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umano sulla natura per la salute, la sicurezza e l’agio delle masse urbane” (Le
Gates and Stout, 1996: 333).
Ad un altro livello, l’organizzazione della città è sinonimo di potere. Arendt
scrive in La Condizione dell’Uomo Moderno”:
“L’unico fattore materiale indispensabile nella generazione del potere è
il vivere insieme degli uomini. E’ solo quando gli uomini vivono così
vicini che le potenzialità dell’azione sono sempre presenti, che il potere
rimarrà con loro e le loro città” (Arendt, 1961: 201).
La città è un ambiente economicamente e politicamente popolato da molteplici
attori in conflitto/competizione tra loro. Gli scontri e le negoziazioni che ne
discendono, hanno l’effetto di definirne –nel bene e nel male- la landscape (Zukin,
1991), vale a dire i tratti fisici e simbolici. Zukin ritiene che oggi (postmodernità)
come ieri (modernità) le forze in grado di plasmare la landscape possano essere
ridotte a due ordini di fattori: mercato e luogo. Tale dialettica vedrebbe il primo
termine sovente prevalere sul secondo. Ma come già sottolineato da Savage (1996:
314-315), la peculiarità del terreno empirico sul quale si sviluppa l’analisi di Zukin -
le grandi città statunitensi- rende difficile operare un confronto con il panorama
urbano europeo. Nei prossimi capitoli vedremo perché.
Se la città è luogo di genesi del potere, è interessante notare come il suo
esercizio si rifletta, in modo non sempre coerente, nello stile architettonico e nelle
strategie urbane adottate a seconda del prevalere di questa o quella élite. In questo
senso, un ulteriore aspetto che concorre alla definizione della cityscape è quello
ideologico. Se il pianificatore moderno ha come scopo quello di imporre l’ordine
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umano sul ‘naturale’ caos urbano, ciò non significa necessariamente che esista una
definizione di ordine buona per tutti, urbi et orbi. La recente modernità ha rigettato,
ad esempio, lo stile vernacolare a favore di uno stile architettonico essenziale e
standardizzato, al contempo estremamente funzionale: moderno appunto. Se il
paesaggio vernacolare si può definire come quell’ambiente costruito da gente
comune senza l’aiuto di architetti, pianificatori o altri professionisti (cfr. par. 5.1, 5.2,
5.4), il suo rigetto implica un’interdizione. Una consistente fetta della comunità che
guarda a questi edifici come alla metonimia di un’identità consolidata, si vede infatti
prevaricata ed esclusa dalla definizione degli equilibri simbolici della sua stessa città.
Tale rigetto, che si traduce in una vera e propria espropriazione culturale, pone
tuttavia seri interrogativi circa il nuovo modello da adottare. A questo proposito non
sempre vi è identità di vedute. Pensando, ad esempio, all’opera di Le Corbusier e
Frank Lloyd Wright, “il contrasto tra una modalità di pianificazione estremamente
centralizzata ed una assolutamente decentralizzata è piuttosto evidente” (Le Gates e
Stout, 1996 : 367).
Nella prassi moderna più recente, il panorama urbano è ciò non di meno –e
non solo in senso letterale- piuttosto monotono. Le élites occidentali hanno infatti
spesso manipolato le intuizioni di architetti ed urbanisti a seconda delle proprie
esigenze, attraverso l’adozione di strategie sorprendentemente simili. Ciò è dipeso
dal fatto che sovente è la previa e scrupolosa definizione degli obbiettivi economici e
sociali da conseguire, a determinare le modalità di sviluppo di una data area
geografica. Il pianificatore smette così i panni dell’idealista per vestire quelli del
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tecnocrate. Se nella Parigi di Benjamin gli spazi urbani sembravano esitare tra
conformità ed utopia –“un mondo di beni o di sogni”- oggi i medesimi spazi urbani
rispondono alle pressioni di un mercato sempre più dominante –“con i sogni pubblici
definiti da progetti di sviluppo privati” (Zukin, 1991: 41)
Design e pianificazione, dunque, non determinano il comportamento umano
tout court. Sono strumenti il cui uso –buono o cattivo- può avere un impatto
determinante sullo spirito di una comunità e, necessariamente, sulla cultura che
questa esprime. Sarà nostro obiettivo nel secondo capitolo evidenziare come il
paradigma moderno –che nel caso di design e pianificazione è risultato a lungo
egemone- messo in crisi a partire dalle contestazioni giovanili degli anni ‘60 e ‘70,
sembri nei decenni successivi avere esaurito la propria spinta propulsiva. Ciò non
significa che le tre forze del progetto in questione –la modernizzazione, le condizioni
della modernità e il modernismo culturale- abbiano definitivamente abbandonato il
campo, ma l’incontestato dominio della visione moderna è sicuramente giunto ad una
fine. Se nessuna ideologia o episteme pare essersi affermata come dominante del
nuovo panorama ‘fuori dal moderno’, inaspettate possibilità di partecipazione si
aprono per quelle sottoculture per troppo tempo ridotte al silenzio. Vi è chi tuttavia
(Habermas, 1983) ritiene che una tale fluidità –che Lyotard (1984) giudica prossima
ad un nuovo stato anarchico- incoraggi forme di controllo totalitario. Altrove
(Jameson, 1984) si cerca di evidenziare come il paradigma culturale che viene a
prendere forma in questo periodo di incertezza –postmodernismo- altro non sia che la
controparte culturale del cosiddetto ‘tardo capitalismo’ e dunque si qualifichi
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soprattutto come epifenomeno sovrastrutturale. Con Olalquiaga (1993) replichiamo
che troppo spesso è stato attribuito al postmodernismo una funzione intrinseca,
funzione la cui natura controversa è fin troppo evidente. Postmodernismo è infatti
uno stato delle cose, non una coerente e strutturata ideologia;
“Il Postmodernismo è dunque coinvolto con quei discorsi che cercano di
estrapolarvi un significato, essendo percepito alternativamente come
rivoluzionario, fascista, edonistico o redentivo. Più semplicemente il
Postmodernismo, come la cultura popolare prima di esso, diviene ciò
che ogni interpretazione vuole che sia (...)” (Olalquiaga, 1993: XIV)
Nella prima parte della nostra ricerca tenteremo di verificare, dunque, come
all’emergere di quelli che sono stati descritti come ‘i nuovi movimenti sociali’ –in
cui l’individuo contemporaneo acquista familiarità con concetti quali ‘identità’ e
‘differenza’- sia associato un processo di reincantamento, tale per cui alcuni gruppi di
pionieri si riappropriano della città, enfatizzandone le qualità ‘morbide’. Oggetto di
questo ritrovato affetto non sono quelle opere che i pianificatori hanno compiuto in
nome del progresso, ma paradossalmente proprio quegli spazi che non sono riusciti a
razionalizzare.
Ideale o reale, utopia o distopia, la città moderna è una città senza abitanti.
Come già nella Civitas Solis di Campanella, nella città razionale l’uomo esiste come
funzione dello spazio e dunque lo spazio e la sua organizzazione saranno il fuoco
d’attenzione del capitolo 1. Nel dettaglio analizzeremo le cause economiche e
macrosociali che hanno determinato il deperimento fisico e simbolico della città (cfr.
par. 1.1), l’affermarsi del paradigma tardomoderno in architettura (cfr. par. 1.2, 1.3)
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ed illustreremo il caso emblematico della ‘hausmanizzazione’ della Parigi del XIX
secolo (1.4).
Nel capitolo 2 cercheremo invece di investigare, per dirla con Raban (1974), la
natura teatrale della città, concentrandoci sulla trama e gli attori coinvolti.
Cercheremo così di sottolineare l’importanza del concetto di ‘cultura’ nella città,
nonché la sua natura profondamente relazionale (cfr. 2.1, 2.3). Analizzeremo la
crucialità del ruolo del ‘disordine’ nella città morbida e cercheremo di evidenziare
come un certo grado di conflittualità sia necessario per lo sviluppo di una cultura e di
un’identità autentiche (cfr. par. 2.2). Infine getteremo uno sguardo sul rapporto fra
postmoderno ed architettura, esponendo in breve gli spunti teorici più interessanti
(cfr. par. 2.3, 2.4).
Nel capitolo 3 tenteremo infine di dimostrare come la definizione di una città
passi anche, e soprattutto, attraverso la definizione della sua cultura. In una breve
introduzione illustreremo due modalità dialettiche di intendere il termine in
questione, una moderna ed una postmoderna (cfr. par. 3.1). Analizzeremo in seguito
la figura del flaneur baudelairiano, sottolineando la sua crucialità nella transizione
dalla città rigida alla città morbida (cfr. par. 3.2, 3.3). Cominceremo inoltre –in
quello che sarà uno dei temi principali della nostra ricerca- ad indagare l’ambivalente
natura della città postmoderna, sospesa tra inclusione e discriminazione (cfr. par.
3.4). Infine, illustreremo la nascita di fenomeni di cultura popolare la cui specificità
risiede nella contaminazione, nell’accostamento di discorsi culturalmente marginali a
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gusti e sensibilità più mainstream; fenomeni, dunque, in grado di conciliare
positivamente le due anime della città postmoderna (cfr. par. 3.5).
Nella seconda parte della nostra ricerca cercheremo di indagare più da vicino il
fenomeno dell’economia simbolica, partendo dal presupposto che la città
postmoderna nasce sulle ceneri di un sistema economico, quello fordista, ormai
profondamente inadeguato. Lo sviluppo abnorme delle suburbie, il processo di
decolonizzazione e la conseguente apertura di nuovi mercati del lavoro, hanno
determinato l’abbandono dei centri urbani da parte delle grandi industrie
manifatturiere. Tale processo ha significato per molte città un declino materiale e
simbolico.
Nel capitolo 4 cercheremo così di analizzare l’impatto delle cosiddette
‘industrie culturali’ sull’economia cittadina, evidenziando parallelamente l’effetto
rigenerante della loro azione in termini più propriamente simbolici (nel senso del
corroborarsi di un’identità avente una matrice culturale locale) (cfr. par. 4.1). Nel
dettaglio, cercheremo di sviscerare i temi che caratterizzano la dialettica globale-
locale o, in termini ‘zukiniani’, mercato-luogo, stressando l’importanza del
contributo e del coinvolgimento dei rappresentanti della cultura locale per lo sviluppo
di progetti urbani che aspirino ad un certo grado di autenticità (cfr. par. 4.2).
Illustreremo infine i casi di Londra e Glasgow cercando di comprendere se il rilancio
delle industrie culturali locali abbia avuto un effetto cospicuo sull’economia cittadina
e se gli eventuali benefici siano stati equamente redistribuiti (cfr. par. 4.3).
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Nel capitolo 5 il fuoco dell’attenzione si sposterà sulle dinamiche economiche
che hanno permesso il tanto celebrato ‘ritorno’ delle classi medie dalle suburbie.
Cercheremo così di analizzare i meccanismi alla base della gentrification –quel
processo che presuppone l’insediamento nelle aree depresse del centro cittadino da
parte di individui middle class con uno spiccato interesse in un lifestyle di tipo
bohèmian (cfr. par. 5.3). Vedremo come la rigenerazione di queste aree urbane
depresse abbia causato la rimozione delle rimanenti enclave operaie, spesso sotto
l’occhio compiacente dei governi cittadini (cfr. par. 5.2, 5.4). Evidenzieremo dunque,
in risposta al par. 4.3, come la rivitalizzazione del centro cittadino sia un fenomeno i
cui benefici non vengono infine equamente distribuiti (cfr. par. 5.5). Parimenti
sottolineremo il significato simbolico del centro e la sua importanza in termini
aggregativi (cfr. par. 5.1, 5.3).
Nel capitolo 6 osserveremo da vicino gli abitanti del rinnovato centro cittadino,
evidenziando il loro ruolo in termini di mediazione e trasmissione simbolica (cfr.
6.1). Cercheremo inoltre di intuirne i gusti e le preferenze in termini di consumo
culturale (cfr. par. 6.2). Ritorneremo infine brevemente sul tema della gentrification,
cercando di dimostrare come l’intraprendenza di questi soggetti sia imprescindibile
da quel processo di rigenerazione urbana che, nel precedente capitolo, avevamo
osservato sotto una lente specificatamente economica (cfr. par. 6.3).
Nel capitolo 7 metteremo a confronto i due casi di rigenerazione di New York
e Manchester, cercando di approfondire quegli aspetti che hanno determinato esiti
così dissimili (cfr. par. 7.1). Ci occuperemo in seguito dell’illustrazione del caso del
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Northern Quarter di Manchester, accennando brevemente alla sua storia recente ed
evidenziando l’attuale stato della sua economia (cfr, par. 7.2, 7.3). In particolare
cercheremo focalizzare la nostra attenzione sull’importanza della forma network per
tutti quei businesses che si vogliono flessibili e ‘leggeri’; ed evidenzieremo come la
prossimità fisica (il formarsi di clusters), oltrechè professionale, sia un elemento
fondamentale per lo sviluppo di un’economia culturale localmente connotata (cfr.
par. 7.3). Nell’ultimo paragrafo approfondiremo le tematiche relative alla nascita di
un network e, prendendo spunto dal caso di Manchester, porremo l’accento sulla
necessità dello sviluppo di rapporti strutturati sulla ‘fiducia’, una fiducia le cui basi
vanno oltre il rapporto professionale, coinvolgendo la sfera relazionale ed emotiva
(cfr. par. 7.4).