5
In questo contesto è nato il cosiddetto terzo settore composto da un variegato
insieme di soggetti che spaziano dalle organizzazioni non governative (ONG),
passando per le associazioni di consumatori per arrivare alle associazioni di
volontariato.
Parallelamente è analizzato come le imprese abbiano cambiato la loro visione con
cui affacciarsi al mercato, da una prospettiva incentrata sulla produzione a quella
incentrata sul marketing relazionale.
Nel secondo capitolo dell’elaborato, si passa ad analizzare quello che è l’oggetto di
tutto il lavoro: la Responsabilità Sociale dell’Impresa. Partendo da una serie di
definizioni d’impresa e di responsabilità, dal punto di vista storico-giuridico, si
arriva ad un’analisi della letteratura in materia di CSR attraverso i contributi di
autori che vanno da Davis (1960) a Freeman (1988) fino ad arrivare ad autori più
recenti. Dopo quest’excursus teorico, lo studio si sofferma su un profilo più tecnico-
aziendalistico della questione e quindi in particolar modo sulla gestione delle
imprese in un’ottica socialmente responsabile. E’ stato possibile individuare tre
approcci teorici che hanno caratterizzato il dibattito sulla responsabilità sociale:
quella basata sugli stockholder, quella basata sul contratto sociale e quella basata
sugli stakeholder.
Nel terzo capitolo, sono analizzati i diversi strumenti attraverso i quali si manifesta
la CSR e modi in cui essi sono messi a conoscenza dei vari stakeholder da parte
delle imprese.
Lo studio si sofferma sull’esame delle peculiarità del Bilancio Sociale mettendo in
evidenza le motivazioni e le modalità per cui viene messo in essere questo
strumento. Oltre al Bilancio Sociale, sono descritte numerose tipologie di
rendicontazione sociale come il SA8000 per la tutela del lavoro, l’ISO14001 ed
altre certificazioni ambientali. Il capitolo si conclude con l’analisi economica e
sociale della trasformazione di alcune tecniche utilizzate nel settore del marketing,
come il “Cause Related Marketing”, che evidenziano un passaggio a quello che è
chiamato Social Marketing.
6
L’ultima parte del lavoro, infine, è incentrata sulla gestione della marca e della sua
reputazione, e sulla forte relazione che essa ha sulla corporate financial
performance dell’azienda; nel quarto capitolo sono presentati gli elementi in base ai
quali si misura il valore del brand e i vari contributi della letteratura in una visione
customer-based, ed è mostrata l’interazione delle diverse prospettive di studio e di
analisi delle scuole di pensiero a livello mondiale. Un approfondimento del genere è
risultato essenziale per comprendere il valore della percezione della marca, in
un’ottica di responsabilità sociale d’impresa, da parte del consumatore; questo
valore rappresenta vantaggi significativi sia per l’impresa sia per il consumatore
stesso a livello economico ed emotivo-simbolico.
L’elaborato approfondisce, quindi, i significati di brand equity, brand positioning,
brand identity, brand personality e le strategie di sviluppo del brand nell’ottica di
un’ottimale gestione strategica di una marca internazionale, delineando le
caratteristiche di un’analisi interna ed una esterna della marca.
7
Capitolo I – Rapporto tra etica ed economia
1. Mutamento dello scenario socio-economico
Il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale e gli avvenimenti
socio-politici, come il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, hanno
segnato profondi cambiamenti nello scenario socio-economico. Alla luce della
maggiore capacità del capitalismo nel promuovere il benessere economico e sociale,
si è accentuata nel mondo la tendenza a sostituire i sistemi di pianificazione
centralizzati con meccanismi di scelta regolati dal mercato. Questa propensione si è
concretizzata in un insieme d’interventi (liberalizzazioni, privatizzazioni, apertura
delle frontiere) che hanno concorso alla globalizzazione, all’intensificazione della
concorrenza, all’indebolimento degli Stati nazionali nel controllo della dinamica
delle proprie economie sempre più condizionate da forze di mercato sopranazionali.
Le imprese, sottoposte alla forte pressione competitiva, sono state costrette a reagire
e sono diventate le protagoniste del progetto di rinnovamento, assumendo un ruolo
centrale nel sistema economico e sociale. Questo cambio di marcia le ha costrette a
rivedere non solo i propri sistemi operativi e gestionali, ma anche a modificare i
cardini attorno ai quali articolare le scelte strategiche.
La globalizzazione costituisce il primo e fondamentale fattore di trasformazione
dell’economia mondiale
1
. Questo irreversibile processo apre grandi opportunità per
1
COHEN R., KENNEDY P., (2000), Global Sociology, Macmillan e New York University Press.
8
la creazione di nuova ricchezza. Storicamente possiamo sintetizzare questo processo
in tre ondate di globalizzazione partire dal 1870.
La prima ondata può essere inquadrata tra il 1870 e il 1914, che furono i primi anni
in cui ci fu una diminuzione dei costi di trasporto e la riduzione delle barriere
tariffarie. Questi due elementi permisero inizialmente lo sfruttamento
dell’abbondanza di terra e a trarne beneficio furono sicuramente i proprietari
terrieri; ma la rapidità della crescita economica contribuì alla riduzione della
povertà come mai era avvenuto prima. Tuttavia, questa riduzione fu insufficiente a
controbilanciare l’andamento della popolazione, ed i poveri aumentarono.
La seconda ondata riguarda il periodo tra 1945 e il 1980: a seguito di una forte
depressione che portò molti stati ad attuare misure protezionistiche (limitazioni
sulle fughe di capitali, sull’immigrazione, etc.) e che provocarono inevitabilmente
una riduzione degli scambi, si passò ad una fase d’internazionalizzazione. Furono
abolite le barriere tariffarie seppure in misura parziale; nei confronti dei paesi in via
di sviluppo furono eliminate solamente quelle relative ai beni primari che non erano
in concorrenza con i beni agricoli dei paesi sviluppati. Pertanto in quel periodo la
liberalizzazione fu asimmetrica poiché si arricchirono solo i paesi già
industrializzati.
L’attuale ondata di globalizzazione, invece, che inizia negli anni Ottanta, si
distingue dalle precedenti per diversi aspetti; in primo luogo per la partecipazione ai
mercati globali di un numeroso gruppo di paesi in via di sviluppo. Basti pensare a
paesi come l’India, la Cina, il Messico e il Brasile che hanno visto una crescente
ripresa economica e che sono diventati sempre più importanti nel panorama
economico mondiale. Per la prima volta molti paesi poveri sono riusciti a sfruttare
le potenzialità di una forza lavoro abbondante per accedere ai mercati globali dei
prodotti e dei servizi. Infine, anche la ripresa dei flussi migratori e di capitale hanno
caratterizzato quest’ondata attuale rispetto alle precedenti per la sua vastità e
portata. I flussi di capitale verso i paesi in via di sviluppo hanno visto una crescita
esponenziale: da meno di 28 miliardi di dollari negli anni Settanta, a circa 306
miliardi di dollari nel 1997, in cui hanno raggiunto il punto massimo. Le
9
immigrazioni dai paesi poveri verso quelli ricchi, in questi ultimi anni sono
aumentate considerevolmente, soprattutto per motivi economici data la forte
disparità tra i salari dei paesi in via di sviluppo e quelli industrializzati. Inoltre, il
fattore immigrazione ha favorito il flusso d’idee, culture e stili di vita che,
inevitabilmente, si sono intrecciati fra loro. L’integrazione culturale e sociale è stata
incoraggiata anche da un forte sviluppo tecnologico, che ha permesso sempre più di
eliminare confini spazio-temporali.
Una recente ricerca dell’Institute for Social and Policy Studies di Washington
2
ha
dimostrato quanto il mondo imprenditoriale stia diventando sempre più il principale
motore dello sviluppo nei paesi poveri. Infatti, delle prime 100 entità economiche al
mondo, 51 sono imprese e 49 nazioni; le 200 più grandi imprese al mondo
realizzano oltre un quarto dell’attività economica mondiale. Ancor più indicativi
sono i dati relativi ai flussi di capitali verso i paesi in via di sviluppo: nel 1970 esso
proveniva per il 70% dal settore pubblico e per il 30% dal privato. A distanza di 30
anni la situazione si è capovolta: l’80% proviene dai privati e solo il 20% dal
pubblico. Le grandi imprese, quindi, si trovano di fronte ad un doppio livello di
operatività e di sviluppo: da un lato sono ancora fisicamente legate ad un territorio
di origine, mentre dall’altro virtualmente collocato in un piano aterritoriale. Questo
cambio di marcia le ha costrette a rivedere non solo i propri sistemi operativi e
gestionali, ma anche modificare i cardini attorno ai quali articolare le scelte
strategiche.
Da questa breve descrizione di cosa ha portato la globalizzazione, si può
comprendere come il mondo stia mutando all’insegna del paradosso. Da una parte si
stanno aprendo numerose opportunità per milioni di individui a livello mondiale,
offrendo enormi potenziali per sradicare la povertà; dall’altra, però, non tutti i paesi
in via di sviluppo hanno avuto una simile opportunità. Molti altri paesi
sottosviluppati non sono riusciti ad integrarsi nell’economia industriale mondiale,
assistendo solamente ad una diminuzione del reddito ed un aumento della povertà.
2
MOLTENI M., M. LUCCHINI,(2004), I modelli di responsabilità sociale nelle imprese italiane, Franco
Angeli, Milano
10
L’ultimo decennio ha mostrato una crescente concentrazione di reddito, delle risorse
e di benessere nelle mani di pochi paesi, portando quelli sottosviluppati ad una
posizione marginale nel panorama socio-economico mondiale.
Alla fine del 1999, il vertice del WTO di Seattle fu attaccato dalla protesta di decine
di migliaia di persone, in rappresentanza di organizzazioni ambientaliste, pacifiste,
umanitarie, sindacali e politiche. Successivamente a queste persone fu dato il
nominativo di “Popolo di Seattle”, un movimento che ha avuto una forte crescita
anche in Italia. In occasione del vertice dei paesi del G8 che si svolse a Genova nel
luglio 2001, il movimento “no global” italiano organizzò un “contro-vertice” al
quale presero parte centinaia di migliaia di persone. Tuttavia, all’interno di questi
movimenti di critica al processo di globalizzazione, esiste un’ampia frangia di
persone che non assumono posizioni estreme come i no-global; esse non sono
contrarie alla formazione di un sistema di scambio e di relazioni a livello globale,
ma semplicemente non credono che maggior libertà concorrenziale sia di per sé una
condizione sufficiente per la diffusione equa della ricchezza e la massimizzazione
del benessere.
Oggi esistono delle istituzioni internazionali (WTO, Banca Mondiale, FMI) che
cercano di regolare le questioni economiche a livello mondiale, lasciando purtroppo
ai paesi poveri scarsa influenza e poca voce in capitolo, sia per mancanza di
capacità, sia per carenza di rappresentati significativi. Pertanto, è necessario
consolidare le regole e le istituzioni per una governance più forte, sia a livello locale
che mondiale che coinvolga tutti gli attori sociali, in modo da preservare i vantaggi
del mercato globale, ma anche di salvaguardare le comunità. Insomma, una
globalizzazione che non operi solo a favore dei profitti, ma anche degli individui
3
.
Nel Settecento il padre dell’economia Adam Smith analizzò il rapporto tra
economia e società, parlando di “mano invisibile” come guida dell’individuo a
produrre il bene della società, al di là delle sue intenzioni egoistiche
4
. Nel curare il
proprio interesse di perseguire profitto, l’imprenditore cura l’interesse della società,
3
UNDP, Rapporto 1999 su Lo Sviluppo Umano. La globalizzazione, Rosenberg & Seiller, Torino 1999, pp.
17-29.
4
ZANINI A., (1994), Adam Smith, edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano, pag. 94.
11
in quanto produce ricchezza e crescita economica. Smith riconosce che l’economia
influenza la società attraverso la “mano invisibile” ovvero nella distribuzione del
bene sociale prodotto tra tutti i protagonisti dello scambio economico. Dopo due
secoli, negli anni settanta, Milton Friedman
5
, fondatore, assieme a Gorge Stigler
della celebre scuola di Chicago, ed entrambi Premi Nobel dell’economia, poteva
,scrivere: “il vero dovere sociale dell’impresa è ottenere i più elevati profitti
(ovviamente in un mercato aperto, corretto e competitivo) producendo così
ricchezza e lavoro per tutti nel modo più efficiente possibile”
6
.
A sua volta, una tale affermazione era la diretta conseguenza di un pensiero
compiuto che, in precedenza, Friedman aveva esposto in una delle sue opere più
note: “Capitalism and Freedom”. Egli considera che “in un mercato aperto, corretto
e competitivo” l’unica legittimazione del fare impresa è operare per massimizzare il
profitto, producendo ricchezza e occupazione per i dipendenti. Massimizzando il
rendimento per gli azionisti, l’impresa massimizza il benessere complessivo e
provvede alla sua distribuzione nella società così, nel perseguimento dello stesso
scopo, il valore economico coincide con il valore sociale. Altrettanto chiara era la
giustificazione di una proposizione così impegnativa: poiché il profitto è un
indicatore sintetico di efficienza (allocativa), massimizzare il profitto significa fare
il miglior uso possibile di risorse e quindi operare, in ultima istanza, per il bene
comune (creare cioè ricchezza e lavoro per tutti). Sotto tali condizioni, catena del
valore economico e catena del valore sociale finiscono col coincidere.
Nel XXI secolo le teorie di Smith e Friedman, sebbene possano considerarsi
premesse della responsabilità sociale, non sono più sufficienti a dare legittimazione
alle imprese. Massimizzare profitti oggi, nella società post-fordista, non è più
sufficiente all’imprenditore, perché l’azienda deve avere uno sguardo più ampio,
rivolto cioè alle conseguenze economiche, sociali e ambientali del suo operato.
5
FRIEDMAN M., (1970), “The social responsibility of business is to increase its profits”, The New York
Times Magazine, 13 settembre 1970.
6
FRIEDMAN M., (1962), Capitalism and Freedom, Chicago University Press, Chicago, pag. 133.
12
In tale contesto assumono rilevanza sia la critica alla globalizzazione sia la crisi dei
mercati finanziari
7
.
Coloro che simpatizzano con i movimenti di critica alla “globalizzazione” non lo
fanno perché sono contrari alla formazione di un sistema di opportunità di scambio
e di relazioni economiche a livello globale; essi piuttosto, non credono che i mercati
globali siano di per sé condizione sufficiente per la diffusione equa della ricchezza e
la massimizzazione del benessere. A tale scopo, secondo tale impostazione,
occorrerebbero istituzioni, sia per il funzionamento del mercato (definizione dei
diritti di proprietà a tutela delle parti, contratti abbastanza chiari ed articolati,
informazione e capacità contrattuale non troppo diseguale, imposizione dei contratti
e dei diritti), sia per l’accesso dei singoli al mercato (istituzioni che provvedano a
“beni principali” come istruzione, salute, sicurezza, previdenza sociale contro le
carestie e la povertà, protezione contro le calamità naturali, in grado di garantire alle
persone le capacità senza le quali non possono prendere parte attivamente né alla
società, né al sistema degli scambi). In mancanza di queste istituzioni il mercato non
funziona adeguatamente come meccanismo di allocazione delle risorse e troppo
pochi sono coloro che hanno accesso alla ricchezza (che quindi non genera tanto
benessere quanto potrebbe). Efficienza ed equità dovrebbero essere
simultaneamente custodite e garantite da un insieme appropriato di istituzioni. E’
vero che strutture globali di questo tipo, in grado di regolare le transazioni
internazionali e le economie in via di sviluppo, tutt’oggi non esistono. D’altra parte
è anche vero che con ciò non si intendono solo istituzioni giuridiche ma anche
semplici convenzioni sociali e regole di condotta, che costituiscono la trama
istituzionale soggiacente a un mercato che funzioni appropriatamente. Ecco perché
si chiede alle imprese transnazionali di assumersi la responsabilità sociale di agire
“come se” queste istituzioni esistessero. Insieme a queste correnti di pensiero, si sta
sempre maggiormente sviluppando nella popolazione sentimenti sfiducia e
diffidenza verso la grandi società capitaliste e forse verso le tendenze di tutto il
sistema.
7
SACCONI L., (2003), Un contratto sociale per l’impresa , in Etica per le produzioni, Milano.
13
Sicuramente un fattore scatenante e amplificatore di questa sfiducia, soprattutto nel
settore finanziario, è stato la scoperta che alcuni soggetti di dubbia qualificazione
abbiano sfruttato sistematicamente il loro vantaggio informativo nei confronti degli
azionisti per attuare politiche di bilancio, colludere con gli auditor, i revisori dei
conti e con consulenti finanziari; il tutto in conflitto d’interessi con gli azionisti. Se
le imprese manipolano i dati e trasmettono segnali devianti rispetto al loro stato e
alle loro prospettive, esse inducono i mercati in errore, con il rischio di “effetti
domino”
8
che possono assumere dinamiche e intensità imprevedibili. Le inadeguate
pratiche di governo societario di alcune grandi imprese, in cui molti cittadini hanno
investito i propri risparmi, hanno richiamato l’attenzione del pubblico sull’integrità
e sull’atteggiamento delle imprese nei confronti degli azionisti e della società nel
suo complesso. In un momento in cui le imprese sono tenute a rendere conto del
proprio impatto sulla società, la responsabilità sociale delle imprese o meglio la
Corporate Social Responsibility, è sempre più oggetto di discussione non solo a
livello europeo, ma anche a livello internazionale. A livello mondiale è emersa la
necessità di un’attenzione e controllo degli impatti della gestione delle
organizzazioni sugli stakeholder, avendo come obiettivo ultimo quello di un
approccio integrato ed equilibrato tra fattori e prestazioni economiche, sociali ed
ambientali condiviso con parti interessate e partner sociali.
La “Responsabilità Sociale delle Imprese”, o “Corporate Social Responsibility”, ha
segnato la rinascita di un nuovo modo di intendere l’impresa ormai opaca, buia e
priva di vita. In definitiva sono fermamente convinto che questa tematica possa dare
un’ “anima” all’impresa, una sua trasparenza, in una calda atmosfera di fiducia e
speranza per un mondo economico migliore e più responsabile. Il profitto è ancora
oggi un riferimento vincolante per le imprese, ma qualcosa sta cambiando, sia pure
lentamente. L’attenzione comincia a concentrarsi anche su modalità di produzione
8
Dal principio su cui si basa il funzionamento del noto gioco del domino, deriva che l’effetto domino si ha
quando un determinato evento produce una serie consequenziale di altri eventi ad esso connessi e collegati in
un rapporto di causa-effetto, con un conseguente e gravoso danno complessivo. Può esserne un esempio
eclatante il caso del crollo dei mercati dopo la bolla speculativa sulla nuova economia e con il caso Enron.
14
del profitto, insomma non solo “quanto” profitto produrre, ma anche “come”
produrlo.
Quest’onda partita da oltreoceano, ha sommerso tutta l’Europa, seppure con
modalità diverse a seconda dei promotori. Dagli anni ‘60 negli Stati Uniti
d’America, e all’incirca un ventennio dopo in Europa, si è tornato a parlare di
comportamento responsabile delle aziende, questa volta in un’accezione più
completa rispetto ai tentativi fatti in precedenza. Oggi, la diversità nei quadri
politici ed economici nazionali nel tessuto imprenditoriale e nelle normative hanno
dato luogo ad approcci alla responsabilità sociale d’impresa “differenti” a seconda
delle tradizioni, delle caratteristiche e delle sfide di ciascun Paese.
Si possono, però, definire tre linee standard di comportamento in base alla
localizzazione:
1. negli USA le pressioni per una maggior responsabilità delle imprese nascono
con il modello capitalista. Le rivendicazioni sociali hanno spinto le imprese a
reagire sotto la minaccia della perdita di immagine: la risposta alle esigenze
sociali è un’arma strategica;
2. in Germania e in Gran Bretagna, realtà socialdemocratiche costringono le
imprese ad adeguarsi alle pressioni sociali;
3. in Francia e in Italia l’assunzione di responsabilità e per lo più una scelta di
adeguamento.
In definitiva, le imprese devono rendere conto dell’impatto delle proprie scelte
strategiche sulla comunità, specialmente nell’epoca attuale della globalizzazione e
alla luce di significativi eventi come lo scarso rispetto delle norme di sicurezza, i
grandi disastri ecologici, l’impiego di lavoro minorile e le campagne di pubblicità
ingannevole.
Tali circostanze, infatti, sembrano avere portato al cambiamento del modus
operandi delle imprese e al complessivo riconoscimento della “social
accountability”.
Negli ultimi anni, anche a seguito di alcuni recenti scandali di grandi proporzioni,
come i casi Enron e Worldcom oppure gli scandali finanziari italiani come quelli di
15
Cirio e Parmalat, il tema della Corporate Governance ha suscitato sempre maggiore
interesse in tutto il mondo, alimentando un robusto filone di “law and economics”.
La ricerca di un adeguato sistema di buon governo societario è tutt’oggi uno degli
argomenti più attuali nel dibattito sia giuridico che economico mondiale.
2. Evoluzione del consumatore: consumo critico e responsabile
“L’anima del nuovo consumatore è un labirinto di emozioni, preferenze,
comportamenti, preoccupazioni e fedeltà. Il nuovo consumatore è confuso e allo
stesso tempo timoroso, fiducioso ma ancora pieno di sospetti, spaventato eppure
avventuroso, occupato ma curioso, anonimo e unico. Anche sull'anima di questo
nuovo consumatore agiscono molte forze, soltanto una qualità resta invariata: il
suo potere”.
(Laurie Windham e Ken Orton)
L’azienda oggi è considerata un’unità sistemica aperta, inserita in un contesto
sociale complesso, verso il quale presta attenzione per ottenere legittimazione del
proprio operato. Tale concetto è frutto di un processo evolutivo che ha attraversato
l’azienda nel mondo occidentale negli ultimi decenni. E’ importante avere un
quadro generico sul passaggio da una società fordista, tipica degli anni settanta,
caratterizzata da una produzione standardizzata, ad una società post-fordista, molto
più complessa, poiché sulla base di questa evoluzione è nata e sta crescendo una
nuova sensibilità alla responsabilità sociale di impresa. Premesso che le aziende nel
corso della loro esistenza sono state più o meno responsabili socialmente, e che la
responsabilità sociale è sempre esistita, nel passaggio da una società fordista ad una
società post-fordista il contesto socio-economico ha subito una rilevante
trasformazione. Il contesto economico ha subito un notevole cambiamento dovuto
ad una molteplicità di fattori: la trasformazione da un mercato in lenta evoluzione
ad un mercato turbolento, in continua trasformazione, in cui si ha eccesso di offerta
16
rispetto alla domanda di beni e servizi prodotti. L’aumento del potere dei
consumatori richiede che ci sia differenziazione tra i prodotti, quindi che si
utilizzino le tecnologie più avanzate nel processo produttivo e che la manodopera
impiegata sia specializzata. L’azienda fordista non possedeva queste caratteristiche,
tanto è vero che si è sviluppata in un mercato a concorrenza locale, in cui i prodotti
erano standardizzati e l’imprenditore guardava principalmente i suoi interessi
escludendo l’ipotesi che i clienti potessero in qualche modo influenzare le sue scelte
di produzione. Il cliente, non aveva interesse né possibilità di scelta fra modelli
diversi, infatti provava soddisfazione soltanto dall’acquisto di un bene, se prima non
lo possedeva, a maggior ragione se il prezzo era accessibile. Quando il mercato è
diventato saturo le aziende hanno dovuto adeguarsi e cercare nuove strategie di
profitto: si sono rivolte maggiormente ai clienti (ad esempio tramite indagini di
mercato) per ascoltare quali fossero le loro esigenze.
Di conseguenza si è avuto un cambiamento nel ruolo dei consumatori e una crescita
del loro potere di influenzare l’azienda: l’atteggiamento del consumatore, da cliente
passivo si è trasformato in consumatore responsabile, secondo alcuni
“consumatore-cittadino”
9
. Le scelte di consumo per il consumatore iniziale erano
piuttosto manipolabili dall’azienda e dipendevano da variabili economiche, come il
prezzo del bene, il reddito e il patrimonio del soggetto, nonché dalla disponibilità
dell’oggetto. Il cambiamento culturale ha prodotto un nuovo atteggiamento nel
consumatore, interessato ad avere informazioni sulle modalità di produzione dei
beni acquistati. Il consumatore-cittadino oggi “pretende di concorrere a definire e
talvolta a produrre, congiuntamente ai vari soggetti d’offerta, quello di cui ha
bisogno”
10
. In altre parole si riconosce al consumatore la capacità di auto-
organizzarsi per diventare partner attivo nella programmazione aziendale.
9
ZAMAGNI S., (2003), La responsabilità sociale d’impresa: presupposti etici e ragioni economiche, in “Il
ponte”, Firenze, n° 10-11/2003, pagg. 245-247.
10
ZAMAGNI S., (2003), La responsabilità sociale d’impresa: presupposti etici e ragioni economiche, in “Il
ponte”, Firenze, n° 10-11/2003, pag. 247.
17
Nel passaggio dalla società fordista a post-fordista l’impresa ha attraversato un
cammino composto da diversi orientamenti
11
. Inizialmente l’orientamento
dell’azienda è autoreferenziale, interessato soltanto alla sopravvivenza della stessa e
dei dipendenti, mettendo in secondo piano le esigenze dei clienti esterni. Il secondo
tipo d’orientamento a cui far riferimento riguarda il prodotto e la vendita: si pone
maggiore attenzione alla soddisfazione della domanda, all’economicità e alla
produttività dell’azienda. In questo caso si ha un eccesso di domanda sull’offerta,
mentre le condizioni che portano al terzo orientamento, cioè al mercato, sono
caratterizzate da un surplus della domanda sull’offerta: l’azienda dovrà ricorrere al
marketing ed alla diversificazione dei propri prodotti per rimanere sul mercato in
regime di concorrenza.
Negli anni Settanta alcune aziende, in seguito alla crisi finanziaria causata dallo
shock petrolifero e monetario, si sono orientate alla finanza, adottando una gestione
che consentisse di far fronte alle nuove problematiche.
L’orientamento alla globalità fonda le proprie radici sulla finanziarizzazione del
business, che ha stimolato il processo d’internazionalizzazione. La globalizzazione
e l’espansione dei mercati sono fenomeni che hanno causato in alcune aziende una
reazione di crescita ed espansione. La dimensione aziendale cresce con il crescere
della flessibilità e dell’adattabilità all’espansione, mentre fa diminuire la capacità di
controllo verso la stessa. Le aziende che si sono orientate all’espansione hanno
calcolato i vantaggi derivanti dalle economie di scala. Nell’azienda fordista, tipica
degli anni Sessanta-Settanta, la responsabilità sociale era considerata diversamente
da come possiamo intenderla oggi. Il cambiamento del contesto socio-economico è
stato fra i principali fattori che hanno influito a modificare l’atteggiamento
dell’azienda verso l’ambiente esterno, ma non si possono sottovalutare altre cause.
Nel corso dell’evoluzione, le aziende che sono cresciute dimensionalmente,
scelgono di adottare strategie che mirano alla qualità del prodotto, soprattutto in un
contesto in cui le aspettative dall’esterno sono sempre crescenti. La diffusione delle
11
HINNA L., (2002), Il bilancio sociale. Scenari, settori e valenze. Modelli di rendicontazione sociale.
Gestione responsabile e sviluppo sostenibile. Esperienze europee e casi italiani, Edizione Il sole 24 ORE,
Milano, 2002, pagg. 30-34.
18
certificazioni di qualità e l’attenzione alla natura dei prodotti acquistati da
parte del consumatore testimonia certamente questa tendenza a preoccuparsi del
“come” produrre, non soltanto del “quanto” produrre. Gli orientamenti più recenti
riguardano il rapporto tra l’etica e l’economia, ovvero il recupero e la
consapevolezza dell’azienda di operare sulla base di valori condivisi dalla comunità.
La comunicazione dei risultati ottenuti, la trasparenza nei confronti del personale
interno e dei clienti, il dialogo sul comportamento etico dell’azienda hanno dato
luogo a strumenti come il codice etico, il codice di condotta, la carta dei valori, di
cui si parlerà meglio successivamente.
L’atteggiamento di eticità dell’azienda, ha avuto minore considerazione in passato,
fino a che non si sono verificati scandali durante la produzione, che hanno reso
necessari una maggiore attenzione verso tematiche sociali: si prenda come esempio
il caso della multinazionale Nike negli anni 1997-1998 quando fu denunciato da
associazioni di consumatori il lavoro minorile mal pagato, per produrre scarpe in
India e Pakistan. In seguito alla denuncia l’azienda ha cambiato il proprio
atteggiamento rivolgendo maggiore attenzione ai diritti dei lavoratori. Tale
comportamento è stato per la Nike un avvicinamento alla responsabilità sociale.
Uno studio della Stanford University
12
esamina i comportamenti di acquisto dei
consumatori e la discrepanza degli stessi con i risultati di numerose indagini, nelle
quali i consumatori esprimono il desiderio di poter essere socialmente responsabili
nei loro acquisti. Non sono pochi, infatti, i casi di campagne di vendita di prodotti
socialmente responsabili che hanno visto un livello di acquisti poco significativo, a
fronte di numerose inchieste che descrivevano una larga presenza di consumismo
etico . Lo studio, basandosi su esperimenti ed indagini condotte in diversi Paesi del
Mondo, parte proprio da alcune domande fondamentali: esiste il consumatore
responsabile? E se esiste: perchØ non lo Ł anche nel momento dell acquisto? Al
contrario, se non esiste: perchØ i risultati delle indagini sono cos diverse dai
comportamenti di acquisto?.
12
Lo studio è pubblicato nella Rivista sull’Innovazione Sociale della Stanford University.