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Nel secondo capitolo, intitolato “La polizia fascista”, si analizza la
posizione dei giornali extraparlamentari nei primi anni settanta; l’attentato
di piazza Fontana e il timore di una svolta politica di carattere reazionario,
avallate dal progetto presidenzialista che l’elezione di Fanfani alla
presidenza della Repubblica avrebbe potuto attuare, determinano un
rafforzamento del sentimento antifascista in tutta la sinistra. I due giornali,
“Lotta Continua” in particolare, si fanno portavoce delle parole d’ordine
dell’“antifascismo militante”: la gogna di Trento contro due missini nel
luglio del ’71 e la campagna stampa contro “il Fanfascismo” sono
l’emblema del sentimento antifascista. In questo periodo la polizia viene
accusata negli articoli dei due quotidiani di essere complice dei “fascisti” e
di collaborare con questi alle provocazioni e agli scontri contro i militanti
di sinistra. La polizia e i carabinieri vengono frequentemente paragonati,
durante i loro interventi, alle “squadre in camicia nera” e il colpo di stato in
Cile non fa che aumentare i timori di un pericolo reazionario che vedrebbe,
secondo gli extraparlamentari, le forze di polizia partecipi di tale progetto.
La fase dell’antifascismo militante verrà abbandonata da “Il Manifesto”
verso la metà del decennio, mentre “Lotta Continua” lo farà più tardi, solo
quando il terrorismo di sinistra si presenterà come una vera e propria
emergenza.
4
“Attentatori in divisa” è il titolo del terzo capitolo dedicato alla campagna
di controinformazione condotta dai due giornali per denunciare i
responsabili della “strage di stato” e alle deviazioni di carattere reazionario
interne alle forze dell’ordine. Dapprima vengono riportati gli articoli
accusatori nei confronti dei funzionari di polizia coinvolti nella deviazione
delle indagini sull’attentato di piazza Fontana, quindi l’attenzione è
dedicata a due clamorose campagne giornalistiche condotte da “Lotta
Continua”: quella contro la questura di Trento, accusata di aver
deliberatamente organizzato alcuni attentati e quella condotta contro la
“cellula nera” di poliziotti del nucleo di Firenze, chiamati in causa per la
copertura fornita ai terroristi palestinesi in occasione dell’attentato del
dicembre ’73 e accusati di aver organizzato l’attentato al treno “Italicus”
nell’agosto ’74.
Ai giudizi e ai commenti espressi nei confronti di due funzionari simbolo è
dedicato il capitolo quarto: Calabresi e Dalla Chiesa. Il primo, considerato
il responsabile morale della morte dell’anarchico Pinelli, precipitato dalla
finestra del suo ufficio, venne fatto oggetto di una durissima e spietata
campagna stampa da parte di “Lotta Continua” con lo scopo di riaprire
l’inchiesta sulla morte dell’anarchico. Alla polemica condotta da “Lotta
Continua” si affianca ben presto anche “Il Manifesto”. La morte del
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commissario mette in evidenza la differenza tra le posizioni dei due
quotidiani: “Lotta Continua” la giustifica considerandola un “atto di
giustizia” mentre “Il Manifesto” condanna questa presa di posizione
interpretando la morte di Calabresi come una morte che appartiene alla
borghesia, frutto della stessa macchina repressiva di cui era un ingranaggio.
Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, invece, è al centro di una lunga
polemica sulla liceità e sulla legittimità delle sue funzioni a causa degli
ampi poteri che nel corso degli anni gli verranno assegnati. Anch’egli,
come Calabresi, viene ritenuto responsabile di un tragico episodio: la
rivolta culminata in strage avvenuta nel carcere di Alessandria nel maggio
1974. La distruzione della sua immagine e la delegittimazione del suo ruolo
proseguono costantemente sulle pagine dei due giornali nel corso del
decennio. Dalla Chiesa, invece di venir elogiato per l’operato nella lotta al
terrorismo, verrà addirittura accusato di essere quasi un complice dei
terroristi.
Nel quinto capitolo vengono analizzate le caratteristiche salienti delle
misure legislative riguardanti l’ordine pubblico approvate nel decennio,
soffermandosi in particolare sul carattere repressivo di alcuni
provvedimenti come il fermo di polizia e il confino politico. La reazione
della stampa extraparlamentare è assai critica e condanna decisamente
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l’orientamento legislativo in questione, arrivando a definirlo uno “stato di
polizia”. La campagna stampa contro la “legge Reale” viene esaminata
riportando gli articoli dei due quotidiani che sottolineano il carattere
liberticida della legge ritenuta al limite della costituzionalità e criticata per
il suo carattere antidemocratico. Tra le misure previste dalla legge Reale, le
più duramente criticate sono quelle riguardanti l’allargamento dei poteri
accordati agli agenti in servizio di ordine pubblico: l’ampio ricorso all’uso
delle armi, d’ordinanza e non, da parte delle forze dell’ordine e la tutela
riservata loro in caso di incidenti spingono gli extraparlamentari a
paragonare la legge Reale a una “pena di morte senza processo” che,
inoltre, fa degli agenti dei cittadini privilegiati dal punto di vista
giudiziario.
Al sindacato di polizia è dedicato il sesto capitolo illustrando come, dalla
iniziale fase caratterizzata dalle sporadiche proteste nelle caserme e dalla
clandestinità delle riunioni, il movimento dei poliziotti democratici sia
riuscito a darsi una organizzazione nazionale e, soprattutto, a sensibilizzare
l’opinione pubblica nei confronti delle loro rivendicazioni per ottenere il
diritto di formare e riunirsi in sindacati. I giornali extraparlamentari
cominciano ad occuparsi della lotta per la sindacalizzazione della polizia
solo verso la metà del decennio, prima con molto distacco e diffidenza, poi
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con maggiore impegno e dedicando sempre più spazio ai poliziotti
democratici. Il processo di sindacalizzazione della polizia ha permesso, non
senza difficoltà, l’inizio di un dialogo e di un rapporto tra due realtà, quella
del poliziotto e quella del militante di sinistra, che fino ad allora si
consideravano reciprocamente come dei nemici da combattere. Emerge
dagli articoli dei due giornali, allora, un aspetto inedito della figura del
poliziotto, considerato un “compagno difficile”: lacerato dalle
contraddizioni interiori e dai sensi di colpa scaturiti dalla consapevolezza di
essere uno “strumento di repressione” della sua stessa classe.
Il settimo capitolo analizza la “violenza della polizia” soffermandosi sul
carattere repressivo delle forze dell’ordine esaminando anche i
cambiamenti avvenuti nei modelli repressivi durante il periodo
repubblicano: dal modello “scelbiano” degli anni cinquanta alla
“ideologizzazione” della repressione degli anni seguenti. Vengono riportati
i commenti critici e le denuncie dei due quotidiani nei molti episodi
caratterizzati dal ricorso a metodi violenti da parte della polizia e dei
carabinieri: lo scopo principale degli extraparlamentari è di mettere in
risalto il carattere antipopolare delle forze dell’ordine, dedicando molti
articoli agli interventi di sgombero nei confronti dei senzatetto e usando un
linguaggio dai toni allarmistici. La polemica sull’impiego di squadre
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speciali di agenti in borghese in servizio di ordine pubblico caratterizza la
seconda parte degli anni settanta. “Lotta Continua” e “Il Manifesto”
pubblicano molte fotografie che svelano l’esistenza di tali agenti e
chiamano in causa i responsabili delle questure e del ministero. Con il
dilagare del fenomeno terroristico alla fine del decennio le forze dell’ordine
non verranno più criticate per la violenza in piazza: la nuova accusa
riguarda il ricorso all’uso della tortura sia verso i detenuti che durante gli
interrogatori dei fermati.
L’ultimo capitolo fornisce le reazioni dei due giornali nei confronti delle
uccisioni degli agenti delle forze dell’ordine, veri e propri “bersagli della
violenza proletaria”. Emergono sostanziali differenze sia tra i due
quotidiani (“Lotta Continua” nei primi anni settanta non commenta tali
episodi, anzi spesso sembra esultare; “Il Manifesto” si separa presto dalla
visione ideologica per condannare fermamente le uccisioni degli agenti) sia
nel corso del decennio (inizialmente vi è una certa ambiguità dei due
giornali nei confronti del terrorismo che viene abbandonata nella seconda
metà degli anni settanta). Il rapimento Moro scatena definitivamente la
polemica contro l’impiego di agenti giovanissimi e spesso inesperti in
servizi di scorta; il periodo seguente vedrà, invece, gli agenti cadere come
dei “bersagli” per mano dei terroristi: a questo punto la condanna si fa
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definitiva e gli agenti uccisi vengono ricordati e commemorati dalla stampa
extraparlamentare che li definisce delle vittime innocenti e non più schiavi
o strumento della repressione.
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CAPITOLO I
Le rappresentazioni delle forze dell’ordine in due giornali della sinistra
extraparlamentare.
Nel periodo di tempo compreso tra l’autunno del 1968 e l’autunno del 1969
si formano, in Italia, tutte le principali formazioni della nuova sinistra che
negli anni settanta saranno le protagoniste dell’«area rivoluzionaria»1. Alle
lotte studentesche, iniziate all’Università Cattolica di Milano con agitazioni
che si svolsero dal 15 Novembre 1967 al 20 Gennaio 1968, si innesteranno
quelle dell’autunno caldo del 1969, consentendo una crescita dei contenuti
politici della contestazione; inoltre tale fenomeno renderà possibile
l’instaurazione di «un contatto, per epidermico che sia, tra operai e
studenti, tra proletariato e gruppi extraparlamentari» 2.
All’origine della protesta studentesca ci sono le rivendicazioni relative
all’Università e la opposizione contro il progetto di riforma universitaria
proposta dal ministro della Pubblica Istruzione Gui. Successivamente il
1
Luigi Bobbio, Lotta Continua. Storia di una organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma, 1979,
p. 3.
2
Mino Monicelli, L’ultrasinistra in Italia 1968-1978, Laterza, Bari, 1978, p. 4.
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movimento di contestazione esprime ragioni più propriamente politiche, a
partire dalla tematica antimperialista. La guerra del Vietnam farà sgretolare
il mito americano, così come la “rivoluzione culturale” farà vacillare il
mito sovietico. Il movimento studentesco si forma e si alimenta,
principalmente, in tre università: la facoltà di sociologia a Trento, la
Cattolica di Milano e la Sapienza di Pisa. I giornali quotidiani
sottovalutarono il carattere nuovo della contestazione giovanile. A lungo
parve un fenomeno incomprensibile, alimentato dai “cinesi” o dal PCI, il
cui quotidiano si informò sin dal novembre 1967 sul movimento. I termini
più usati nei titoli della grande stampa indipendente, quando si parla di lotte
studentesche sono: violenze, caos, tafferugli, teppismo, vandalismo. Nelle
rubriche delle lettere dei quotidiani si leggono ogni giorno appelli di
studenti, i quali dicono di voler studiare e non fare politica. Il primo marzo
del 1968 è il giorno della «battaglia di Valle Giulia», la prova di forza tra il
movimento e il “sistema”: durante gli scontri, tra studenti che cercano di
raggiungere la facoltà di architettura di Roma e la polizia, sono feriti
centocinquanta agenti e quasi cinquecento studenti, mentre sono arrestati
quattro dimostranti e più di duecento sono fermati. Valle Giulia segna una
svolta: da questo momento in poi il poliziotto e lo studente si porranno
come nemici. La reazione negli ambienti universitari, sindacali e politici è
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considerare i «giovani borghesi» inevitabilmente votati al fallimento nei
loro propositi di creare legami organici con la classe operaia.
Nel giugno dello stesso anno Pier Paolo Pasolini nella sua poesia Il PCI ai
giovani esprimerà questo stato d’animo dicendo agli studenti con le «facce
di figli di papà» che sono «in ritardo», perché «la polemica contro il Pci
andava fatta nella prima metà del decennio passato». Pasolini, inoltre,
critica gli studenti di essere fondamentalmente anarchici e di avere pochi e
confusi rapporti con la cultura; è per questo motivo che danno
l’ impressione di recitare con enfasi la parte dei rivoltosi piuttosto che
viverla con serietà. Egli inoltre pronuncia un giudizio che lascerà perplessa
gran parte della sinistra e che nel decennio seguente troverà pareri
discordanti nell’area della sinistra extraparlamentare: la simpatia verso i
poliziotti malmenati dagli studenti. Lo scrittore sostiene che i veri «figli di
poveri» siano i poliziotti e non gli studenti di estrazione piccolo-borghese, i
quali, sebbene fossero «dalla parte della ragione», nella battaglia erano «i
ricchi». A difesa degli agenti, egli invita i giovani a comprendere «lo stato
psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese):
umiliati dalla perdita di qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere
odiati fa odiare). Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care».
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Le avanguardie studentesche si trasformano, presto, da movimento
libertario in movimento ausiliario dei gruppi marxisti-leninisti che sono
proliferati, grazie alla contestazione politica e ideologica. Con l’inizio delle
lotte sindacali e l’esplosione del «rogo di Mirafiori» 3 nel maggio del ’68 gli
studenti approdano all’impegno sindacale, attratti dallo spontaneismo
operaio e dalla nascita dei Comitati Unitari di Base (CUB). In questo
periodo nascono nuove riviste di intonazione operaista come «Potere
Operaio», «La Classe» e «Lotta Continua» e il movimento studentesco
perde i suoi connotati originari per confondersi con le formazioni
extraparlamentari e con i gruppi del nuovo sindacalismo. E’ l’inizio della
Nuova Sinistra, «un movimento rivoluzionario che punta all’urto frontale
contro il sistema a fianco degli operai» 4 in attesa che maturino le condizioni
idonee per la rivoluzione. Tra i gruppi della Nuova Sinistra, Lotta Continua
e il Manifesto saranno quelli che, per più tempo, caratterizzeranno, con le
loro linee politiche, l’area della sinistra extraparlamentare negli anni ’70.
Le due formazioni hanno origini e storia diverse.
Il Manifesto è composto dai fondatori e dai collaboratori della rivis ta
mensile omonima dopo la radiazione dal Pci avvenuta nel novembre del
3Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978: storia di Lotta Continua,
Mondadori, Milano, 1998, p. 55.
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’69. Il dibattito interno al partito che darà vita al «caso Manifesto» si
sviluppa tra il X (dicembre ’62) e l’XI (gennaio ’66) Congresso del Pci. La
“sinistra” che si forma all’interno del partito non condivide l’azione del Pci
nei confronti delle lotte di fabbrica ed emerge la contrapposizione
relativa all’analisi del movimento studentesco. Altri fattori di disaccordo
sono la richiesta di un superamento del centralismo democratico a favore di
una maggiore democrazia interna e il giudizio positivo, da parte della
”sinistra” del partito, sulla «rivoluzione culturale» cinese. Dopo il XII
Congresso del Pci, nel febbraio del ’68, le divergenze appaiono più nette e
nella “sinistra” inizia a farsi strada l’idea che «per dare continuità alla
battaglia intrapresa sia necessario dotarsi di uno strumento di riflessione, di
una rivista mensile che divenga la sede del confronto e dello
approfondimento teorici». Il nome scelto per la testata è “Il Manifesto”, il
richiamo a quello di Marx del 1848 è chiaro. Il primo numero esce a
giugno, a dirigerlo sono Rossana Rossanda e Lucio Magri. Ai primi numeri
collaborano Vittorio Foa, Lisa Foa, Luigi Berlinguer, Lucio Colletti,
Ninetta Zandegiacomi, Luciana Castellina, Lidia Menapace, Marcello Cini,
Valentino Parlato, Pino Ferraris, Lucio Lombardo Radice. La discussione
4
Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta. Marsilio,
Venezia, 1992, pp. 366-367.
15
intorno alla liceità dell’iniziativa editoriale e politica de “Il Manifesto” si fa
infuocata: Botteghe Oscure pretende la sospensione del mensile e
promuove una discussione che si conclude con il Comitato Centrale del 15-
17 ottobre. Dopo una dura e drammatica discussione la «rottura» è
inevitabile: si conclude l’esperienza del Manifesto come gruppo di
opinione interno al Pci e inizia quella del Manifesto gruppo politico.
«L’atto ufficiale che segna la radiazione del gruppo del Manifesto avviene
il 27 novembre del ’69. Il Comitato Centrale e la Commissione centrale di
controllo decidono la radiazione di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo
Natoli, Lucio Magri» 5. Il Pci decide la radiazione soprattutto perché
legittimare ancora il Manifesto al suo interno comporterebbe l’apertura di
una lotta politica in tutto il partito e la crisi degli equilibri interni. La prima
uscita pubblica del Manifesto avviene il 15 febbraio del ’70 e rappresenta
«il primo contatto dei “radiati” con il movimento romano nato nel ‘68»6.
Nei mesi seguenti la polemica col Pci si acutizza; l’obiettivo principale del
Manifesto è quello di contrastare l’egemonia del riformismo e del Pci sul
movimento di massa. Con questo intento viene proposto un dibattito che
porti a una piattaforma di discussione e di lavoro politico per l’unità della
5
Aldo Garzia, Da Natta a Natta. Storia del Manifesto e del PDUP. Ed.Dedalo,Bari,1985, pp. 30-39
6
Aldo Garzia, op. cit. p. 44.
16
sinistra rivoluzionaria e la costruzione di una nuova forza politica. Gli altri
gruppi della nuova sinistra snobbano l’iniziativa, decretando il fallimento
del tentativo di unificazione della sinistra nata sull’onda del ’68-’69 che
non si riconosce nei partiti storici. Con il passare del tempo matura nel
Manifesto l’idea che, per costruire un vero movimento politico, sia
necessario dar vita a un giornale quotidiano e, nel dicembre del ’70, viene
lanciata una campagna di sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari. Il
primo numero de “Il Manifesto” quotidiano esce il 28 aprile del 1971. E’ il
primo quotidiano tutto politico che arriva nelle edicole: lo caratterizza una
grafica sobria e povera, quattro pagine con sei colonne per pagina e il
prezzo di vendita a cinquanta lire.
La formazione di Lotta Continua, invece, è il frutto della fusione di diverse
componenti, tra le quali un ruolo primario spetta al “Potere Operaio”
toscano, gruppo che rielabora la tradizione operaista italiana. In secondo
luogo confluisce in Lotta Continua l’esperienza dei quadri studenteschi
emersi da alcune realtà del movimento del’68: da Trento, da Torino, dalla
Cattolica di Milano e da Pavia. Ma il fattore che determina e definisce la
natura di Lotta Continua è l’incontro dell’elemento studentesco con gli
operai di Mirafiori che diverranno il riferimento politico della
organizzazione.