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Capitolo 1 
Il fenomeno mobbing 
 
 
1.1. Le origini del mobbing 
Negli ultimi anni il fenomeno del mobbing ha assunto un’importanza rilevante, 
divenendo un problema di grande attualità. 
I mass media si sono ormai impadroniti dell’argomento facendo diventare forse 
eccessiva la diffusione del termine. 
Il mobbing è un fenomeno che si manifesta esclusivamente all’interno dei luoghi di 
lavoro e descrive la fenomenologia dei conflitti che vi accadono in modo continuativo e 
sistematico (Ege, Lancioni, 1990). 
Il termine “mobbing” deriva dalla parola inglese “to mob” che significa assalire, 
malmenare, aggredire. Fu usato dall’etologo Konrad Lorenz per definire il 
comportamento di animali della stessa specie che, coalizzandosi, attaccano un membro 
del loro stesso gruppo al fine di emarginarlo o ucciderlo (Cecchini, 2005). 
A partire dagli anni 70, in Scandinavia e nel Regno Unito si avviavano ricerche 
sistematiche sul comportamento aggressivo esercitato da bambini in età scolare, 
fenomeno denominato  Bullying o bullismo. In questi studi, il fenomeno viene descritto 
come comportamento assolutamente distruttivo, un sistematico e ripetitivo pattern di 
atteggiamenti e azioni negative messe in atto da un piccolo gruppo di bambini contro un 
altro, di fronte alle quali la vittima non può difendersi. 
Successivamente è stato introdotto il termine mobbing, ovvero una forma di molestia 
che si manifesta tra persone adulte e non tra bambini in un ambiente sociale particolare 
quale quello lavorativo (Depolo, 2003). 
E’ però Heinz Leymann, negli anni Ottanta, a studiare per primo in maniera sistematica 
il fenomeno nell’ambito del lavoro parlando di mobbing con specifico riferimento alla 
ripetuta e prolungata vessazione di natura psicologica esercitata nel contesto lavorativo 
(Depolo, 2003). 
Poiché non esiste una definizione univocamente accettata a livello internazionale ci 
atterremo alla definizione elaborata da Leymann nel 1990: “Il terrore psicologico o 
Mobbing lavorativo consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, 
perpetrata in modo sistematico da una o più persone diretta principalmente contro un 
singolo individuo, questi per mezzo di persistenti attività di mobbing, è spinto in una 
posizione di impotenza e impossibilità di difesa, e qui costretto a restare da continue 
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attività ostili. Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta (definizione 
statistica: almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo 
(definizione statistica: una durata di almeno sei mesi). A causa dell’alta frequenza e 
della lunga durata, il comportamento ostile dà luogo a seri disagi psicologici, 
psicosomatici e sociali” (Bernardi, 2007, p. 22). 
 
Leymann, ha categorizzato cinque tipologie di azioni: 
 
1. attacchi alla possibilità di comunicare; 
2. aggressioni alle relazioni sociali; 
3. aggressioni all’immagine sociale della vittima; 
4. alla situazione professionale e privata; 
5. alla situazione di salute; (Menelao, Della Porta, Rindonone, 2001). 
 
Da allora per mobbing si intende una condotta lavorativa ostile, che provoca malattie e 
disordini post - traumatici da stress. 
In Italia, il merito di aver introdotto lo studio scientifico del mobbing è da attribuirsi ad 
un allievo dello psicologo svedese, H. Ege, il quale dopo aver osservato il fenomeno nei 
paesi nordeuropei per più di un decennio, si è trasferito a Bologna, contribuendo in 
maniera decisa a far conoscere il problema a livello nazionale (Mottola, 2003).  
Secondo Ege il mobbing consiste in un lungo processo in cui il sistema delle relazioni 
tra gli individui si caratterizza sempre di più in base a una serie ripetuta di strategie 
negative. (Ege, 1996). 
Ege ha dato diverse definizioni di Mobbing, tra le quali una che illustra bene il 
fenomeno di cui stiamo trattando, egli sostiene che con la parola Mobbing si intende 
una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti 
aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori (Casilli, 2000). 
Secondo Ege, il mobbing non è un problema né medico né psichiatrico, non è una 
malattia della persona, ma una malattia dell’ambiente di lavoro (Ege, 2001). 
 
 
 
 
 
 
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1.1.1. I protagonisti del mobbing 
Nel mobbing è possibile individuare tre attori protagonisti. Essi assumono i ruoli di 
mobber o aggressore, mobizzato o vittima, side-mobber o co-mobber cioè gli spettatori 
dell’azione psicosociale che si svolge sotto i loro occhi o, a volte, grazie alla loro 
complicità. 
 
1.1.2. Il mobber 
Definire le caratteristiche dei mobber è difficile, da un lato entrano in gioco determinati 
profili di personalità, dall’altro il comportamento di coloro che compiono le azioni 
mobbizzanti è da mettere in relazione a quel particolare contesto lavorativo (Menelao, 
Della Porta, Rindonone, 2001). 
Il ruolo del mobber può essere interpretato da un’unica persona, da due o più persone 
coalizzate o da un’intera organizzazione. 
Il mobber agisce attraverso diverse azioni definite mobbizzanti: insulti, calunnie, 
minacce, accuse, limitazioni della facoltà d’espressione, eccesso di controllo, 
trasferimenti, sabotaggio, assegnazione di mansioni pericolose e molte altre ancora. 
Tali azioni sono finalizzate all’allontanamento della vittima. Spesso, inoltre, la portano 
all’uscita definitiva dal mondo del lavoro. 
Le motivazioni che possono spingere una persona ad essere mobber sono varie e 
molteplici: paura di perdere il posto di lavoro, invidia, antipatia, autodifesa, timore di 
essere superato da un collega, ecc. Inoltre, talvolta il mobber è convinto di agire 
all’interno di una normale azione di difesa del proprio territorio e dei propri diritti con la 
convinzione di essere stato provocato o minacciato. La sua azione mobbizzante può 
dunque non venire riconosciuta neanche da se stesso (Favretto, 2005). 
 
Secondo Walter (1993) i mobber sono persone che: 
1. tra due alternative di comportamento scelgono quella più aggressiva; 
2. quando si trovano in una situazione di mobbing si impegnano attivamente 
affinchè il conflitto prosegua e si intensifichi; 
3. conoscono e accettano in modo attivo le conseguenze negative che il mobbing 
ha per la vittima; 
4. non sono consapevoli delle conseguenze negative che il mobbing ha per la 
vittima; 
5. non mostrano nessun senso di colpa; 
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6. non solo sono convinti di non essere in colpa, ma addirittura credono di fare 
qualcosa di buono; 
7. danno ad altri la colpa della situazione conflittuale e sono convinti di avere 
soltanto reagito a delle provocazioni; (Ege, 1996). 
 
Ege ritiene di poter individuare due tipologie di mobber: il mobber casuale e il mobber 
intenzionale. Il mobber casuale non ha consapevolezza di esserlo, in quanto il suo 
comportamento deriva da un agire non pianificato. 
Il mobber intenzionale ha la piena consapevolezza dell’azione persecutoria condotta e 
dei danni che essa può provocare alla vittima: lo scopo è ben delineato e volto a 
distruggerla professionalmente (Gabassi, 2003). 
 
1.1.3. Il mobbizzato 
Il mobbizzato è la vittima del mobbing. Chiunque può diventarlo. Il mobbing secondo 
Leymann dipende dalle circostanze e dall’ambiente sociale ed organizzativo in cui si 
verifica. Leymann offre una semplice definizione del mobbizzato: vittima è colui che si 
sente tale. Il percepirsi vittima va di pari passo alla percezione di non potersi difendere 
dagli attacchi subiti. Questa impossibilità di difesa può essere dovuta al fatto che il 
mobbing è un processo vessatorio attuato sul posto di lavoro, luogo in cui le relazioni 
interpersonali sono regolate da rapporti di potere gerarchico. Per questo, qualora il 
persecutore ricopra una posizione superiore, può essere molto difficile per la vittima 
trovare canali formalmente adeguati per difendersi (Depolo, 2003). 
Walter definisce la vittima del mobbing come una persona che: 
1. mostra dei sintomi di malattia, si ammala, si assenta dal lavoro, si licenzia; 
2. è colpita da stress psichico o fenomeni psicosomatici, attraversa fasi di 
depressione o manie suicide; 
3. definisce il suo ruolo in termini di passività; 
4. da un lato è convinta di non avere colpa; 
5. dall’altro crede di sbagliare sempre tutto; 
6. mostra mancanza di fiducia in se, indecisione e un senso di disorientamento 
generale; 
7. rifiuta ogni responsabilità per la situazione o accusa distruttivamente se stessa; 
(Ege, 1996). 
 
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Per Ege il mobbizzato è la prima persona che si accorge del mobbing e, proprio 
attraverso il suo comportamento e le sue condizioni di salute, è possibile per gli altri 
accorgersi della presenza del mobbing. 
Secondo Ege il tratto tipico del mobbizzato è l’isolamento. Inoltre, il mobbizzato è una 
persona che si trova letteralmente con le spalle al muro, spesso senza sapere nemmeno 
perché. 
 
1.1.4. Gli spettatori 
Un altro ruolo è quello degli “spettatori” ovvero quelli che, pur non avendo 
apparentemente nessuna funzione, partecipano al mobbing. Essi sono, i colleghi, i 
superiori gli addetti alla gestione del personale che non sono coinvolti direttamente nel 
comportamento vessatorio, ma che ne sono partecipi in qualche modo perché possono 
influire sullo sviluppo del fenomeno. Il loro comportamento influisce sulla prosecuzione 
dei comportamenti vessatori, infatti, essi possono aiutare il mobber a distruggere la 
vittima. Alcune volte per la paura di diventare essi stessi prossime vittime non 
reagiscono e non prendono posizione contro i mobber (Menelao, Della Porta, 
Rindonone, 2001). 
Walter indica col termine co-mobber o mobber indiretti le persone che: 
1. sembrano non avere nulla a che fare col mobbing, però sono in contatto con i 
mobber (come i colleghi, capi o dipendenti diretti); 
2. si rifiutano di accettare qualsiasi responsabilit per il mobbing, però si vedono 
come mediatori tra i protagonisti del conflitto; 
3. dimostrano una grande fiducia in se stessi, esprimono le loro simpatie per una 
parte o per l’altra oppure non vogliono assolutamente avere a che fare con nessuna delle 
due; 
4. spesso sono le persone chiave del vero conflitto; (in Ege, 1996). 
 
Ege (1996) classifica gli spettatori del processo di mobbing in tre classi: 
¾ Side-mobber: partecipano attivamente al mobbing, sono alleati con il mobber e 
lo aiutano a distruggere la vittima; 
¾ gli indifferenti: favoriscono il mobbing in quanto non si oppongono al processo 
mobbizzante; 
¾ gli oppositori: non accettano il clima di conflitto creatosi, cercano di prendere le 
difese della vittima evitando che il processo vessatorio prosegua; (Menelao, Della Porta, 
Rindonone, 2001).