manoscritti, lettere, libri, fotografie e persino fatture di vario tipo.
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La consultazione di
questo fondo mi ha permesso di raccogliere molte informazioni di prima mano e di
accostarmi in modo autentico e stimolante a questo personaggio, la cui biografia ha
suscitato subito in me sentimenti di solidarietà e comprensione.
Tra i numerosi testi della produzione yamatiana, la scelta del romanzo La dame de
beauté come oggetto di analisi è dovuta a una predilezione personale per il suo stile, le
tematiche che affronta e per la sua modalità narrativa. Non è poi trascurabile il fatto che
dovessi proporne una breve traduzione: tradurre un testo che non piace è a mio avviso
abbastanza frustrante e, alla lunga, demotivante.
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La mia tesi si articola in tre sezioni: presentazione del profilo biografico di Kikou
Yamata ed esposizione delle caratteristiche principali delle sue opere, presentazione e
analisi del romanzo La dame de beauté sotto il profilo narratologico-semiotico e
stilistico (“momento dell’interpretazione stilistica dell’originale”
6
) e traduzione di
alcune sue parti accompagnata dall’esposizione delle strategie adottate, con particolare
attenzione al problema dei realia (in termini generali e all’interno del romanzo).
Il primo capitolo riassume le fasi salienti della biografia dell’autrice alla luce della
doppia dimensione culturale e linguistica, illustra sinteticamente le caratteristiche
principali della sua produzione e, infine, si sofferma su alcuni romanzieri attuali che, per
tutta una serie di ragioni, potrebbero essere considerati suoi degni epigoni.
Il secondo capitolo è dedicato a un romanzo importante nella produzione
dell’autrice, La dame de beauté, che appare in un contesto socioculturale
particolarmente delicato per i rapporti fra l’Occidente e il Giappone, ossia all’indomani
della fine della seconda guerra mondiale. Va inoltre sottolineata la contrapposizione fra
la letteratura giapponese – che nei periodi di crisi preferisce trovare rifugio in tematiche
quotidiane, evitando argomenti troppo scottanti e ricercando piuttosto la perfezione
4
Il fondo è stato realizzato grazie all’intervento di Madame de Seigneux, insostituibile amica e confidente
di Kikou Yamata, che decise di consegnare l’intero corpus documentale (sia cartaceo che fotografico) alla
BPU nonostante il parere negativo espresso da Kikou Yamata quando era ancora in vita.
5
George Steiner, il primo a indagare il processo di significazione e comprensione alla base del processo
traduttivo, parlerebbe in tal senso di “affinità elettiva”: tale condizione si viene a creare nel momento in
cui (l’aspirante) traduttore riconosce nel testo uno spirito affine, qualcosa in cui riconoscersi. Cfr. Après
Babel, Paris, Albin Michel, 1978, p. 167.
6
Cfr. B. Terracini, Conflitti di lingue e di cultura, Torino, Einaudi, 1996, p. 23.
6
estetica
7
– e quella francese, in cui all’epoca la letteratura eroica e l’impegno sartriano
sono di grande attualità.
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Tuttavia è bene precisare che in quel periodo comincia ad
affermarsi anche in Francia un atteggiamento disincantato, incline a rifiutare qualsiasi
ideologia e a incoraggiare un ritorno al romanzo d’evasione attento soprattutto allo stile,
alla Chardonne. In effetti, il “cantore della malinconia della felicità” trova di nuovo una
fertile accoglienza.
9
La novità rappresentata da questo romanzo di Kikou Yamata è duplice, in quanto,
da un lato, si distacca dal filone del romanzo orientalista tout court (che trova in Loti e
Raucat dei validi esponenti) e, dall’altro, propone l’immagine di un paese tanto ardente
nelle proprie manifestazioni aggressive e patriottiche quanto raffinato nella sua
sensibilità estetica.
10
Sempre nel secondo capitolo, sulla base delle informazioni in mio possesso cerco
di risalire a probabili fonti e stimoli nella vita di Kikou Yamata che possano aver
concorso nel delineare la figura della protagonista, Nobuko Hayashi. In seguito prendo
in esame i temi e i motivi che caratterizzano il romanzo e mi occupo della sua fortuna
critica. Analizzo infine l’opera da un punto di vista prevalentemente semiotico-
narratologico e stilistico: il romanzo inizia in medias res con il tragico suicidio del
guardiano, dopodiché il narratore, con un’operazione di analessi, indugia nella
caratterizzazione di questo personaggio; come vedremo, il suicidio del guardiano è il
preludio di una serie di eventi negativi che toccheranno in sorte a Nobuko. Il linguaggio
denota un uso sapiente e sorvegliato della lingua francese, e constatiamo la ripetizione
puntuale di termini che appartengono alla sfera semantica dell’assenza, del vuoto,
dell’avidità morale e dell’emotività (come creux in ogni sua possibile variante).
7
La cosiddetta “letteratura impegnata”, dai giapponesi considerata debole e inefficace (il critico
Kobayashi Hideo scriveva – di ritorno dalla Manciuria – nel suo saggio La guerra: «La letteratura è per la
pace, non per la guerra»).
8
In questo senso possiamo rilevare in Kikou Yamata la persistenza dell’isolamento poetico, tratto, questo,
in cui prevale la componente paterna della sua dimensione eurasiatica. Il saggio Canards, lanternes et
assiettes è stato respinto dalla Revue des Deux-Mondes con queste parole : «Vos ailes de papillon seraient
écrasées dans les grandes pages solides et raisonnables qui requièrent plus de substance».
9
Chardonne, e come lui tutta la generazione di autori che non hanno vissuto la guerra (Jacques Laurent,
Roger Nimier, Antoine Blondin, Michel Déon…) formano il movimento degli Hussards: espressione
letteraria della Action Française (AF), o, per essere più espliciti, esponenti della destra letteraria, si
richiamano a uno stile impeccabile e privo di inutili orpelli retorici. Vedremo in seguito quanto Kikou si
discosti persino dal loro modello di perfezione formale.
10
Yasunari Kawabata conferma tale dicotomia nella prefazione al libro sul Giappone di Fernand Nathan
del 1975.
7
Nel terzo capitolo motivo la scelta dei passi che ho tradotto in italiano, nonché la
scelta della traduzione del titolo ed esplicito il metodo e le strategie adottate. Inserisco
quindi la traduzione della Lettera al mio editore e di alcune parti del romanzo da me
effettuata. Successivamente tratto i nodi della traduzione, avvalendomi per lo più
dell’approccio critico alla traduzione esposto da Bruno Osimo in Traduzione e qualità.
Affronto infine un aspetto interculturale (e talora spinoso) della traduzione – i realia (o
termini culturospecifici) – sia secondo una prospettiva teorico-analitica sia con
riferimento al testo che ho tradotto: dopo aver tracciato un quadro teorico del fenomeno,
riporto infatti tutti i realia presenti nel romanzo e li classifico sulla base delle
categorizzazioni elaborate da Vlahov e Florin e da Newmark.
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CAPITOLO 1
KIKOU YAMATA
11
: LA “JAPOLYONNAISE”
Kikou Yamata a circa 50 anni. Cfr. M. Penissard, op.cit.
11
Trascriviamo il nome dell’autrice secondo l’alfabeto fonetico francese, consapevoli del fatto che in
italiano dovremmo scrivere Kiku.
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1.1. Le peculiarità di Kikou Yamata
Spesso le note biografiche sull’autore sono irrilevanti e pleonastiche in uno studio
incentrato sugli aspetti della traduzione di una sua opera, tuttavia il caso di Kikou
Yamata rappresenta un’eccezione: portatrice, come vedremo, di due lingue, due culture
e tre nazionalità, questa scrittrice costituisce un’autentica novità nel panorama letterario
francofono della sua epoca per le tematiche affrontate, lo stile adottato, il modus
cogitandi e vivendi da lei proposto. Per queste ragioni, oltre che – beninteso – per una
migliore comprensione del romanzo oggetto di analisi nel secondo capitolo di questo
studio e la traduzione in italiano di alcune pagine, riteniamo indispensabile approfondire
il suo retroterra esistenziale, ideologico e culturale.
1.1.1. Cenni biografici: “mon cœur est un triangle”
Kikou Yamata, figlia di Tadazumi Yamada e Marguerite Varot, nasce a Lione il
15 marzo 1897. Il padre è diplomatico originario di Nagasaki, discendente di una
famiglia di samurai e console del Giappone a Lione con funzioni di addetto
commerciale, la madre una giovane lionese. La loro unione si configura sin dagli esordi
come un tentativo ben riuscito da parte di Tadazumi di sfatare l’idea di un Giappone
incorruttibile, in cui i gaijin, gli stranieri, non soltanto non sono visti di buon occhio, ma
addirittura sono considerati un ostacolo alla completa espansione della razza giapponese
nel mondo.
12
Dopo aver trascorso l’infanzia a Lione, capitale occidentale della seta, Tadazumi
deve rientrare in patria. Siamo nel 1908, Kikou Yamata ha undici anni e vede per la
prima volta coi propri occhi il Giappone, una realtà che sino a quel momento conosceva
solo attraverso la mediazione della letteratura
13
e con lo sguardo ingenuo tipico dell’età
12
Le radici di tale fenomeno sono ascrivibili alla politica del sakoku (chiusura) instaurata dalla famiglia
Tokugawa (XVIII secolo) e all’attività dei kokugakusha (studiosi di tradizioni e testi letterari giapponesi),
che preparano il terreno al consolidamento di una concezione di identità nazionale ispirata al principio di
esclusività e di unicità. In tal senso il motto imperante nell’era Meiji, Wakon Yōsai, (spirito giapponese,
conoscenze occidentali), rende bene l’idea del rifiuto integrale di qualsivoglia forma di meticciamento.
13
Dalle note biografiche conservate a Ginevra si evince che la sua prima scoperta del Giappone avviene
per caso a Lione, dove, nel corso di una festa, si imbatte in alcuni libri affascinanti in carta goffrata
10
infantile. Se la formazione scolastica francese era ispirata a principi di laicità e
democrazia, proprio come desiderava il padre (il cui patrimonio culturale era imbevuto
di ideologie liberali e di un ateismo voltairiano innestati sulle virtù cardinali dei
samurai), quella nipponica si configura esattamente come agli antipodi: il nome
dell’istituto “Sacré Cœur” a cui Kikou Yamata viene iscritta in Giappone basta già a
evocare l’impostazione religiosa ed etica del cursus studiorum. Non è tuttavia per tale
impostazione che i coniugi Yamata scelgono questa scuola, creata da un manipolo di
religiosi in un ex tempio buddhista: secondo il console e la consorte essa offre
un’opportunità unica, poiché qui è possibile imparare il francese
14
, l’inglese, la musica e
il disegno, elementi tipici di un’educazione raffinata che un’altra scuola giapponese non
avrebbe potuto fornire a parità di costi. Non va poi dimenticato che l’istruzione
impartita in questa scuola – (come nelle altre dello stesso tipo in tutto il mondo,
accomunate da una forte matrice religiosa alla base) – conferisce agli allievi un vivo
senso di appartenenza a una comunità. E avremo successivamente modo di sottolineare
il ruolo cruciale svolto da tale istituzione nella formazione religiosa dell’autrice, che
abbraccia senza rimpianti la fede cattolica.
È importante rimarcare come, a eccezione del padre Tadazumi, tutti gli altri
membri della famiglia (la madre, la sorella minore Hanah e il fratello Junta) non
conoscessero affatto la lingua giapponese.
15
A poco a poco – grazie anche a serate “di
formazione linguistica” a casa dei loro colti vicini
16
– Kikou Yamata acquisisce
dimestichezza con una lingua a dir poco sibillina per un occidentale. Una dimestichezza,
comunque, parziale e incompleta, se è vero che non ha mai padroneggiato a fondo il
giapponese scritto e che la sua pronuncia era tutt’altro che perfetta: anche per l’orecchio
meno accorto il giapponese di Kikou Yamata era un frapponese, giacché la lingua
stampati a Yokohama e in traduzione francese, che narrano, tra le altre, le avventure del piccolo
Momotarō.
14
Nella biblioteca del convento Kikou Yamata scopre molti autori francesi che la colpiscono: ricordiamo,
tra gli altri, Joseph de Maistre, Huysmans (il cui profumo di scandalo la entusiasma) e Romain Rolland.
Apprezza inoltre la lettura di Bergeron, Mauclair, Ruskin, e, per quanto attiene alla poesia, di Musset,
Samain e Moréas.
15
Sappiamo infatti che il padre non parlava mai in giapponese ai suoi figli e che declina addirittura
l’offerta di amici di famiglia giapponesi di ospitare Kikou Yamata per un anno nel loro Paese (siamo nel
periodo lionese, poco prima che la famiglia parta per il Giappone, nei primissimi anni del XX secolo):
non potrebbe accettare l’idea di lasciare una figlia sola in un paese dove le donne sono assai docili e
sottomesse ai mariti e il loro destino risulta tracciato fin dalla nascita.
16
«Le due famiglie» – ci informa Kikou Yamata nel suo Journal conservato a Ginevra – «si riunivano
attorno a un braciere e leggevano un libro di scuola.» [Traduzione nostra].
11
materna, il francese, emerge sempre in modo prepotente. E di questo la nostra autrice
soffrirà molto: «Ah, si j’avais appris le japonais dès l’enfance… !». Si rivelerà infatti
incapace di tradurre adeguatamente il testo della resa nipponica in Indocina e,
soprattutto, la sua domanda di assunzione come traduttrice presso l’ufficio europeo
dell’ONU, a Ginevra, verrà respinta.
17
Sebbene appaia già evidente in lei una marcata predilezione per la lingua e la
cultura materna, una volta terminati gli studi al “Sacré Cœur” la Japolyonnaise
18
viene
assunta come segretaria all’Associated Press, dove, lavorando sulla stampa giapponese,
impara a conoscere e ad apprezzare un paese che fino ad allora aveva in un certo senso
occultato ed escluso. Kikou Yamata attribuisce a questo lavoro, che le permette di
appassionarsi al mestiere di giornalista, il merito di averle “imposto” la conoscenza del
Giappone, che definisce “vivo” e “interessante”, ancorché “attraversato da profonde
contraddizioni”.
19
Poco dopo appare a Tokyo una rivista imbevuta di cultura francese, L’information
d’Extrême Orient, a cui Kikou Yamata collabora scrivendo il suo primo articolo dal
titolo La nuit japonaise, che firma con lo pseudonimo Chrysanthème.
20
Avvia inoltre
una collaborazione indefessa con il quotidiano Yomiuri.
Sin dall’infanzia, la nostra autrice percepisce le due dimensioni (occidentale e
orientale) come antitetiche e al tempo stesso complementari per la formazione di un
individuo completo. Non dev’essere stato facile, per lei, riuscire a sintetizzare e rendere
armonici gli aspetti più disparati di culture così distanti e apparentemente inconciliabili:
«Je visais à cet idéal, l’équilibre entre les deux hémisphères, qui selon moi se
complétaient». Solo in questo periodo, però, Kikou Yamata sembra essere pienamente
consapevole di questo straordinario regalo della natura, che ha fatto in modo che
nascesse a cavallo tra due continenti e le ha consentito di scegliere tra due culture di pari
raffinatezza, magnetismo e grandezza. Tra queste dimensioni connaturate alla sua
17
La sua prova di traduzione non viene giudicata abbastanza soddisfacente.
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Appellativo coniato da una signora appartenente all’entourage della Duchessa de la Rochefoucauld e
ripreso da Monique Penissard, identifica la doppia dimensione diatopica dell’autrice.
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Osservazioni palesate in occasione della morte dell’imperatore Meiji – il grande riformatore – e
dell’incoronazione del nuovo imperatore Taishō. Kikou Yamata sente risvegliarsi in lei tutto quello che la
legava a questo arcipelago.
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Il suo patronimico significa infatti in giapponese “risaia della montagna”, e il suo nome, che si esprime
graficamente con un ideogramma floreale, “Crisantemo”. Una volta rientrata in Occidente, Paul Valéry la
chiamerà sempre Mlle Chrysanthème, imitato da tutti gli altri letterati che frequentavano i salotti parigini
dell’epoca (soprattutto Les poètes du divan).
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