suoi effetti, poiché tutto il lavoro risulta viziato da questa necessaria impostazione. I
documenti dell‟archivio comunale sono infatti atti dei consigli, lettere o carteggi
amministrativi; fonti insomma che presentano una realtà per molti aspetti già
tendenziosamente interpretata.
A sua volta la particolare ottica e la particolare angolazione che caratterizza quei
documenti impone due atteggiamenti storiografici preventivi: il primo consiste nel tenere
presente il condizionamento che i documenti reperiti hanno operato sulla scelta degli
argomenti da trattare; il secondo nella necessità di tener conto di un dato culturale e politico
che, al di là ed oltre l‟oggetto del materiale archivistico studiato, implica la particolare forma
mentis dell‟autore o degli autori del documento stesso.
Un‟altra cosa è necessario poi precisare: se si cercassero in questo studio dati precisi
e riassuntivi, si sarebbe fuori strada, poiché la storia che in esso è contenuta è una storia di
atteggiamenti, di tendenze comportamentali e di pensiero, di interpretazioni ed anche di
letture critiche delle fonti e non di dati, di fatti, di nomi e di avvenimenti precisi. Così i
documenti potevano tutti interessare una lettura interpretativa (e così è stato), ma i risultati
sono dipesi anche da ciò che si è trovato e da ciò che è stato possibile leggere, poiché si è
sempre tenuto per fermo non andare mai oltre il problema suggerito dalla fonte e mai oltre
un'impressione soggettiva fondata sulla stessa. I1 criterio portante è stato dunque quello di
basarsi prevalentemente sul materiale archivistico. Forse per questo l‟approccio ai
documenti è stato guidato dalla volontà e dalla necessità di spremere quanto più possibile e
di tralasciare quanto meno possibile. Ne è risultata una notevole mole di materiale raccolto,
materiale che a sua volta, per la natura dei suoi stessi soggetti ed oggetti ha inserito questo
studio lungo binari obbligati, tanto da impostarlo secondo linee ed interessi particolari. Con
un lavoro del genere alle spalle, la frequentazione dell'Archivio Vescovile di Rieti è stata
vincolata dal fatto di avere tra le mani argomenti e questioni ben precisi, in merito ai quali
l'archivio vescovile stesso non ha potuto aggiungere molto. I suoi fondi meriterebbero
invece una considerazione ed uno studio specifici, dopo i quali sarebbe possibile,
interessante e proficuo, accostare i risultati ottenuti nei due diversi archivi. Dal punto di vista
degli intendimenti e degli scopi che si è cercato di raggiungere con questa tesi, va detto che
l‟obiettivo principale è stato quello di studiare alcuni anni di amministrazione pontificia ed i
mesi di vita della Repubblica Romana, al fine di evidenziare il significato, la portata ed il
senso del passaggio dal governo papale a quello repubblicano. Del resto ognuno dei tre
7
capitoli che compongono questo studio risponde per sé ad un‟esigenza specifica. Nel primo
capitolo, l'attenzione è stata rivolta essenzialmente su alcuni punti chiave guidati dalla
volontà di evidenziare modi e gradi di inserimento di un centro periferico come Rieti
all'interno della compagine dello Stato della Chiesa. I1 secondo capitolo ha risposto invece
al preciso intento di studiare quei momenti di transizione che, segnando la fine della
normalità e l‟inizio dell’emergenza, precedettero la proclamazione della Repubblica
Romana. Il terzo capitolo, infine, ha tentato di definire il significato dell'esperienza
repubblicana, soprattutto tenendo conto dell‟esigenza di dover fare un confronto continuo tra
quei due diversi momenti storici che questa tesi, dal punto di vista di una ristretta e limitata
entità locale quale era Rieti, ha cercato di studiare.
8
9
Capitolo primo
GLI ANNI DELL’AMMINISTRAZIONE PONTIFICIA
9
L’amministrazione della periferia nello Stato della Chiesa del ‘700
Che lo Stato della Chiesa fosse un quid unicum è un fatto evidente. Che fosse
teocratico e fondato su una autorità che era allo stesso tempo spirituale e temporale, è
altrettanto chiaro.
Ma gli aspetti che qui saranno considerati sono altri e concernono tutte quelle
questioni che in qualche modo implicavano la connessione dell'istituzione statale con la vita
sociale, politica ed amministrativa dei centri periferici. Particolare, inoltre, dovrà essere
l‟ottica con cui verranno osservate tali questioni: un‟ottica, in altre parole, orientata secondo
l‟impostazione di fondo di questo studio, che è uno studio di storia locale che quindi
legittima un discorso preliminare solo se quest‟ultimo è legato alle implicazioni possibili
con l‟oggetto principale dello studio stesso, motivandolo essenzialmente con un
orientamento incentrato sul rapporto centro-periferia.
Lo Stato della Chiesa si qualificava per essere uno “stato teocratico, retto da un
governo sacerdotale, che presiedeva ugualmente all'amministrazione del territorio sul quale
esercitava l‟autorità temporale, come alla direzione della comunità universale dei fedeli, sui
quali esercitava l‟autorità spirituale, al di là e al di sopra di ogni confine statale.” 1
Sotto la duplice valenza di un potere riunito in un unico governo ed in un‟unica
persona, stavano i territori appartenenti allo Stato Ecclesiastico; ma in che misura e con
quale efficacia si vedrà poi. Per ora basta osservare che, almeno formalmente, l‟ammini-
strazione dell‟intero stato, delle sue regioni e delle sue provincie, era affidata alle
magistrature ed agli uffici, innanzi tutto alle Congregazioni, le quali erano “corpi collegiali,
composti di alti prelati e di dignitari ecclesiastici, presieduti tutti da un cardinale.” 2 Esse non
assolvevano solo funzioni inerenti il governo della chiesa, ma in alcuni casi, come in quelli
della Sacra Consulta e del Buon Governo, erano anche implicate, più o meno direttamente e
più o meno efficacemente, nel governo dello stato.
Specialmente la seconda, ossia la Sacra Congregazione del Buon Governo, era
l‟autorità romana più presente nelle provincie, in quanto assolveva funzioni di riferimento
1
F. Valsecchi, La Teocrazia Pontificia, in l'Italia nel ‘600 e nel’700, Torino 1967, pag. 664.
2
F.Valsecchi, op.cit., pag. 671.
10
per molte delle questioni locali. Le sue incombenze consistevano nel vigilare sull‟economia
dello stato, indicando o ordinando alle comunità certe procedure amministrative,
specialmente di carattere finanziario e fiscale, oppure investendo i magistrati dell'autorità
necessaria per imporre gabelle. Essa si ingeriva anche nelle controversie locali, in “tutte le
cause dei debiti e dei crediti delle medesime comunità” 3 e non lo faceva con troppo
disappunto delle autorità periferiche, poiché erano proprio queste ultime che spesso nella S.
C. del Buon Governo cercavano la suprema sede dalla quale ricevere incontestabili
risoluzioni per questioni locali altrimenti irrisolvibili.
Dopo aver accennato a quei settori istituzionali dello Stato della Chiesa che più di
altri erano in contatto variamente assiduo con le provincie, invertendo il punto di vista finora
tenuto, si possono ora dare dei cenni sul funzionamento interno di uno dei tanti governi
locali delle regioni periferiche. Così va subito precisato che Rieti, nel „700, ebbe una triplice
differenziazione delle autorità politica, giudiziaria ed amministrativa.
Per la prima delle tre, quella politica, la città faceva capo ad un Governatore Prelato il
quale, con l‟andare del tempo, venne ad avere una giurisdizione sempre più ristretta (anche
territorialmente). Per la seconda invece, quella giudiziaria, ci si riferiva ad un Podestà e per
la terza, quella amministrativa, Rieti era retta da un Gonfaloniere e dai Priori, in un consiglio
di cento cittadini provenienti da determinate classi. 4 Anzi, a proposito dell‟estrazione
sociale dei componenti di questo General Consiglio, qualcosa va subito rilevato, come si
deduce da una lettera della Sacra Consulta annullante l'elezione a consigliere di un certo
Felici: in essa si legge infatti che quest‟ultimo “espose che gli competeva il grado di Prior
Nobile ed attestò la professione di Notaio e di Curiale, e di avere una sufficiente possidenza
[ma quando si accertò che] questo nulla possedeva di proprio [e che era semplicemente
titolare di una enfiteusi, si dichiarò appunto nulla la sua elezione, anche perché il Felici
stesso non era domiciliato in “veruna porta ma viveva in casa a pigione” 5. Risulterà in
seguito non del tutto secondaria la notazione appena segnalata, poiché il fatto che un Prior
Nobile, un componente quindi del General Consiglio, dovesse dimostrare di avere una
sufficiente possidenza, esercitare certe professioni e non altre, essere residente della città, in
3
F.Valsecchi, op.cit.,p.672.
4
Si veda A.Sacchetti Sassetti, Guida di Rieti, Rieti 1930, pag.42.
5
A.S.R., A.C.R., Riformanze, agosto 1795.
11
una casa di proprietà, non era certo un dato senza importanza. Ad esempio, non far parte di
veruna porta significava essere più o meno un forestiero, ed esserlo o non esserlo non era
questione che non implicasse, in alcuni casi, delle differenze. O ancora, il fatto che un Prior
Nobile, per poter diventare tale, dovesse avere una sufficiente possidenza, comportava una
serie di implicazioni, più o meno dirette e più o meno coscienti, che entravano nelle
discussioni dei consigli o nelle decisioni amministrative da prendersi, in diretta relazione
con i problemi e con le esigenze dei proprietari e dei possidenti.
Certo, in mancanza di altri elementi, quali ad esempio il limite di possidenza sopra al
quale si poteva ambire al grado di Prior Nobile o un‟esatta mappa indicante la qualità e la
quantità delle proprietà dei possidenti, non è qui possibile sapere quanto e come un certo
status influisse su certi atteggiamenti o su certe prese di posizione; eppure, malgrado questa
impossibilità di andare oltre la constatazione, si dovrebbe comunque e sempre tenere almeno
presente precisazioni come quelle contenute nella lettera della Sacra Consulta sopra
riportata. Un‟altra delle osservazioni da farsi è poi relativa alla collocazione di Rieti
all'interno dello Stato della Chiesa. A questo riguardo le indicazioni più precise e specifiche
sono contenute in uno studio di R.Volpi 6 in cui si trovano riferimenti proprio a Rieti, al suo
contado, alla Sabina ed alla regione dell'Umbria.
In esso si legge che “se eccessiva è la frammentazione dello stato, incredibile è quella
dell'Umbria [ma] sebbene l‟Umbria stessa non esista più come entità
politico-amministrativa, il termine viene comunemente usato per indicare tutta la regione.
[Dell‟Umbria però] Rieti non ne fa più parte. Dopo che nel 1708 la sua diocesi era stata
considerata ufficialmente umbra, comincia un processo di distacco dovuto all'indebolirsi
dell‟autorità di Perugia. Già nel 1716 Rieti appare non solo completamente autonoma, ma
dotata di ampi poteri sul territorio circostante. Finalmente il riepilogo del censimenti del
1782 sanziona, per così dire, il passaggio del reatino alla Sabina.” 7
E‟ stata considerata come preliminare questa osservazione sulla collocazione del
reatino all‟interno dello stato, oltre che per motivi di orientamento vero e proprio, anche
perché l‟appartenenza o meno (non tanto de facto quanto de iure) alla provincia umbra o alla
Sabina, rappresentava un fatto che aveva allora implicazioni decisive, poiché proprio la
6
R.Volpi, Le regioni introvabili;centralizzazione e regionalizzazione nello Stato Pontificio, Bologna,
1983.
7
R.Volpi, op.cit., pp. 215-216.
12
Sabina, facendo parte, come si vedrà, di quell‟insieme di zone soggette all‟autorità
dell‟annona romana, si vedeva imposta sia 1a proibizione dell'esportazione dei grani in
qualsiasi altro luogo che non fosse Roma, sia l‟esclusione dai provvedimenti successivi che
tenderanno a concedere una certa libertà di commercio all'interno dello stato.
Ma l‟importanza di questo punto non si esaurisce qui, anche perché l‟affermazione
del Volpi in relazione al sanzionato passaggio del reatino alla Sabina non è per nulla
confermata dai documenti reatini studiati i quali, seppure non abbiano il valore di prove
decisive, affermano comunque il perfetto contrario. Con quanta e con quale attendibilità se
ne scriverà meglio poi, quando si affronterà in modo specifico la questione dell'
appartenenza di Rieti alla provincia dell‟Umbria.
13
Rieti città di confine
Lo Stato della Chiesa non era uno stato unitario e non funzionava secondo i moderni
criteri di ordini e di disposizioni che dal centro si irradiavano verso la periferia, all‟interno di
un sistema non troppo frammentario che manteneva, lungo l‟iter della trasmissione, per
buona parte intatto quel poco o quel tanto di efficacia che .quegli ordini e quelle disposizioni
possedevano all‟origine. Non si verificava quasi mai, dunque, una propagazione ed un
irraggiamento uniforme alle singole e più remote regioni. A rendere poco presente lo stato
centrale nelle provincie contribuivano sia la non decisa volontà e capacità degli intendimenti
romani, sia la natura stessa degli innumerevoli governi locali tendenti all‟autonomia
amministrativa e politica.
Detto ciò, appaiono chiare tanto l‟incapacità, tanto l‟impossibilità, quanto, in qualche
modo, la nolontà dello Stato Papale di diffondere da Roma, con uniformità ed intensità, la
propria autorità accentratrice.
A questo proposito non va tuttavia dimenticata la natura particolare di quello stato ed
il fatto che esso era, nel „700, “il risultato dell'acquisto successivo di differenti domini,
ognuno dei quali sopravviveva in qualche modo con i suoi antichi privilegi e la sua
particolare legislazione, conservata all‟atto della Dedizione.[…] Così ad un accentramento
assolutistico senza confronti, dato l‟eccezionale potere del pontefice, faceva riscontro un
frazionamento giurisdizionale più esteso di quanto non comportasse l‟antico regime
feudale.”8
In un tale stato di cose, “la limitazione delle forze particolaristiche non giunse mai ad
una totale eliminazione: la mancanza di una burocrazia organizzata e capace e la difficoltà
stessa delle comunicazioni [compromettevano gli effetti dell'opera centralizzatrice]. Tutto si
risolveva in un accavallarsi di giurisdizioni che si intralciavano a vicenda [cosicché lo Stato
della Chiesa] rimaneva un aggregato eterogeneo incapace di realizzare l'unificazione delle
sue diverse parti”.9
Era dunque considerevole li distanza che separava il centro dalle provincie ed
evidentemente non era una distanza solo chilometrica.
8
V. E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna 1971, pag. 28.
9
F. Valsecchi, op. cit., pag. 676.
14
Eppure, per certi aspetti, era proprio Roma (Roma come aggregato di popolazione più
che come centro di governo) che sembrava gratificarsi e compiacersi della sua posizione
insulare, non priva di ostilità e “diffidenza verso i forestieri”.10
Così, “assai rari [erano] i provvedimenti tesi ad uniformare il funzionamento delle
amministrazioni locali: i singoli atti delle autorità centrali [parevano] dettati per lo più da
motivi contingenti e quasi sempre destinati ad aree limitate, quando non ad una sola città.”11
Solo nell‟ultimo quarto del secolo Pio VI, “con il motu proprio del 1790, tentò di
avviare un processo di concentrazione almeno al livello più basso, quello dei piccoli governi.
[Ma su questa linea si andò avanti] con molta cautela pur di non scontentare i governatori e
le città che temevano di veder diminuita la propria supremazia sul contado. [Tali resistenze,
del resto, erano talmente forti] da condizionare poi anche l‟azione delle repubbliche
giacobine”12.
Ma questo sistema, caratterizzato da un‟estrema frammentazione e da una sorta di
incomunicabilità fra la capitale e la periferia dello stato, si manifestava anche ad un altro
livello, ossia quello dei rapporti dei singoli centri con le entità locali più o meno a loro
vicine. Senza voler attribuire un valore paradigmatico al caso del reatino, non sarà da
sottovalutare l‟impressione avuta con la frequentazione assidua dei documenti appartenenti
all‟archivio comunale di Rieti. In effetti la città sembrava non stare solamente ai margini
della frontiera che separava lo Stato dal Regno di Napoli Altri confini, più o meno marcati e
vincolanti, all‟interno dello stesso Stato della Chiesa, la separavano dalle città e dalle regioni
vicine. Anzi, proprio tenendo conto di quella incredibile frammentazione amministrativa e
giurisdizionale, sarebbe il caso di non intendere l‟assenza di unità come frantumazione
territoriale o non solo come frantumazione territoriale, ma anche come un moltiplicarsi, a
livello locale, di quella stessa frammentazione e di quella stessa mancanza di unità.
In altre parole, ammettendo la relativa chiusura in sé stessa di Rieti, si dovrebbe
supporre la reciprocità di una tale situazione e non una sua unicità, fino ad avere un quadro
della condizione generalizzata dello Stato, in cui l‟elemento comune e ricorrente risultava
essere ciò che da ora in avanti verrà qualificato come localismo, ossia una tendenza generale
a far prevalere gli interessi locali e particolaristici su quelli di uno stato o di una provincia.
Così la città, all‟interno delle proprie mura e dei propri interessi di sussistenza,
10
V. E. Giuntella, op. cit., pag. 35.
11
R. Volpi, op. cit., pag. 185.
12
R. Volpi, op. cit., pag. 185.
15
inserita a sua volta in un sistema che di una tale situazione faceva una norma, sembrava
spesso non avere altra preoccupazione che quella di non restare senza generi alimentari,
senza carni, senza olio, senza grani; sempre comunque intenta a curare i propri particolari
interessi con riguardo, semmai, al proprio contado.
Provvedere allo sfamo della popolazione: questo era più o meno il principio che la
realtà e l‟esperienza avevano insegnato a seguire ed a cui altre esigenze, quali erano quelle
dei rapporti commerciali con i luoghi circostanti, erano vincolate e sottomesse.
Certo, se non proprio un incubo, l‟eventualità di dover restare senza i mezzi diretti o
indiretti necessari per la sussistenza rappresentava in ogni caso una paura ed un pericolo
sempre presente. Qualsiasi bene considerato di prima necessità (tra questi sono da includersi,
chiaramente, anche le risorse finanziarie) veniva fatto oggetto di preoccupazioni pressanti e
ricorrenti. Questo clima forse non risulterà poi così strano, ma di esso si deve comunque
tener conto se si vuole avere un‟idea di un‟amministrazione di sopravvivenza quale era
appunto quella che veniva praticata dalle autorità locali che, secondo una impostazione
autarchico-vincolistica, faceva dei suoi puntelli protezionistici i mezzi adatti per risolvere le
incombenze della comunità. Una politica amministrativa così concepita, seguendo la linea
guida del problema della sussistenza, induceva a limitare gli scambi commerciali e le
potenziali evoluzioni delle pratiche agricole in nome dei prioritario intento di far salva la
quiete pubblica e la tranquillità delle popolazioni13, per il cui ottenimento non ultimo
espediente era quello di calmierare i prezzi. Su ciò influiva non poco il timore che una loro
liberalizzazione potesse condurre a dei turbamenti dell'ordine pubblico, nel caso la
popolazione avesse sofferto di eccessivi rialzi.
In merito al clima di stagnazione e di restrizioni commerciali, si è trovata tra i
documenti, una lettera dell‟agosto del 1796 rivolta alla S. C. del Buon Governo che mantiene
una sua rilevanza, anche tenendo conto del fatto che proprio il 1796 fu un anno di particolare
crisi economica.
In essa, “tre pizzicaroli [della città esponevano che] le critiche circostanze hanno
talmente interrotto il commercio che tutti li generi sono incariti, non solo, ma né si trova il
modo di comprarli, [ed anche quando ciò fosse possibile] li oratori, senza veruna loro colpa,
sono costretti a venderli, con notabile rimessa alli fissati prezzi. E, se questi ultimi non
13
Si veda V. E. Giuntella, Assemblee della Repubblica Romana (1798-1799), Bologna 1954, Premessa, pag.
XV.
16
potranno essere elevati, sarebbe forse meglio chiudere le pizzicarie, che profondere tutte le
proprie sostanze.”14.
Da queste parole, come si vede, non emerge solo la difficoltà dei commercianti a
poter seguire gli andamenti del mercato, ma anche il grande problema della scarsità dei
generi stessi che venivano venduti; scarsità certo imputabile anche alle peggiorate e
particolari circostanze attraversate in quei mesi dallo Stato della Chiesa, ma riconducibile
anche, in termini di causalità più lontana, alle limitazioni imposte da un sistema
economico-commerciale che, anche in condizioni di normalità, era viziato ed imbrigliato
dalla eccessiva frammentazione dello stato, degli interessi e delle giurisdizioni varie che
tendevano a mantenere isolate, più che comunicanti, le diverse parti di esso o di una stessa
provincia.
Sarebbe certo difficile dire quale fosse la causa e quale l‟effetto di una tale situazione
e chiarire se fosse la mentalità localistica a mantenere isolate le varie zone tra di loro o se
fosse invece proprio la mancanza di libertà, reale e di fatto, nei commerci e negli scambi
economici,va provocare la prevalenza di interessi particolaristici. Ma, seppure difficile, una
risposta potrebbe azzardarsi con il situare la causa nella concomitanza dei due elementi,
anche se il problema in ogni caso, non si esauriva nella difficoltà dei commerci interni e
neanche in implicazioni puramente economiche, poiché chiamava in causa mentalità
radicate.
Infatti, in un sistema caratterizzato dalla reciprocità di un esasperato localismo, il
concetto stesso di forestiero non sempre e non solo veniva a coincidere con quello di
straniero (rispetto allo stato), ma comprendeva in sé, in una sorta di considerazione
discriminante, chiunque non facesse parte della città o del suo contado.
Oltre a ciò v‟è da aggiungere che la problematicità dei rapporti commerciali ed
economici non aveva solo una rilevanza interna, ma riguardava la frequenza ed il tipo di
contatti che dalla città si instauravano con il vicino Regno di Napoli. Per Rieti, infatti, il
problema non era secondario, anzi assumeva particolare importanza proprio per le zone del
reatino, “stante che il maggior commercio della città consiste nella gente di confine di
Regno.”15 e stante pure il fatto che un sistema autarchico-vincolistico come quello vigente
non esigeva solo misure protezionistiche in riguardo all‟uscita dei generi, ma richiedeva
14
A.S.R., A.C.R., Riformanze, agosto 1796.
15
A.S.R., A.C.R., Congregazione dell’Annona o Grascia, 1794.
17
anche, per la stessa predisposizione culturale che lo motivava, una tendenza a poter, in ogni
caso ed in ogni direzione, provvedersi all'occorrenza di quei beni di prima necessità che
avrebbero potuto scarseggiare.
Anche qui, insomma, si manifestava (come si vedrà in seguito) lo scontrarsi o il non
accordarsi di due diversi tipi di interessi: quelli privati e quelli pubblici. Infatti i primi spesso
premevano perché si attuasse una più ampia libertà di commercio ed ammettevano
l‟esistenza di un sistema restrittivo (come quello dell'annona) solo se quest‟ultimo fosse
stato capace di preservarli dalla concorrenza; i secondi, invece, tendevano ad anteporre a
qualsiasi costo l‟esigenza dell'approvvigionamento della città ed a considerare l‟eventualità
di aperture all‟esterno solo in termini di importazione, con fini cautelativi di
immagazzinamento.
Nel caso di Rieti queste contraddizioni interne al sistema si facevano più evidenti,
poiché la città, oltre ad essere confine a sé stessa, era anche prossima al confine dello stato.
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