5
Non si trattava, cioè, di una forzatura teorica? Di un desidierio
di organicità e continuità sistematica che non trova riscontro nei
testi?
La puntualità con la quale Quatremère de Quincy interviene, con
queste tre opere, all’interno del dibattito culturale e artistico, che
nel periodo rivoluzionario assume sempre anche un significato
politico, mi sembra fornire una risposta adeguata a simili
interrogativi. Con le Considérations del 1791, egli si inseriva nel
vivo del dibattito sulla riforma delle accademie, con un trattato nel
quale i temi della riflessione critica degli ultimi venticinque anni
sono sapientemente orchestrati e corretti alla luce dei nuovi
principi rivoluzionari; cinque anni dopo, la pubblicazione delle
Lettres à Miranda costituì il punto culminante di un’accesa
polemica, scatenata dai sistematici saccheggi di opere d’arte
perpetrati dalle armate rivoluzionarie in tutta Europa e dal
degenerare delle teorie illuministiche fondate sul binomio arte-
libertà; infine, le Considérations morales, pur rinunciando a
quell’attivismo politico che non era ormai più possibile, mirano
direttamente al cuore delle opere d’arte, minacciate nella loro
identità e considerate ora alla stregua di merci ora di sacre reliquie.
Sullo sfondo, la Rivoluzione francese con la sua forte carica
ideologica e le sue molte contraddizioni, il mito di un’Antichità
ritrovata nelle utopie del Neoclassicismo e, soprattutto, il sorgere e
6
il progressivo affermarsi di quella «cultura del museo»
1
che
costituisce il filo rosso delle mie riflessioni.
Una «cultura del museo» che si è fatta strada in Francia a metà
del Settecento, fondandosi sul mito ellenistico del mouseion di
Alessandria, riformulato in chiave illuminista come aspirazione a
un luogo di insegnamento e di meditazione dedicato al culto delle
arti e della memoria, che faceva proprie le ragioni del sentimento,
della sua immediatezza e universalità, difese dal partito degli
«antichi» nel corso della famosa querelle, e portava a compimento
un processo inaugurato nel Rinascimento dai principi collezionisti
e dalle loro «camere delle meraviglie». L’apertura al pubblico e il
diverso significato attribuito alle opere d’arte, oltre alla possibilità
di un rapporto personale con esse, costituiscono le principali
novità del museo moderno, nato formalmente con la Rivoluzione
francese e non ancora morto, nonostante le reiterate critiche che gli
sono state rivolte, a partire dallo stesso Quatremère de Quincy fino
ai nostri giorni.
1
E. Pommier, Les musées en Europe à la veille de l’ouverture du Louvre, Klincksieck, Paris,
1995, Préface, pag. 13.
7
Ma che cos’è il museo? Che cosa lo distingue ad un certo
momento dalle gallerie dei principi e dei ricchi collezionisti? Fino
a che punto è lecito affermare che il museo è stato creato dalla
Rivoluzione? Non si tratta, piuttosto, del frutto delle riflessioni
«illuminate» che dall’inizio del secolo avevano rischiarato il
panorama intellettuale francese, e non solo francese? Nel corso
della mia ricerca, mi sono mossa lungo le linee tracciate da questi
interrogativi (e dai molti altri che si impongono naturalmente a
chiunque affronti l’argomento museo): raramente ho trovato
risposte univoche, piuttosto il mio filo rosso si è intrecciato in
tessuto ricco di connessioni e di stimoli intellettuali. Il museo mi è
apparso, innanzi tutto, come un luogo reale, una «diversificazione
specializzata dello spazio, che l’architettura progetta come
museo», e «che deve fare i conti, oltre che con la forma e con il
vuoto», come ogni costruzione architettonica, «con le collezioni
che è destinato a conservare e ad esporre»
2
. Anche se molti dei
grandi musei classici, primo fra tutti il Louvre, non sono nati come
musei, ma sono edifici adattati successivamente a una funzione
diversa da quella per cui erano stati costruiti, essi sono di per sé
monumenti architettonici, espressioni di un linguaggio forte e
altamente significante, quello dell’architettura che, allora come
2
Jeorge Canestri, «Forme dei musei», in: Il piccolo Hans, Anno 21, n° w 81, primavera
1994, pag. 59.
8
oggi, ha trovato nel museo un campo di applicazione
estremamente ricco di possibilità. Penso ai progetti presentati ai
concorsi per il Prix de Rome, nei quali un recinto quadrato
racchiude, quasi sempre, una croce greca con una rotonda
all’incrocio dei bracci: infinite variazioni sulle forme antiche del
Pantheon, della basilica, delle terme, ripensate alla luce della
nuova forma-museo. Il museo-tempio, dove è custodito il mistero
dell’incarnarsi dell’Idea nell’opera d’arte, come è stato realizzato
in Germania da Von Klenze e, soprattutto, da Schinkel, che ha
ispirato i musei di tante capitali europee dell’Ottocento. E nel
nostro secolo, più che mai eclettico e contraddittorio, il museo è
contenitore culturale pluridisciplinare come al Beaubourg,
disegnato per sottolineare il valore autonomo, predominante e
dirompente dell’immagine architettonica, in modo tale che
l’edificio in sé acquista un significato scultoreo, ma è anche il
Grand Louvre, al quale si accede attraverso la piramide di vetro
come attraverso lo specchio di Alice.
Eppure, questo luogo reale, questo spazio concreto e
inequivocabile, non esaurisce la realtà del museo e delle opere
d’arte in esso esposte, che si configura, invece, anche come mondo
immaginario, vero e proprio teatro della memoria. In tal senso, il
museo sembra voler cristallizzare il fluire del tempo, rendendo
minimo al suo interno il senso di annullamento del passato, il che
significa, nelle parole di Alessandra Mottola Molfino, che «si
9
collezionano oggetti per sottrarli alla vita e al tempo che fugge, per
sfidare la morte e trattenere il tempo. Dunque i temi della morte e
del tempo sono sempre e ancora associati al museo»
3
. Sottratti al
tempo, gli oggetti museali accedono a un altro tipo di vita dalla
quale, tuttavia, non è assente l’insidia della morte e, allo stesso
tempo, il museo sembra affidare alla memoria il compito di creare
nelle sue sale un luogo assoluto, idealmente fuori del tempo, dove
rinnovare attraverso gli oggetti raccolti ed esposti, una sfida
continua. Quatremère de Quincy fra i primi aveva avvertito tutta
l’ambiguità insita nel rapporto che il museo intrattiene con il
tempo, dichiarando senza mezzi termini che rinchiudere le opere
d’arte in un museo significa «uccidere l’Arte per farne la storia,
[anzi] l’epitaffio»
4
.
Ma è proprio vero, come vorrebbe il nostro autore, che il museo
uccide la bella totalità dell’opera d’arte, che separandola dal suo
contesto originario esso annulla ogni ulteriore possibilità
comunicativa? Al contrario, a me sembra che quel circolo virtuoso
di cui si parla nelle Considérations morales, quella relazione
artista-opera-spettatore, all’interno della quale ogni elemento ha
senso solo in relazione agli altri due, possa essere formulata
3
A. Mottola Molfino, il libro dei musei, Allemandi, Torino, 1991, pag. 63.
4
A. C. Quatremère de Quincy, Considérations morales sur la destination des ouvrages de
l'art, testo ripubblicato recentemente in Corpus des oeuvres de philosophie en langue
française, a cura di Jean-Louis Deotte, Fayard, 1989, pag. 48.
10
attraverso le infinite modalità diverse, che si realizzano proprio
grazie al museo e alla libertà che lascia allo spettatore
5
.
Non si può fare una colpa a Quatremère de Quincy di non
essersi saputo liberare da uno dei massimi pregiudizi dell’epoca,
quello che fa risiedere il valore delle opere d’arte nella loro utilità:
esse sono, ai suoi occhi, gli «strumenti» della virtù e della morale e
in quanto tali non possono essere destinate a quel mondo altro,
separato dal mondo reale, che è il museo. Eppure, se è vero, come
sostiene Edouard Pommier, che la bellezza è la grande assente dei
discorsi sull’arte della Rivoluzione
6
, Quatremère de Quincy
acquisisce un grande merito, quello di non aver trascurato la
specificità «estetica» dell’opera d’arte, che non può essere ridotta a
merce né a bottino di guerra. Il legame tra l’opera e la sua
dimensione storico-culturale, nelle Lettres à Miranda, è ciò che
determina la fruibilità culturale stessa dell’opera, la sua
universalità, cioè il suo valore estetico. Recidere questo legame
significa ridurre l’opera a merce, all’interno di un processo di
produzione e di consumazione senza fine, che priva l’opera d’arte
5
«Questa ‘opera aperta’ in cui consiste ogni esposizione dà luogo ad un
repertorio di appropriazioni diverse -dall’erudizione all’ignoranza,
dall’incomprensione all’irriverenza. L’autonomia del visitatore, e il suo
corollario, un’etica della visita personale, è, in fondo, la ‘rivoluzione’ del
museo democratico» (D. Poulot, «L’invention du musée en France», in: Les
musées en Europe à la veille de l’ouverture du Louvre..., op. cit., pag. 85).
6
E. Pommier, L’art de la liberté. Doctrines et débats de la Révolution
française, Gallimard, Paris, 1989, Conclusion, pag. 468.
11
della sua base filosofica e della sua realtà storica, del suo contesto,
della sua memoria.
«Questa concezione di una indivisibile organicità della cultura
[...] contiene tutti i germi di quella che possiamo definire un prima
cultura della tutela»
7
, di quella cultura, cioè, di cui il museo è
depositario. In primo luogo «l’opera d’arte non dovrà essere divisa
da se stessa; andrà quindi protetta da ogni manomissione e, in
genere, da ogni minaccia che ne offuschi l’identità originaria
compromettendone l’unità. [...] analogamente a quanto avviene per
l’integrità delle singole opere, la regola della non lacerazione andrà
anche applicata al rapporto tra l’opera d’arte e il suo ambito
esterno: ambito artistico, prima di tutto, ma anche culturale,
storico, perfino fisico, nel quale essa è nata e del quale è parte
integrante»
8
. I mille fili che collegano l’opera d’arte nella realtà
devono, cioè, potersi riprodurre anche nel pensiero che quella
realtà ordina, seleziona, discerne e che, nel museo, trova il luogo
della sua realizzazione.
Nei musei del XVIII e del XIX secolo, le infinite dispute sul
modo di allestire le collezioni hanno accompagnato il nascere della
storia dell’arte, che, abbandonata la biografia d’artista, si è
occupata dell’evoluzione degli stili, del loro sorgere e del loro
7
A. Pinelli, «Storia dell’arte e cultura della tutela. Le ‘Lettres à Miranda’ di
Quatremère de Quincy», in: Lo studio delle arti e il genio dell’Europa. Scritti
di A.C. Quatremère de Quincy e di Pio VII Chiaramonti, con un saggio di A.
Pinelli, intr. di A. Emiliani, trad. di M. Scolaro, pag. 45.
12
inevitabile tramonto -passando attraverso stadi successivi
dall’infanzia alla decadenza, prima di rinascere-, secondo uno
schema ciclico pienamente accettato all’epoca. Il governo dei
musei d’arte e di scultura antica, infatti, in molti casi era affidato
agli storici dell’arte e agli archeologi, i quali avevano lo scopo di
ordinare, catalogare e presentare le opere d’arte, fornendo al
pubblico, in questo modo, la propria chiave di lettura, cioè quella
della storia dell’arte ufficiale. Non dimentichiamo che uno degli
scopi dichiarati del museo era, all’epoca, quello di educare gli
artisti e istruire il popolo. Poiché il modo di presentare un’opera
d’arte non è mai oggettivo, esso rifletteva, e ancora riflette, le idee
degli organizzatori e i criteri di un’epoca, di una corrente di
pensiero, in definitiva, di una visione del mondo. Questo significa
che «il museo è la narrazione di un’idea e della sua realizzazione
in permanente dialogo con le fantasie e con i vissuti del pubblico.
[...] Ma non è necessario che la narrazione sia il risultato di una
intenzione più o meno consapevole del sistema museale
(architettura, collezioni, curatori, organizzatori delle esposizioni,
ecc.). [...] la proposta del museo interagisce con le fantasie e i
vissuti dei fruitori, che possono, dunque, elaborare una propria
storia»
9
.
8
Ibid., pag. 45-46.
9
Jeorge Canestri, «Forme dei musei»…op. cit., pag. 67-70.
13
Nelle pagine che seguono, i testi di Quatremère de Quincy sono
analizzati facendo costante riferimento alla complessa situazione
politica della Francia di quegli anni e al clima di grande fermento
culturale (e non solo ideologico) che li caratterizza. Il museo,
insieme ai problemi della classificazione e disposizione degli
oggetti, del modo di conservarli e di ordinarli secondo un criterio
storico coerente, e la radicale risignificazione delle opere d’arte
che esso comporta costituiscono altrettanti temi discussi e articolati
per la prima volta a Parigi durante la seconda metà del XVIII
secolo. Quella «cultura del museo», di cui il pensiero di
Quatremère de Quincy costituisce un capitolo essenziale, che
sembra fare da contrappunto all’irresistibile ascesa del Louvre, e
alla sua apoteosi come Musée Napoléon, e all’affascinante e
singolare parabola del Musée des Monuments Français.