza.
Le nuove teorie sottolineano che la criminalità rifletteva essenzialmente il conflitto tra
differenti posizioni di autorità e derivava dal fatto che i gruppi al potere incorporano le
loro norme e i loro valori nella legge penale e definiscono come criminali le deviazioni da
tali standard.
Con la crisi del modello clinico in criminologia, anche l’ideologia rieducativa fu investita
da una decisa critica.
Si evidenziò, in particolare, che il vero obiettivo degli istituti minorili era stato da sempre
quello di rinforzare e consolidare l’azione di etichettamento svolta dalla polizia e dalla
magistratura e di collocare, in modo preciso, nel mondo criminale, ragazzi già in
precedenza identificati in senso negativo.
Si giunse così ad affermare che la finalità riabilitativa mascherava in realtà un processo di
emarginazione e di esclusione che colpiva un gran numero di ragazzi appartenenti alle
classi sociali meno privilegiate
6
; infatti secondo Battachi: “nei ragazzi ricoverati in istituti
rieducativi e nelle prigioni-scuola e riformatori giudiziari è dato riscontrare con grande
frequenza una evoluzione della personalità in senso dissociale, completante sul piano
culturale in una mentalità da delinquente professionista”.
7
6
Bandini e Gatti, (1979).
7
Battacchi, Delinquenza minorile psicologia e istituzioni totali, Martello, Milano,
(1968)p.41.