5partecipazione dei soggetti collettivi al processo penale quali parti civili, il nuovo
codice finisce con il configurare l’intervento degli enti collettivi come
estrinsecazione di un potere di mera accusa, in cui la connotazione privata della
titolarità convive con la dimensione pubblicistica attribuita al pubblico ministero
in un’ottica di cooperazione all’esercizio dell’azione penale.
Un’analisi è rivolta anche alle ultime tendenze legislative e giurisprudenziali
che, sotto la spinta di sempre più pressanti istanze sociali, hanno esteso
incessantemente la richiesta partecipativa di tali enti. Ad oggi il processo penale
risulta essere un luogo sempre più affollato e l’originaria “foresta pietrificata”
della tutela degli interessi collettivi nel procedimento penale si è trasformata nel
“mobile bosco di Birnam”(
1
). Tutto è in movimento, dalla definizione delle
posizioni tutelabili ai criteri identificativi degli interessi sottesi, dalle frontiere
del danno ingiusto alle tecniche di tutela giurisdizionale. Pertanto la nuova
configurazione della partecipazione degli enti impone una riconsiderazione di
nozioni ed istituti tradizionali del diritto processuale penale e pone,
naturalmente, numerosi problemi anche sul piano applicativo.
Infine, uno studio esauriente e completo della problematica ha richiesto
un’indagine comparativa delle soluzioni adottate dai principali sistemi giuridici
stranieri, nonché la prospettazione delle possibili aperture de lege ferenda
presentate dalla dottrina.
(
1
) “Macbeth non sarà vinto fino a quando il gran bosco di Birnam non avanzi contro di lui..” : W.
SHAKESPEARE, Macbeth, nell’edizione italiana di Einaudi, 1951, 61.
6Capitolo I
L’AZIONE PENALE E GLI INTERESSI COLLETTIVI:
IL CONTESTO STORICO
Premessa: Per l’esposizione dell’intera parte storica si è voluta adottare una
particolare metodologia didattica, nonché, visiva. Ogni periodo storico è
analizzato partendo da una precipua frase, disposizione, o pensiero del tempo,
fedele espressione del modo di intendere la presente materia e leale
rappresentazione degli interessi e degli obiettivi che i nostri predecessori
volevano perseguire. Pertanto la trattazione storica, tangibilmente calata nel
passato, seguirà, attraverso la parola del tempo, l’evoluzione e le differenti
concezioni che nel corso degli anni si sono succedute sul problema degli enti
rappresentativi nel processo penale e su quello del monopolio dell’azione penale.
71. Il dogma del monopolio dell’azione penale
“ Nihil aliud est actio quam ius quod sibi debeatur, iudicio persequendi”(
2
).
L’azione penale (
3
), come noi oggi la intendiamo, cioè “reazione giuridica a
comportamenti antigiuridici”(
4
), nasce in epoca antica come vendetta privata
(
5
). In origine era, dunque, un’azione che spettava in modo diffuso all’intera
collettività e si attuava nelle forme della nominis delatio. Questa può essere
considerata la massima espressione di civiltà e di responsabilizzazione dei
cittadini dell’epoca antica e deve essere inserita nello spirito democratico che
pervade questo periodo. La responsabilità morale del civis romano, infatti, dura
(
2
) “L’azione non è niente altro che il diritto di perseguire in giudizio ciò che ci è dovuto”: Digesto, XLIV, 7, 51.
(Trad. propria).
(
3
) Per le voci enciclopediche vedi: F. BENEVOLO, Azione penale, in Digesto italiano, IV, 2, Torino, 1899, 906;
A. ANDREOTTI, Azione penale, in Enciclopedia giuridica , I, 5, 1904, 1211; G. GUARNIERI, Azione penale
(diritto processuale penale), in Novissimo digesto italiano, II, Torino, 1958, 64; G. LEONE, Azione penale, in
Enciclopedia del diritto, IV, Milano, 1959, 851; G. CONSO, Accusa e sistema accusatorio, in Enciclopedia del
diritto, I, Milano, 1958, 37. Per le monografie e spogli: L. BORSARI, Della azione penale, Torino, 1866; F.
CARRARA, Azione penale, in Rivista penale, III, 1875, 3; A. STOPPATO, L’azione penale: suoi caratteri e suo
esercizio, in Studi scientifici di procedura penale, II, Torino, 1893; S. RANIERI, L’azione penale: contributo alla
teoria dell’azione nel processo penale, Milano, 1928; A. D. TOLOMEI, Principi del processo penale, Padova,
1931; B. PETROCELLI, Azione. Istruzione. Accusa, in Rivista penale, 1931, II, 227; G. VASSALLI, La potestà
punitiva, Torino, 1942. Tra i contributi specialistici più recenti fa spicco: G. SABATINI, Vecchio e nuovo nella
teoria dell’azione penale, in Archivio penale, 1962, I, 145; P. DE LALLA, Il concetto legislativo di azione
penale, Napoli, 1966; M. CHIAVARIO, Appunti sulla problematica dell’azione nel processo penale italiano:
incertezze prospettive limiti, in Rivista trimestrale di procedura civile, 1975, 864; G. UBERTIS, Azione penale e
sovranità popolare, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1975, 1191; A. GHIARA, Partecipazione
popolare all’esercizio dell’azione penale, in Giustizia penale, 1982, 255; M. CHIAVARIO, L’azione penale tra
diritto e politica, Padova, 1995.
(
4
) Verificatosi un reato sorge nello Stato il diritto di punire l’autore che, in quanto è diritto che tende ad essere
attuato, e in quanto si rivolge verso l’autore del reato stesso, si manifesta come sua pretesa punitiva, la quale,
oltre che essere potere dello Stato, perché spetta ad esso medesimo provvedere alla sua realizzazione, è anche suo
dovere perché, avendo carattere pubblico gli interessi tutelati dalle norme penali, la loro attuazione si impone allo
Stato, come suo obbligo, per il raggiungimento di uno dei suoi fini essenziali, quale quello della conservazione e
reintegrazione dell’ordine giuridico.
(
5
) Nell’antica Roma il sistema processuale delle questiones codificato dalla lex Iulia iudiciorum publicorum, ,
introdotta da Augusto, aveva preciso carattere accusatorio. Il processo era introdotto su iniziativa di un privato
cittadino, che in certo modo si faceva esponente dell’interesse della collettività. Spettava a lui svolgere le indagini
sul crimine, fornire le prove, addurre gli argomenti a sostegno dell’accusa e il magistrato non poteva promuovere
d’ufficio il giudizio né porre taluno nella condizione di reus senza la preventiva nominis delatio (denuncia),
attuata mediante la presentazione del libellus inscriptionis. B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale
nell’antica Roma, Milano, 1998, 241.
8fino a quando durano le istituzioni democratiche; con il degenerarsi di queste,
che vede trasformare gli zelanti cittadini, paladini della pace pubblica, in abili
oratori nonchè accusatori di professione, non certo intimoriti dalle pene stabilite
per la calunnia e la diffamazione, oltre al sopraggiungere di un nuovo tipo di
processo, quello della cognitio extra ordinem, l’azione penale finisce per essere
attribuita esclusivamente ai funzionari imperiali che la esercitano con i principi
propri del sistema inquisitorio(
6
). Con questi accadimenti l’epoca dell’iniziativa
penale ad opera dei privati cede il passo all’azione pubblica.
Con le invasioni barbariche e la dominazione longobarda in Italia assistiamo
ad un ritorno del sistema accusatorio tipico delle popolazioni germaniche. Il
fondamento del diritto di punire si ricollega, almeno inizialmente, alla pura
vendetta(
7
), in epoca successiva poi, la faida resta lo strumento in mano al leso
solo per reati gravi, quali l’omicidio, le ingiurie; negli altri casi si va sempre più
diffondendo la pratica della composizione economica fra le parti, il c.d.
“guidrigildo”. Così l’arcaico diritto di vendetta, mitigato dall’influenza della
chiesa romana su tali popolazioni, si trasforma in diritto al risarcimento che da
composizione privata della lite finisce per avere anche risvolti pubblicistici(
8
).
(
6
) In netto contrapposto alle questiones, le cognitiones dei funzionari imperiali erano informate al principio
inquisitorio. Non c’era bisogno né di un accusatore né di un’ accusatio. I delegati del principe assumevano essi
stessi l’iniziativa della persecuzione, solitamente in seguito ad una propria indagine o su rapporto degli organo di
polizia di cui disponevano, raccoglievano le prove ed emanavano la sentenza. Potevano naturalmente avvalersi
anche di delatores ma questi erano ormai semplici informatori, non più degli accusatori in senso tecnico e la loro
denuncia aveva la natura di una mera segnalazione di reato. B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale
nell’antica Roma, Milano, 1998, 243.
(
7
) L’offeso e il suo nucleo familiare hanno il dovere esclusivo di perseguire il reo e questo avviene senza
ingerenza alcuna da parte dello stato. E’ l’epoca della cosiddetta “faida”.
(
8
) Si assiste all’introduzione del “fredo”, ossia una somma di denaro calcolata sull’intero ammontare del
risarcimento che doveva essere devoluto allo stato per la sua opera riconciliativa.
9 Le sorti del processo accusatorio lasciano definitivamente il passo al
procedimento per inquisitionem con la monarchia carolingia. La creazione di un
efficiente apparato burocratico al servizio del Re ne garantiscono l’ascesa,
nonché una nuova concezione della pena, intrisa di contenuto religioso
assecondano l’ascesa di un sistema repressivo non più in mano ai cittadini(
9
).
L’apice della cultura repressiva ad opera della Chiesa si realizza nel 1215 quando
Papa Innocenzo III elabora il primo organico sistema inquisitorio penale, dove
l’iniziativa dell’azione penale è lasciata ad un pubblico ufficio, che, in virtù di un
potere derivatogli da Dio, l’amministra con i metodi più oscuri e applica le più
aberranti torture e dove alla parte lesa non viene lasciato alcun margine di
partecipazione.
Con l’affermarsi in Europa delle grandi monarchie del XV secolo al potere
divino di punire si sostituisce quello regale e il diritto penale diventa lo
strumento per l’attuazione di interessi pubblici, cui quelli individuali lasciano il
campo. Così è lo Stato ad esercitare l’azione penale perché il reato lede in primis
l’ordine giuridico di cui il sovrano è garante. La pena è ora soltanto il mezzo per
la riaffermazione del diritto statale negato dal reo e in quest’ottica kantiana, della
composizione legale del crimine attraverso la pena, colui che ha subito il reato
perde completamente il ruolo di protagonista, per acquistare quello di una
parentesi civilistica nel contesto penale(
10
). La pretesa punitiva dello Stato fa sì
che la punizione del reo divenga lo scopo unico e diretto dell’azione e che
(
9
) Il reato non è più solamente lesivo della sfera giuridica del singolo, è innanzi tutto peccato e allora spetta a
coloro che amministrano in terra la giustizia divina, le autorità ecclesiastiche, accertare e condannare il colpevole.
G. SALVIOLI, Storia del diritto italiano, Torino, 1921, 787.
(
10
) L. FANTICELLI, L’azione penale, in AA.VV.,Quaderni di ricerca sulla teoria del processo penale, Siena,
1995, 33.
10
pertanto non può dissociarsi dal suo portatore, estrinsecatosi nella figura del
pubblico ministero.
Nel corso del tempo non si fece altro che portare avanti e affinare questa
impostazione e, a parte il breve momento accusatorio portato dalla rivoluzione
francese, con tutto il suo carico di principi di libertà ed uguaglianza, di
partecipazione alla vita politica ed economica che ebbe risvolti anche sul modo
di partecipare all’amministrazione della giustizia, l’avvento della restaurazione
non mancò di riaffermare e rafforzare, con elementi intrisi di statalismo, il
carattere pubblicistico della repressione dei reati. Napoleone nel suo code
d’instruction criminelle del 1811 decretò il c.d. sistema misto ma condizionato
da trascinanti influssi inquisitori che meglio si adattavano alla concezione
dittatoriale del suo stato e alla creazione del suo apparato burocratico. La prima
fase del procedimento era tutta nelle mani di un dominus, il procureur imperial
che aveva il compito di promuovere l’azione penale. Il principio del monopolio
dell’azione penale da parte del pubblico ministero ebbe, dunque, ingresso nel
nostro sistema processuale penale per derivazione francese e a partire dal lontano
editto del 1807, con cui la procedura penale francese venne estesa al nuovo
Regno d’Italia, non ci abbandonò mai più.
Con l’avvento delle prime costituzioni, liberali e democratiche, l’egemonia
statalista viene bilanciata dal contrappeso dei nuovi principi e si ripropone,
dunque, il problema se concedere o meno l’iniziativa penale al privato e quanto
questa possa derogare al potere statale di accusa(
11
). Nel ritorno, auspicato da
(
11
) In questo periodo sono molti a ipotizzare la concessione dell’azione penale a tutti i cittadini, ritenendo che
la contrapposizione fra i principali sistemi processuali, l’accusatorio e l’inquisitorio, consiste in una diversa
attribuzione della titolarità dell’azione penale: esercizio libero e universale nel primo caso, vincolato dal volere
del magistrato nell’altro.
11
molti giuristi del tempo, all’actio popularis, viene individuato lo strumento di
verifica politica nei confronti di un pubblico ministero legato al potere esecutivo
e dunque sottoposto alle influenze politiche del partito dominante, che finiscono
per inficiare, condizionandolo, l’esercizio della funzione giurisdizionale. E’ di
questo periodo la profonda riflessione del maestro penalista Francesco Carrara,
che sottolinea la stretta correlazione esistente tra la realtà politica e giuridica
delle forme di esercizio dell’azione penale(
12
). L’insigne Autore equipara il
monopolio del pubblico ministero ad uno strumento di difesa del potere stesso.
Cioè per difendere il principio di autorità è necessità politica che gli organi
dell’autorità non siano vulnerabili a capriccio di ogni privato cittadino con il
mezzo di accuse criminali(
13
). E’ dunque un principio politico quello che si
contrappone allo ius naturale del principio giuridico, il quale avrebbe voluto che
ogni individuo, rimasto offeso, rimanesse libero di perseguire la lamentata
offesa. Mantenuta questa deduzione si sarebbe, però, aperta la via a gravissimi
disordini e ne sarebbe eventualmente potuta derivare a danno della stessa autorità
giudicante l’impotenza del suo operare, un rischio che allora lo stato unitario di
recente formazione era poco disposto a correre. Ecco allora l’evidente conflitto
fra il principio giuridico e il principio politico ed è lo stesso maestro che alla fine
lascia il campo al prevalere del principio politico per non essere additato come
(
12
) “…Parvemi sempre che uno dei più eloquenti criteri per giudicare il grado maggiore o minore di libertà
civile lasciato ai cittadini dai rettori della nazione sia quello che si desume dalla maggiore o minore balia che
ànno i privati nello esercizio della azione penale da promuoversi contro i colpevoli di un delitto..” F. CARRARA,
Azione penale, in Rivista penale,III, 1875, 5.
(
13
) “…Li ufficiali giudiziari che la Nazione à costituito perché facilitino la tutela giuridica e la punizione dei
colpevoli si misero come sentinella avanzata perché le armi di un’accusa, quantunque giustissima, non andassero
a ferire i beniamini del potere..” F. CARRARA, Azione penale, in Rivista penale, III, 1875, 11.
12
nemico dell’ordine in quanto, come egli stesso disse, “la quiete universale è più
interessante del sacro rispetto al diritto individuale”.
Le istanze descritte ebbero comunque un qualche ritorno in campo
legislativo, ma il massimo di apertura in senso contrario al monopolio che l’Italia
ebbe fu nella previsione di una citazione diretta da parte dell’offeso per i reati
perseguibili a querela, contenuta nel codice del 1865. Anche se numerosi altri
furono i disegni di legge volti a scardinare il monopolio del pubblico ministero,
ad essi, inevitabilmente, si contrapposero insormontabili ostacoli consolidati da
una lunga tradizione politica e culturale, di accentramento statale, di cui abbiamo
poc’anzi delineato la genesi.
Il dogma del monopolio dell’azione penale, infine, non si è dissolto nemmeno
con l’avvento della nostra Costituzione repubblicana. La prima formulazione
dell’articolo 112 che prevedeva che “L’azione penale è pubblica e il pubblico
ministero ha l’obbligo di esercitarla senza poterla in alcun caso sospendere o
ritardare” fu soggetta alla contestazione di alcuni onorevoli, fra i quali Leone e
Rossi, che sottolinearono l’esigenza di una maggiore specificazione, ritenendo
che l’aggettivo “pubblico” potesse, per l’appunto, precludere a priori una futura
introduzione di istanze private nel processo penale(
14
). Nonostante il rilievo sia
stato recepito nell’odierna formulazione, e non potendo la Costituzione, dunque,
offrire oltremodo un valido fondamento al monopolio dell’azione penale
(
14
) L’Onorevole Leone nel suo intervento faceva notare che: “…Se noi vogliamo dire che il pubblico ministero
non può declinare il dovere di promuovere l’azione penale, aboliamo l’espressione:“l’azione penale è pubblica” e
diciamo soltanto che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla..” Non impediamo al legislatore di domani
di poter risolvere questo problema nel quale indubbiamente vive e palpita una grande ansia democratica, cioè il
non respingere del tutto dall’ambito del processo penale quelle che sono le istanze, i desideri, i legittimi interessi
dei soggetti privati del rapporto giuridico penale…” “…L’azione penale sussidiaria del privato può essere in
qualche caso utile. Evidentemente questa riforma sarebbe preclusa, o per lo meno messa in dubbio, se l’articolo
112 si aprisse con una affermazione perentoria che l’azione penale è pubblica…”
13
attribuito al pubblico ministero, le istituzioni politiche e giuridiche hanno
comunque lasciato viva e indenne questa prerogativa statale, considerandola un
aspetto dell’altro baluardo dell’azione penale: l’obbligatorietà. Tuttavia
“obbligatorietà” dell’azione non vuol dire né esercizio esclusivo di questa, né
tanto meno solo concorrente con quella esercitata dal pubblico ministero. Il
binomio monopolio-obbligatorietà non è un unicum inscindibile, dove in carenza
del primo postulato anche il secondo perde la sua valenza. Monopolio e
obbligatorietà sono solo due aspetti della teoria dell’azione penale, due caratteri
che stigmatizzano il modus procedendi di chi ha il compito di dare l’impulso alla
macchina della giustizia, ma due caratteri non necessariamente concorrenti se
non espressamente previsto. Pertanto, potendo distinguere la partecipazione del
privato al processo, nelle tre forme che si suole riconoscere, tra esclusiva,
sussidiaria e adesiva(
15
), il dettato costituzionale esclude a priori solo l’azione
privata esclusiva, la quale violerebbe indirettamente il principio di obbligatorietà,
espressamente previsto come necessario dal dettato costituzionale. Dunque,
dall’articolo 112 Cost., ciò che si può evincere è semplicemente che nel nostro
ordinamento non possono trovare ingresso quelle forme di azione privata che
prescindono da un intervento della pubblica accusa, quali, appunto, l’azione
esclusiva, mentre può ben conciliarsi con i nostri principi la forma dell’azione
adesiva, nonché sussidiaria.
(
15
) La prima vede il completo esercizio dell’azione penale affidato all’offeso, che ha tutti i poteri propri che si
suole riconoscere al pubblico ministero; la seconda, invece, presuppone l’inerzia del pubblico ministero e la
sostituzione di questo con la persona offesa che esercita così i poteri spettanti al primo in via surrogatoria. Infine,
quella adesiva, si caratterizza per la comune partecipazione dei due soggetti all’esercizio dell’azione penale, dove
il leso ha una funzione di stimolo e di controllo nei confronti dell’operato del pubblico ministero.