per la vendita di promesse elettorali (cfr. par. 2.3). Secondo Bruce Newman
[1994] il marketing politico ha contribuito in maniera significativa a dare nuove
forme alla democrazia americana ed europea, e anche nel nuovo millennio è
«quasi indispensabile favorire una migliore conoscenza delle metodologie del
marketing per tutti i partiti che hanno a cuore la vita democratica» [Newman,
1994, 139]. Il lavoro che segue vuole, nella sua estrema limitatezza ed
approssimazione, cercare di capire l’effettiva efficacia del marketing in politica,
con tutto l’approccio multidisciplinare che ne consegue, specificandone i limiti se
non le perniciosità, e non trascurando del resto fattori contestuali solo ad uno
sguardo superficiale scorrelati rispetto alle strategie di mercato elettorale.
Fin dall’antichità il modo considerato migliore per ottenere consensi al fine
di accedere a una carica pubblica consisteva quasi esclusivamente nel voto di
scambio, o voto clientelare: ovvero ottengo voti in cambio di favori a uno o più
gruppi di interesse. Questo fenomeno può essere reputato parte dell’analisi dei
teorici pluralisti, che hanno esaminato la dinamica della politica di gruppo. Essi
danno una particolare importanza a quei processi che sono allo stesso tempo il
mezzo e l’effetto delle azioni con cui gli individui uniscono i loro sforzi nei
gruppi al fine di competere per il potere. I cosiddetti gruppi di interesse o di
pressione sono «la naturale controparte della libera associazione in un mondo
dove la maggior parte dei beni desiderati sono scarsi e dove un complesso
sistema industriale frammenta gli interessi sociali e crea molteplici domande»
[Held, 1996, 281]. Queste fazioni non sarebbero affatto una grave minaccia alle
associazioni democratiche ma una fonte strutturale di stabilità ed espressione
della democrazia. Partendo dal fatto che la pratica del clientelismo (e in senso più
stretto del lobbying), sarebbe ingenuo negarlo o minimizzarlo, persiste in modo
diffuso, è innegabile che l’avvento della società di massa abbia portato a un
nuovo tipo di opinione pubblica, di mezzi di comunicazione, di culture, di
consumi, e ha segnato un radicale cambiamento degli approcci della classe
politica nei confronti dell’elettorato. A partire da Walter Lippmann e la sua opera
5
L'opinione pubblica [1922] è iniziato lo studio di nuovi strumenti e tecniche per
rapportarsi col pubblico, che si concentrano sullo sviluppo massmediatico della
propaganda, la quale ha assunto proporzioni tali, specie in relazione all’aumento
esponenziale dei fruitori dei messaggi, da diventare elemento strutturale e
talvolta meritevole di un ministero ad essa dedicato.
Va altresì segnalato che l'utilizzo del marketing in politica presuppone un
raffronto tra l'entità partito e l'entità azienda che verrà descritto nel secondo
capitolo. Tale raffronto porta a considerazioni che in parte esulano dagli
argomenti trattati, ma che fanno riflettere sulla dimensione pratica e simbolica
che l'azienda come istituzione ha assunto negli ultimi anni, una fase che Colin
Crouch [2004] ha denominato nell'omonimo libro Postdemocrazia, e su come
questa dimensione abbia profondamente influenzato i partiti politici occidentali.
L'azienda al giorno d'oggi si presenterebbe come fantasma, dai tratti leggerissimi
che ne mutano di frequente l'identità stessa. Tale leggerezza sarebbe però solo
apparente e l'azienda non sarebbe affatto un'istituzione debole, sintomo della
dissoluzione del capitale e del superamento della divisione in classi. Al contrario,
questa «capacità di decostruzione è la forma più estrema assunta dal predominio
dell'azienda nella società contemporanea» [Crouch, 2004, 49]. L'azienda diviene
secondo Crouch il modello istituzionale anche per il settore pubblico poiché si
starebbe avviando la ristrutturazione degli enti pubblici per renderli più attraenti
ai finanziatori privati, mentre l'esternalizzazione da parte dei governi alle imprese
di un ingente ambito delle loro attività si tradurrebbe in un rapporto più stretto fra
potere economico e organi pubblici e nell'aumento del potere politico delle lobby
economiche e finanziarie.
Nel primo capitolo introduttivo si parlerà della comunicazione politica al
fine di creare un quadro di riferimento per il marketing politico. Inoltre ci si
soffermerà su alcune distinzioni etiche e semantiche sui concetti di
comunicazione politica, propaganda e persuasione. Nel secondo capitolo si avrà
6
un approccio teorico alla disciplina del marketing politico, facendo una disamina
delle varie esposizioni che ne hanno analizzato le caratteristiche fondanti. Nel
terzo capitolo ci si dedicherà al processo di marketing propriamente detto, ovvero
a una descrizione di come effettivamente si realizza l’applicazione delle tecniche
di marketing in ambito politico, con il supporto di alcuni esempi. Nel quarto
capitolo ci si soffermerà principalmente sull’aspetto della gestione dell’immagine
del partito/candidato, perché ritenuta una delle dimensioni più significative del
marketing in politica, pur tenendo conto del fatto che in tale gestione
intervengono anche fattori al di fuori della sfera propria del marketing. Nel
quinto capitolo si proporrà una disamina di alcune teorie che hanno studiato i
processi di formazione delle opinioni politiche e del consenso fra cui: agenda
setting, framing, priming, spirale del silenzio, modello di propaganda. Tali teorie
meritano attenzione in quanto il funzionamento di un piano di marketing non può
prescindere da alcune condizioni ambientali che vengono da esse descritte. Il
sesto capitolo, siccome il marketing focalizza la sua attenzione sul consumatore
(in questo caso elettore), includerà una selezione di alcune teorie che hanno
analizzato l’opinione pubblica e le dinamiche psicosociali che portano alla
scelta/non scelta di voto; l’attenzione sarà perciò concentrata sul destinatario
(target) della comunicazione politica e del piano di marketing e sugli effetti che
questi hanno sull'individuo.
7
1. COMUNICAZIONE POLITICA, PROPAGANDA, PERSUASIONE
La politica ha sempre avuto una forte dimensione simbolica e comunicativa,
ma con l’avvento della società di massa il rapporto tra comunicazione e politica
ha raggiunto livelli di interdipendenza impensabili fino a qualche secolo fa. Il
comunicare la politica è necessario perché richiesto dalla funzione di
rappresentanza e di gestione della cosa pubblica, al fine di ottenere o mantenere il
consenso attraverso il dibattito. La comunicazione di massa ha amplificato il
ruolo della leadership politica imponendo i registri dello spettacolo e
«trasformando la natura dello spazio pubblico da luogo del dialogo a luogo del
consumo» [Mazzoleni, 2004, 8] della comunicazione stessa. Come suggerisce
però Jacques Gerstlé non bisogna confondere l’industria politica, cioè «l’insieme
delle tecniche e delle strategie utilizzate dagli attori politici per sedurre, gestire e
circuire l’opinione pubblica [con] la comunicazione, che impregna l’intera
attività politica a tal punto che quasi tutti i comportamenti politici implicano un
ricorso ad una qualche forma di comunicazione» [Gestrlé, 1992, pp. 14-22].
Prima di iniziare un breve excursus sulla storia della comunicazione politica
bisogna premettere che essa ha un fondante carattere interdisciplinare che lo
rende campo privilegiato per leggere la realtà politica e in cui si riflette la
concorrenza dei principali paradigmi delle scienze politiche e delle scienze
sociali, che spesso sono arrivate a conclusioni del tutto divergenti.
1.1 STORIA DELLA COMUNICAZIONE POLITICA
Il primo luogo in cui si è assistito a una prima forma di comunicazione
politica è l’agorà, termine con cui nella Grecia antica si indicava la piazza
principale della città, e che con l’andare del tempo è divenuto luogo principale
del dibattito pubblico, oltre che punto di riferimento ai livelli economico e
religioso. Lì avvenivano le assemblee dei cittadini che si riunivano per discutere
8
delle questioni più importanti; fu per il tempo una novità assoluta e unica nel suo
genere, e vide lo svilupparsi della retorica, intesa come arte della persuasione per
determinare la qualità e la direzione dei rapporti di forza per il potere. Questa
concezione andrà via via affievolendosi già a partire dalla Roma repubblicana,
che ha introdotto diffusamente l'accennato metodo del voto di scambio. Si
ricomincerà a parlare seriamente di dibattito politico pubblico solo nella seconda
metà del XVIII secolo con l’avvento del pensiero illuminista e con l’evolversi del
duplice processo di democratizzazione e di comunicazione nel teorizzato spazio
pubblico allargato, dove le differenti componenti hanno uno statuto legittimo.
Tuttavia questo modello ideale democratico fu ipotizzato e auspicato «nel
contesto di una società illiberale e poco numerosa, radicalmente differente dalla
società di massa che prenderà forma nel XX secolo, dominata dal peso dei grandi
numeri, dai media e […] dall’opinione pubblica» [Wolton, 1989, 29] di massa.
Perciò il problema di imporre, e soprattutto di adattare tale modello alla società di
massa, e nella fattispecie all’uso dei mass media da parte del potere, trovò piena
rilevanza nella prima metà del XX secolo con le guerre mondiali che videro
l’ascesa delle tecniche di propaganda e di manipolazione dell’opinione pubblica,
le quali ebbero in molti Stati il sopravvento sulla dialettica democratica e la
libera informazione.
Fra gli studiosi che parlarono dello sviluppo e declino della sfera pubblica
borghese troviamo Jurgen Habermas nella sua opera La trasformazione
strutturale della sfera pubblica [1962]. Essa nacque e crebbe negli anni a cavallo
tra XVIII e XIX secolo, in cui si assistette alla crescita di un pubblico letterario in
cui la borghesia imparò a riflettere criticamente su sé stessa e sulla società in cui
viveva mediante la discussione, il confronto e lo scambio dialogico in un luogo
condiviso. Ciò avveniva in un’epoca agli albori della rivoluzione industriale e
durante l’articolazione filosofica del liberalismo politico. Con lo sviluppo della
società di massa e del Welfare State però si dovette far fronte alle contraddizioni
dell’ordine costituzionale liberale, evidenziate dalle trasformazioni portate
9
dall’industrializzazione e dal sorgere della società di massa, del capitalismo e del
consumismo, a partire dalla seconda metà del XIX secolo. In particolare si
accentuò una chiara demarcazione fra ciò che è pubblico e ciò che è privato, fra
Stato e società, il cui intrecciarsi è visto da Habermas proprio nella costituzione
del Welfare State, parte di una più ampia dialettica in cui si avviò la
disintegrazione della sfera pubblica borghese per salvare l’ordine liberale e
costituzionale. Questo tipo di società presenterebbe tra l’altro gli effetti perniciosi
per la sfera pubblica della commercializzazione e del consumismo attraverso la
crescita dei mass media, delle cosiddette pubbliche relazioni e della cultura del
consumo. Nella fattispecie la commercializzazione avrebbe soppresso la funzione
democratica dei media facendo degradare la sfera pubblica «nel falso mondo
della creazione di immagini e del controllo delle opinioni» [Thompson, 1995,
111]. A ciò vengono correlati gli effetti problematici dei partiti di massa sulla
politica parlamentare deliberativa e sul dibattito razionale e critico nella sfera
pubblica, visti come impedimento alla cittadinanza di avere consapevolezza
critica, e come rischio di una scarsa sensibilità nei confronti della vita politica. Al
contrario Joshua Meyrowitz [1985], in riferimento alla diffusione dei media
elettronici, e specialmente della televisione, parla di spazio pubblico allargato che
supera i confini dell’interazione fra pochi eletti e ammette tutti alla costruzione
dell’identità sociale e alla partecipazione alla vita politica, visto che si sono
volatilizzati i confini tra sfera pubblica e sfera privata. Questo perché i media
hanno modificato le forme e le dinamiche della conoscenza sociale, le quali
hanno sempre meno a che fare con lo strutturarsi dell’esperienza legata ai confini
degli spazi socialmente delimitati, con ripercussioni innanzitutto sulle identità di
gruppo, le cui distinzioni non sono più date per scontate. Ad esempio la
televisione, rivelando gli spazi da retroscena ai vari tipi di pubblico (maschile-
femminile, adulto-bambino, politico-elettore) ha portato a un ridimensionamento
dell’immagine e del prestigio delle identità di gruppo un tempo predominanti.
Infatti «i ruoli sociali si possono intendere solo nel senso di situazioni sociali che,
10
fino a poco tempo fa, erano legati a un luogo fisico», e «la logica dei
comportamenti situazionali è molto legata ai modelli del flusso informativo, cioè
i sensi dell’uomo e le loro estensioni tecnologiche» [Meyrowitz, 1985, 135]. Va
però detto che questa situazione comporta anche il rischio che i contenuti un
tempo privati e ora resi pubblici siano frivoli e privi di rilevanza sociale: fanno da
esempio i pettegolezzi che sovrastano le campagne elettorali statunitensi, le quali
molto spesso enfatizzano mediaticamente qualità e difetti morali a scapito di
aspetti più concreti come le capacità professionali e i gruppi di interesse che
stanno dietro al candidato.
Tornando a Habermas, Sean Cubitt [2005] ha criticato la sua definizione di
sfera pubblica, dal momento che una sfera da cui alcuni gruppi erano esclusi in
quanto tali non è affatto pubblica. Difatti tale sfera richiedeva come condizioni di
accesso l’educazione e la proprietà privata, e per questo motivo poteva includere
solo le classi alte ed escludere la maggioranza della società, composta da poveri,
donne, schiavi, migranti, criminalizzati, ecc. Il pubblico rimarrebbe quindi una
forma ideale, e sua espressione un’opinione pubblica informata, critica e
partecipante in maniera consapevole. Questo non significa però che non possa
mantenere importanza come strumento euristico, dando valore ai fori
dell’informazione e dell’opinione. Dahlgren invece distingue dalla sfera pubblica
politica la sfera pubblica culturale, in cui circolano le idee e le discussioni sulla
letteratura e sulle arti e non è necessariamente in relazione con la democrazia e la
politica, che al contrario presuppone la trattazione di «questioni di interesse
comune» in uno «spazio discorsivo, istituzionale e topografico» [Dahlgren, 1995,
9].
Gianpietro Mazzoleni deduce dalle considerazioni di Habermas che «un
carattere fondante della comunicazione politica [è] il suo legame con il contesto e
le regole della democrazia» [Mazzoleni, 2004, 16]: una vera dialettica è possibile
solo se c’è libertà. Per questo motivo la distinzione dalla propaganda, intesa
come manipolazione delle masse, risiede proprio nella presenza di una sfera
11
pubblica che si avvicini al modello illuminista, e «la comunicazione tra gruppi di
interesse e di potere riscontrabili nella vita e nella storia degli imperi, dei regni,
delle dittature antiche e moderne non si possono a rigore considerare
comunicazione politica» [ibidem, 17]. Certamente stando agli ideal-tipi della
democrazia diretta ateniese e rappresentativa occidentale, la comunicazione
politica nasce e si sviluppa proprio in un contesto che permette l’esposizione e
l’ascolto delle diverse posizioni di quei gruppi, associazioni e istituzioni
interrelate al sistema politico di riferimento. Detto questo, essendo appunto
modello ideale, è difficile riscontrare in toto le suddette condizioni di
democrazia in quanto, proprio per la natura del sistema, molte decisioni possono
venir prese nell’interesse di pochi, oppure di molti a scapito delle minoranze,
comunque facenti parte del demos. Molti dubbi perciò possono essere posti sia
sull’effettivo funzionamento dei vari modelli di rappresentatività1, sia sul fatto
che la volontà popolare, concetto che può voler dire tutto e niente (cfr. par. 2.5),
espressa tramite le elezioni sia la migliore manifestazione della democrazia
(Hitler e Mussolini furono eletti legalmente)2. D’altro canto gli stessi regimi
totalitari e le dittature sono ben lungi nella politica, dall’essere immobili dal
punto di vista comunicativo poiché il regime opera in un costante sforzo auto-
celebrativo o denigratorio nei confronti del nemico, ma soprattutto per il fatto che
l'instaurarsi e il perdurare di una dittatura è indiscutibilmente legato alla
1
Colin Crouch [2004] ad esempio definisce i sistemi politici occidentali attuali “postdemocrazie” (cfr.
introduzione), perché vi si starebbe affermando una democrazia sempre più formale (caratterizzata
soprattutto dalle elezioni, che però sono dominate ed orientate dai poteri forti), definito “liberale” (nel
senso che deve evitare di interferire con l’economia) e dove la possibilità di partecipare delle masse è
sempre più ridotta.
2
Su questo problema aveva già riflettuto, fra gli altri, Alexis de Tocqueville [1835] quando si riferiva alla
dittatura della maggioranza, da lui considerata come il paradosso delle democrazie moderne. Infatti,
seguendo una visione elitistica, egli temeva che la maggioranza "decidesse" e non tenesse in
considerazione la visione espressa dalla minoranza che poteva invece essere autorevole o talvolta più
adeguata ad un determinato contesto. Inoltre secondo Tocqueville il principio democratico comporterebbe
negli individui un tipo di uguaglianza immaginaria nonostante una disuguaglianza di natura economica o
sociale reale della loro condizione. Questo processo si accompagnerebbe oltretutto ad un aumento
dell’individualismo che contribuirebbe da un lato ad indebolire la coesione sociale e dall’altro indurrebbe
l’individuo a sottoporsi alla volontà della maggioranza.
12
negoziazione: Mussolini ha negoziato con la monarchia, con il clero e con gli
industriali; negoziazioni solo in parte segrete (es. i Patti Lateranensi). Infine il
fatto stesso che le democrazie occidentali dichiarino la volontà di annientamento
di un nemico (es. i terroristi) e che lo facciano con il fondamentale supporto dei
mass media, mostra che la comunicazione politica può venir utilizzata anche in
modi non propriamente previsti da un dibattito politico che segue l'idealizzazione
sopra citata, seppur in ambito formalmente democratico. Come ha sostenuto
anche Carl Schmitt ne Il concetto di politico [1927], tale concetto presuppone
l’antitesi amico/nemico, che per extrema ratio può portare alla lotta violenta fra
due gruppi politici contrapposti, e all’eventuale annientamento di uno di questi.
Lo stesso termine guerra umanitaria (per l’umanità), ad esempio, è fuorviante
perché l’umanità in quanto tale non può condurre nessuna guerra, non avendo
nemici (siamo tutti umani): il nemico dell’umanità diviene quindi un subumano.
Per questo motivo persiste l’antitesi amico/nemico e in questo caso una fazione
(o entrambe) si impadronisce del concetto di umanità e si identifica in esso.
Inoltre secondo Schmitt, se pure la democrazia è una forma di Stato che rientra
nelle categorie del concetto di politico, il liberalismo invece per sua definizione,
attraverso l’individualismo di cui si permea, porta sfiducia verso ogni forza
politica o forma statale. Non esisterebbe perciò una politica liberale in sé, ma
solo una segregata a determinati settori in cui può essere ostacolata la libertà
individuale. Tali teorie del liberalismo riguardano quasi sempre la politica
interna, per contrastare metodi o procedure ritenute illiberali e contro la libertà
individuale, e che normalmente si risolvono in forme di compromesso e
compensazione. Il pensiero liberale ignora Stato e politica muovendosi in sfere di
etica ed economia, e l’individuo può decidere da solo circa la sua vita e sceglie
da solo il suo nemico. In conclusione, se la concezione di Mazzoleni di
comunicazione politica presuppone un ambito democratico, questo non è il caso
di Schmitt, visto che la comunicazione politica, in quanto tale, può essere
utilizzata per “comunicare” l’inimicizia o la subumanità dell’Altro.
13
Analogamente, l'accostamento dei concetti comunicazione politica e liberalismo
risulterebbe ossimorico, proprio perché, secondo Schmitt, non esisterebbe una
politica liberale in sé, se non in senso o rispetto alle categorie di politico.
1.2 MODELLI DELLA COMUNICAZIONE POLITICA
Negli ultimi decenni abbiamo assistito all’instaurazione della
comunicazione politica all’interno di uno spazio pubblico mediatizzato, ovvero di
uno spazio in cui i media occupano il ruolo di perno della comunicazione tra
cittadinanza e mondo della politica. Mentre nel periodo illuminista il dibattito
pubblico era orientato alla conquista di spazi di azione e di influenza che erano
negati dal potere autoritario, nella società di massa «il potere viene conquistato,
gestito e contestato attraverso istituzioni e processi che basano la propria
legittimità e il proprio funzionamento sul consenso ottenuto per mezzo di forme
di dibattito pubblico, quali le campagne elettorali, la dialettica tra gruppi di
interesse e la circolazione delle informazioni» [Mazzoleni, 2004, 20].
Mazzoleni propone due modelli della comunicazione politica moderna: il
primo è uno schema relazionale tra istituzioni politiche, mass media e cittadini, i
tre attori della scena politica. Secondo questo modello, denominato
«pubblicistico-dialogico», i media non sono lo spazio pubblico ma
contribuiscono a crearlo e la loro azione va a sommarsi a quella degli altri due
attori. Tale spazio in cui avviene uno scambio comunicativo che coinvolge tutti e
tre gli attori costituisce la comunicazione politica mediatizzata. Nel secondo
modello, detto «mediatico», il peso dei tre attori è sbilanciato a favore dei mass
media, portando a una mediatizzazione della politica. Da questa prospettiva
nascono due scuole di pensiero: per una, traendo spunto dall’elitismo competitivo
di Joseph Schumpeter [1942], i media sono l’arena pubblica in cui hanno luogo
lo scambio e i rapporti di forza fra gli attori, mentre l’altra, avanzata da Bernard
Manin [1995] vede una crisi di politica e partiti che ha portato i sondaggi di
opinione e l’immagine a essere la nuova area di rappresentanza e deliberazione
14
(cfr. par. 2.5). I sondaggi rappresenterebbero secondo quest'ottica la formula
attuale della demagogia perché eliminano il confronto orizzontale della
discussione nell'agorà per favorire quello verticale di tanti singoli direttamente
con un capo. Grazie ai sondaggi i governanti sarebbero in grado di governare ad
libitum senza mai distaccarsi dall'opinione dei governati, tanto peggio se il
soggetto che commissiona i sondaggi è lo stesso che ha in mano i mezzi di
informazione, chiudendo il cerchio. Ad ogni modo per entrambe le prospettive il
modello presenta i media come interlocutori dei politici e dei cittadini, alle cui
logiche devono adattarsi. Sulla linea di questa concezione, Dominique Wolton
ha così definito la comunicazione politica: «lo spazio dove si scambiano i
discorsi contraddittori dei tre attori che hanno la legittimità di esprimersi
pubblicamente sulla politica e che sono gli uomini politici, i giornalisti e
l’opinione pubblica attraverso i sondaggi» [Wolton, 1989, 28].
Come in precedenza asserito la comunicazione politica ha subito nel XX
secolo, e specialmente negli ultimi anni, una serie rilevante di trasformazioni,
causate principalmente dalla mutevolezza dei contesti sociali, valoriali e
tecnologici. Jay Blumer e Dennis Kavanagh in un articolo intitolato The third
age of communication [1999] hanno sintetizzato l’evoluzione della
comunicazione politica postbellica nei paesi anglo-sassoni secondo
un’angolazione temporale, dividendo il periodo studiato in tre fasi principali3:
una prima fase nell’immediato dopoguerra, che presenta alta identificazione
partitica e/o ideologica, in relazione alle fratture e dinamiche sociali presenti a
quel tempo, e per questo motivo i partiti politici fungevano da perni principali di
trasmissione (comunicazione) tra il sistema politico e i cittadini. I candidati e i
loro messaggi tenevano quindi poco conto di immagine e tecniche comunicative
in quanto l’elettore aveva un approccio selettivo alle fonti di informazione che
solitamente non portavano che a un rafforzamento delle opinioni preesistenti.
3
Nel secondo capitolo osserveremo che a queste tre fasi ne corrispondono altrettante per quanto concerne
lo sviluppo del marketing, che ha anch’esso risentito in maniera si può dire analoga dei cambiamenti
socio-economici avvenuti nel dopoguerra del XX secolo.
15
Blumer e Kavanagh segnalano inoltre che di norma l’elettore, sebbene
fortemente identificato, aveva una conoscenza superficiale dei temi dell’agenda
politica, mentre quelle basse percentuali di elettori fluttuanti, cioè senza
particolari convinzioni ideologiche, erano perlopiù disinteressate e poco
coinvolte negli argomenti introdotti dai comunicatori politici. Se questa fase è
durata negli USA fino circa alla fine degli anni ’50 possiamo dire che in Italia
essa si sia protratta perlomeno fino alla metà degli anni ’70, ancora caratterizzati
da una forte contrapposizione ideologica. La seconda fase segna il mezzo
televisivo come protagonista principale, con tutto quel che ne consegue. Si
assiste ad un allentamento delle fedeltà partitiche e delle fratture subculturali: la
televisione (cfr. 3.5.2) raggiunge segmenti di popolazione che sono scarsi
consumatori dei vecchi media e porta ad ottenere pubblici più ampi. I formati e i
linguaggi della televisione cominciano a influenzare con evidenza i tempi e i
modi della politica, a partire dalle campagne elettorali, le quali, per via
dell’aumento della complessità delle circostanze, cominciano ad essere elaborate
in maniera più scientifica, ad esempio mediante la consultazione di esperti prima
di un dibattito del pronunciamento di un discorso. Questa fase inizia più
marcatamente in Italia con la cosiddetta epoca del riflusso degli anni ’80, in cui si
assottigliano notevolmente le fratture ideologiche e lo scontro di classe. La terza
fase della comunicazione politica, o fase postmoderna, è iniziata negli anni ’90 e
persiste fino a oggi4. Si caratterizza prima di tutto per l’aumento, nel numero e
nella tipologia, dei mezzi di comunicazione, e per una loro maggiore velocità e
pervasività nell’arrivare nella vita delle persone. Una delle caratteristiche
principali della comunicazione politica postmoderna è l’assunzione di
4Fra gli elementi che hanno ritardato in Italia la “postmodernizzazione” della comunicazione politica,
Angelo Mellone [2004] ricorda una generale bassa propensione degli elettori all'issue voting e a una
correlato tasso poco elevato di volatilità elettorale (fedeltà leggera). La riduzione del numero dei partiti e
la convergenza al centro degli stessi, accompagnata dalla diminuzione della temperatura ideologica
dell'erosione delle subculture politiche, favorendo un'apertura del mercato, un maggiore sviluppo di
strategie comunicative coerenti da parte dei leader delle coalizioni, e una più alta propensione dei partiti a
“puntare” segmenti differenziati di elettorato.
16
professionisti (spin doctor) per curare il rapporto con l’opinione pubblica, sia per
comunicare a rischio zero con i media, specialmente su questioni delicate che
possono intaccare la reputazione del partito. Una seconda caratteristica è la già
accennata grande quantità e diversità di programmi e produzioni mediali che
segna la diffusione del genere infotainment, talk show che mischiano il puro
intrattenimento ad un’informazione soprattutto scandalistica e sensazionalistica.
Altro fattore riscontrabile è il populismo, inteso come imbonimento degli elettori
soprattutto mediante la popolarizzazione di media e politica al fine di renderne i
contenuti più conformi ai presunti gusti delle masse. In precedenza il flusso
comunicativo seguiva maggiormente una direzione top-down per cui le le issue
(temi, questioni, problemi) dell’agenda politica erano elitariamente discusse solo
tra politici, giornalisti, politologi e lobbisti, con il pubblico quasi del tutto
assente. Se adesso sia davvero presente o meno lo vedremo meglio dopo. Altro
elemento di novità è che la comunicazione da centripeta (tendente verso un unico
nucleo centrale) è divenuta centrifuga, dal momento che la moltiplicazione dei
canali e la frammentazione dei pubblici permette ai comunicatori di confezionare
e indirizzare i messaggi a una moltitudine di segmenti differenti. E’ indubbio che
la terziarizzazione della società abbia portato ad un numero maggiore di figure
lavorative differenti e quindi, possibilmente, anche ad esigenze più peculiari,
rispetto alla classica divisione padrone contro operaio. Tuttavia è da verificare sia
quanto la comunicazione politica sia davvero variegata, sia che la
terziarizzazione abbia effettivamente fatto scomparire la distinzione tra detentore
dei mezzi di produzione e proletario, piuttosto che aver fatto semplicemente
sfumare la percezione delle differenze sociali. Un ultimo aspetto individuato dai
due studiosi americani è il già introdotto consumo della comunicazione politica
che si presenterebbe diluita nelle più svariate forme e ambiti dei mass media,
anche e soprattutto quelli non strettamente politici.
Dall’osservazione di questi modelli si può desumere che la mediatizzazione
dello spazio pubblico ha portato più in generale a una mediatizzazione della
17
società, in cui i media, grazie ad un profondo insediamento nel tessuto socio-
culturale, hanno assunto il ruolo di agenzia di socializzazione, sostituendo quelle
tradizionali come la chiesa, la scuola e il partito. La funzione dei mass media allo
stesso tempo di svago e di informazione li rende secondo Denis McQuail «una
fonte di potere e uno strumento di influenza, controllo e innovazione, [oltre che]
mezzo di trasmissione e fonte di informazioni, […] arena pubblica, fonte
importante di definizioni e immagini della realtà sociale, e quindi luogo dove si
costruiscono, conservano e manifestano i cambiamenti culturali e i valori della
società e dei gruppi sociali; [sono infine] chiave decisiva per raggiungere […]
una visibilità pubblica e la fonte di un sistema di significati per la sfera pubblica»
[McQuail 1994, 19]. Questo è dovuto innanzi tutto allo squilibrio della struttura
propria della comunicazione di massa che presenta pochi emittenti che possono
raggiungere un grande pubblico, e che devono negoziare il contenuto e il formato
della comunicazione con il sistema dei media. Anche a questo potere di
contrattazione dei media come interlocutori e controllori del potere politico si fa
riferimento quando si parla di quarto potere, ma questo, come per gli altri tre, non
significa che tale potere sia necessariamente indipendente. Vediamo ad esempio
che ai mezzi di comunicazione vengono normalmente imposti dei codici di
regolamentazione e che del resto per assolvere alla loro funzione dipendono dalle
fonti politiche. Pertanto la comunicazione elaborata per il pubblico è il risultato
di una coproduzione definita da Tim Cook [1998] negoziazione della
notiziabilità: saranno poi i diversi parametri dei sistemi politici, intesi come
caratteristiche normative e valoriali, a strutturare l’effettiva espressione della
comunicazione politica. In tal senso un aspetto che in questa sede si ritiene
saliente è la proprietà dei mezzi di comunicazione (cfr. par. 5.1).
18