1
CAPITOLO 1 - CENNI STORICI
1.1 - Cenni sull’evoluzione storica del diritto d’autore:
dall’antichità alla legge 22 aprile 1941, n.633
Nell’antichità, quando il diritto esisteva solo nella sua
forma più embrionale e coincideva sostanzialmente col
“diritto di pochi”, quando delle grandi codificazioni non
vi era nemmeno traccia (se si eccettuano i codici sumerici
del 2400 a.C.), l’opera dell’ingegno, al pari di numerose
altre attività umane, non godeva di tutela alcuna.
I grandi poemi epici omerici, simbolo e fascino della
grecità arcaica, venivano liberamente trascritti e
modificati.
Anzi, proprio l’oralità della trasmissione dei contenuti
artistici costituisce una caratteristica peculiare di
quell’epoca
1
.
Nella medesima situazione versava la tradizione orale
musicale, da cui ereditiamo partiture estremamente diverse
rispetto alle originali, come nel caso dei madrigali
anonimi del XVI secolo o delle melodie per arpa celtica. Di
esse ci è dato di conoscere solo le interpretazioni ultime,
settecentesche, di O’Carolan, che le ha raccolte e proposte
come noi ora le conosciamo.
Nel quadro normativo della romanità, poi, si rintraccia una
actio iniuriarium aestimatoria, una primitiva forma di
tutela del diritto dell’autore all’inedito, rientrante
1
Fausto Codino, Introduzione a Omero, Einaudi, 1990
2
quindi nella categoria di quella che tutt’oggi definiamo la
sfera dei diritti morali sulle opere
2
.
Non bisogna tuttavia dimenticare che nell’antichità greco-
romana gli autori erano comunque tenuti in grande
considerazione e, nonostante l’assenza di specifiche
attribuzioni patrimoniali giuridiche in tal senso, essi
traevano comunque i mezzi di sostentamento dalla propria
attività direttamente dai committenti dell'opera, dai
principi o dalla città stessa che li ospitava e il plagio
veniva punito attraverso l’allontanamento del colpevole.
Il grande passaggio storico nella storia delle tecnologie
della comunicazione ha avuto luogo, dopo la scrittura, con
l'invenzione nel 1450, da parte di Gutenberg, della stampa
a caratteri mobili, la quale sortì enormi effetti sulla
cultura occidentale: la modernità coincide con l'era della
stampa.
La stampa, infatti, oltre ad aver impresso l’impulso
decisivo all’attività editoriale, ha aumentato notevolmente
la diffusione sociale dei testi (sebbene questo processo
non sia stato immediato, ma abbia anzi richiesto diversi
decenni, se non secoli).
Essa oltrepassò presto la ristretta cerchia degli
specialisti per raggiungere un pubblico di destinatari
sempre più vasto, collocato in fasce sociali nuove come la
nascente borghesia, lontano nello spazio e nel tempo e
soprattutto al di fuori del campo di esperienze
dell'autore.
2
Claudia Morando, Copyright e diritto d’autore. Evoluzione storica,
reperibile all’indirizzo: http://lombardia.beniculturali.it.
3
Se da una parte ciò determinò una diffusione del sapere
sconosciuta fino ad allora ed una progressiva
acculturazione dei ceti emergenti, dall'altra la stessa
diffusione retroagì sul modo di scrivere sia dal punto di
vista della lingua, con una forte spinta alla
normalizzazione linguistica ed ortografica, sia da quello
dei contenuti, attraverso la canonizzazione dei generi
letterari e lo sviluppo della letteratura popolare e
pedagogica.
Tale diffusione del sapere e delle informazioni venne
ulteriormente amplificata con la nascita, nel XVIII secolo,
dei primi giornali periodici di informazione.
Essi godettero subito di grande fortuna tra i nuovi ceti
emergenti, che in essi trovarono sia un formidabile veicolo
di idee, sia uno strumento di battaglia politica e
culturale. Fece così la sua comparsa il concetto di
“opinione pubblica”, inteso come un insieme delle idee e
delle propensioni di un pubblico colto, in possesso di
informazioni sufficienti per formulare giudizi sui fatti
politici e culturali
3
.
Naturalmente la nascita di un sistema di riproduzione di
così ampia portata implicò la necessità di una
regolamentazione giuridica dei diritti che potevano
risultarne compromessi.
Bisognerà però attendere sino alla tarda metà del secolo XV
perché i sovrani esordiscano con la concessione, a favore
di stampatori ed editori, di privilegi discrezionali
3
Lezioni “Educazione al multimediale”, n. 3, reperibile all’indirizzo:
http://www.mediamente.rai.it/mediamentetv/learning/ed_multimediale/lez
ioni.
4
consistenti nella facoltà di stampare opere nuove ed
antiche.
Pregiudiziale ai fini delle concessioni era l’imprimatur,
una sorta di censura mediante la quale i sovrani
mantenevano il monopolio decisionale circa i contenuti
della cultura e dell’informazione.
Questo tipo di controllo, che da sempre alletta le alte
sfere dominanti, ha incontrato, col tempo, un forte
ostacolo nella democrazia e nella libertà di espressione
4
che essa sancisce, che ha loro imposto di rinunciare a
detto controllo o di esercitarlo in maniera se non altro
meno plateale.
Nel corso del 1400 veneziano videro la luce le prime forme
di tutela specifica in materia, prima fra tutte il
riconoscimento, in capo all’autore, del diritto (nella
sopra citata forma del “privilegio”) di pubblicare l’opera,
in ragione della propria attività creativa.
Il XVIII secolo, poi, eclissò il sistema dei privilegi in
favore di un apparato normativo finalmente organico.
Seguirono l’esempio la Francia, con la legge rivoluzionaria
del 1791 che riconobbe la proprietà artistica, gli Stati
Uniti d’America, con una legge federale del 1790, la
Germania e l’Inghilterra.
La prima legge d’oltremanica sul copyright (letteralmente
“diritto di copia”) era stata una legge di censura: alla
“Corporazione Privata dei Censori”, costituita dagli
editori londinesi, era stato affidato il compito di
4
Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmato a Roma il 14 novembre 1950, tit. 1, art.
10.
5
rilasciare agli autori concessioni per la stampa delle loro
opere, sempre che queste risultassero prive di requisiti
che potessero in qualche modo renderle sgradite al governo,
di cui essi erano i fedeli ed ampiamente retribuiti
portavoce.
I nuovi testi venivano immessi sul mercato a nome
dell’editore che si fosse occupato personalmente della
stampa, il quale, conseguentemente, ne manteneva il
copyright.
Quando tale regime monopolistico accennò al declino, la
corporazione, per tentare di mantenere ancora un certo
controllo, asserì che gli autori, ai quali pur potevano
essere riconosciuti ampi diritti, avrebbero comunque sempre
necessitato del loro intervento pratico per eseguire la
stampa. Forti di tale consapevolezza si imposero affinchè
il diritto “naturale” di proprietà sull’opera, spettante
all’autore, potesse essere loro trasmesso, come d’altra
parte era già possibile per qualunque altra forma di
proprietà.
Appare chiaro quindi come, per lo meno in relazione alle
opere letterarie, il diritto d’autore, già ai suoi albori,
nacque su richiesta e pressione dei distributori
5
non tanto
per ripagare il creatore dell’opera per lo sforzo
intellettuale, ma per tentare di far sopravvivere una forma
indiretta del loro antico monopolio.
5
Karl Fogel, Piracy, a little intellectual property history, in: Peter
Drahos e John Braithwaite, Information feudalism: who owns the
knowledge economy?, Earthscan, july 2002.
6
Questa considerazione fu alla base della produzione dello
statuto della regina Anna del 1710, definibile come la
prima normativa sul copyright moderno.
In Italia la prima regolamentazione legislativa specifica
in materia trovò spazio durante il governo rivoluzionario
piemontese nel 1799, a cui fece seguito la legge della
Repubblica Cisalpina del 1801.
Il primo approccio di tipo organico, invece, risale alla
legge speciale del Regno d’Italia n. 2337 del 1865
(inserita nel T.U. 19 settembre 1881 n. 1012, in vigore
fino al 1926), che sanciva in capo all’autore il diritto
esclusivo di sfruttare economicamente l’opera, pur non
facendo alcuna menzione dei diritti morali spettanti allo
stesso. Ma la vera evoluzione legislativa della tutela di
tale diritto si ebbe con il Regio D.L. 1950/1925, che
apportò alla disciplina tre grandi novità: il
riconoscimento non solo dei diritti patrimoniali, ma anche
di quelli morali, il prolungamento del termine di durata
dei diritti d’autore (da quaranta a cinquant’anni: i
settant’anni saranno previsti successivamente dalla L.
52/1996) e l’eliminazione di ogni formalità amministrativa
che potesse recare problemi alla protezione del diritto
dell’autore sull'opera
6
(la norma precedente prevedeva un
obbligo di deposito di tre copie dell’opera presso il
Prefetto della Provincia, unitamente ad una dichiarazione
di volersi avvalere dei diritti d’autore, entrambi da
6
Cenni storici, articolo reperibile all’indirizzo:
http://infouma.di.unipi.it/corsi/simi/2004/progetti/bonin/storia.html
- 7k - 14/07/2005.
7
effettuarsi entro dieci anni, decorsi i quali, ogni diritto
dell’autore si intendeva abbandonato e perso).
Successivamente, l'evoluzione tecnologica raggiunse
frontiere tali da rendere ormai obsoleta la legge del 1925
e, quasi contemporaneamente alla riforma del codice civile,
che accolse alcune disposizioni fondamentali sui diritti
relativi alle opere dell’ingegno (artt. 2575-2583), fu
emanata la legge n. 633 del 1941, cui rimanda lo stesso
codice civile per disposizioni più precise, che apportò
numerose innovazioni rispetto al decreto del 1925 e che
ancor oggi costituisce il punto di riferimento della
disciplina italiana del diritto d’autore.
Innanzi tutto acclamò il principio secondo cui “il diritto
d'autore si acquisisce con la creazione dell'opera”, poi
fornì una lista dettagliata delle varie categorie di opere
soggette a tale diritto, ampliò la trattazione ai diritti
connessi e disciplinò, in un distinto Titolo, la tutela del
diritto d'autore in occasione di eventi pubblici.
Fissò infine i requisiti necessari per garantire la tutela
dell’opera, quali ad esempio il “carattere creativo” della
stessa.
1.2 - L’evoluzione dei criteri individuanti l’opera d’arte
alla luce delle innovazioni tecnologiche
L’impetuoso dilagare del processo d’industrializzazione
delle espressioni culturali, che ha coinvolto ciascun
frammento dell’esistenza dell’opera d’arte, a partire dalla
sua stessa realizzazione (tecnologia digitale) fino alla
8
sua riproduzione (downloading e file sharing) e diffusione
(UMTS, satelliti, Internet e la multimedialità), ha
lentamente scardinato e snaturato l’elemento
caratterizzante l’opera d’arte tradizionalmente intesa: la
sua unicità e irriproducibilità.
Già il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940),
particolarmente sensibile a questo tema, nel saggio
intitolato «L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica»
7
, accusava le distorsioni del
concetto di “opera d’arte” insite nella società di massa.
In tale pubblicazione, nota in Italia attraverso
un’antologia curata da Renato Solmi
8
, egli affrontò
criticamente, tra l’altro, la tematica della crisi del
concetto stesso di “originale” e di “copia” ad opera
dell’avvento della tecnologia riproduttiva e del suo
carattere di massa.
Benjamin non si scaglia contro la riproducibilità intesa
come possibilità, per gli uomini, di rifare, ripetere, ciò
che altri hanno fatto: è il caso, ad esempio, delle lecite
copie ed imitazioni esercitative degli allievi dei Maestri
di Bottega del passato.
E’ la riproduzione tecnica l’oggetto dell’aspra critica
dell’autore: a partire dai metodi di fusione, conio,
silografia, mediante i quali già gli antichi greci erano in
grado di riprodurre la grafica; attraverso l’acquaforte e
la puntasecca medievali, sino a giungere alla litografia,
7
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
8
Antologia Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962.
9
alla stampa (che rese riproducibile anche la scrittura),
alla fotografia, alla fonografia e al cinema ottocenteschi.
Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata,
insiste il filosofo, viene comunque inevitabilmente a
mancare un elemento essenziale: l’hic et nunc dell’opera
d’arte
9
, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in
cui si trova, cioè la percezione contestualizzata
dell’opera nell’epoca in cui essa veniva originariamente
riconosciuta, ciò che costituisce la sua “autenticità”, che
egli definisce come l’“aura”
10
di cui l’opera d’arte è e
deve essere permeata.
E’ quindi l’intero ambito dell’autenticità a sottrarsi, per
sua natura, secondo questa visione, alla riproducibilità.
Non è tuttavia da tralasciare che Benjamin era un filosofo
e che pertanto la nozione di “aura” è agevolmente
attribuibile all’ambito delle riflessioni speculative
tipiche e caratterizzanti quel ramo del pensiero umano.
Tuttavia, se si abbandona per un attimo il porto dello
stretto diritto positivo per approdare in quello della viva
percezione dell’arte, refrattaria alle regole ed alle
etichettature, viene quasi spontaneo sperimentare su se
stessi la veridicità di quanto Benjamin afferma.
La perdita dell’“aura”, infatti, coincide con la
mutilazione dell’opera di un proprio quid percepibile ad un
livello più che altro psicologico, sensazionale ed
emozionale, e ciò indipendentemente dal fatto che tale
9
Walter Benjamin, op.cit., pag. 22.
10
Walter Benjamin, op.cit., pag. 23.
10
depauperamento nulla rilevi ai fini della tutelabilità
giuridica delle opere dell’ingegno.
La riflessione di Benjamin verte appunto sulla
percepibilità dell’opera d’arte e nulla ha a che vedere con
l’analisi giuridica della questione.
Le norme di diritto positivo che disciplinano la proprietà
intellettuale, per ovvie ragioni di ordine pratico, non si
occupano infatti della tutela dell’“arte” nel suo
significato più intrinseco, ma delle tutela prevalentemente
patrimoniale delle espressioni ed estrinsecazioni di idee
originali di contenuto creativo.
Benjamin afferma che l’opera d’arte riprodotta diviene in
misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte
predisposta alla riproducibilità e a questo proposito si
può affermare che esistono tipi di creazioni dell’ingegno
effettivamente più inclini, per loro natura, ad essere
riprodotte.
Di una pellicola fotografica, per esempio, è possibile
tutta una seria di stampe: la questione della stampa
autentica non ha senso ai fini della tutela e ad essa si
sostituisce la questione dell’attribuibilità della
pellicola originale ad un autore particolare.
Nel caso, ancora, delle opere cinematografiche, la loro
riproducibilità tecnica non costituisce una condizione
esterna della loro diffusione tra le masse, ma è essa
stessa una caratteristica insita nella tecnica della loro
produzione
11
: questa non soltanto ne permette
immediatamente e naturalmente la diffusione, ma in un certo
11
Aldous Huxley, Croisière d’hiver en Amérique Centrale, Paris, 1951,
pg. 273 e ss.
11
senso la impone, data la necessità di ammortizzare le
ingenti spese produttive.
Ed anche in questi casi, in cui la riproduzione è
caratteristica quasi connaturata ad un genere artistico, è
innegabile che, ad esempio, la famosa fotografia scattata
“sul posto” abbia un valore, anche economico, assolutamente
non paragonabile a quello della medesima immagine
riprodotta su una rivista specializzata.
Le opere letterarie o le composizioni musicali poi,
costituiscono un paradigma ancora più chiaro ed immediato
di tale realtà.
E’ vero che esse, anche se riprodotte in milioni di copie,
non perdono nulla della propria bellezza ed originalità,
tanto è vero che il fruitore trae il medesimo diletto dalla
lettura di una ristampa del Decameron del 2003 o
dall’ascolto su cd del Requiem di Mozart, ma non si può
tacere il dato lampante dell’incolmabile differenza tra una
copia ed un romanzo originale manoscritto, da cui si
evincano bozze, correzioni o la stessa grafia dell’autore,
probabilmente indicativa della sua personalità e delle sue
inclinazioni, oppure tra una riproduzione ed un’esecuzione
di una sonata dal vivo, da cui si possono cogliere
l’espressione e la gestualità dell’autore (o esecutore)
che, in base al proprio stato d’animo, mai eseguirà un
brano in maniera identica alla precedente.
Se ciò non fosse vero, nel comune sentire un manoscritto
originale di una nota opera di inizio secolo avrebbe lo
stesso valore di una sua copia acquistabile presso
qualunque libreria o, ancora, la generalità dei “jazzofili”
riterrebbe assolutamente equivalente assistere dal vivo
12
alle performance di Ahmad Jamal ed ascoltarle in automobile
su un lettore cd o, ancora, non avrebbe nemmeno ragione di
esistere la questione, ad esempio in riferimento all’arte
pittorica, dell’originale e delle successive copie
autentiche: pur realizzate tutte dal medesimo autore, la
prima sarà sempre inevitabilmente permeata di un quid
estraneo alle successive, poiché essa rappresenta
l’estrinsecazione della passione di un momento, il primo
momento, unico e irripetibile. Le altre sono solo copie –
verrebbe da dichiarare -.
Tutte queste sono sfumature assolutamente occultate dal
dato della riproducibilità, ma il cui appiattimento,
comprensibilmente, ripeto, non è tenuto in alcuna
considerazione dalla disciplina del diritto d’autore, la
cui funzione non è quella di tutelare un’originaria
espressione d’“arte”, unica ed irripetibile, ma qualunque
prodotto intellettuale, anche se incorporato in
innumerevoli copie: anzi, proprio la gestione economica
delle riproduzioni e la loro commercializzazione
costituisce uno dei principali oggetti della tutela sancita
dalla normativa sul copyright.
Con la riproduzione tecnica cade il concetto di “unicità”
inteso come “irripetibilità” e ad esso si sostituisce
quello di “unicità” inteso come “autenticità”, ossia come
attribuibilità ad un unico autore.
In questa circostanza il prodotto viene defraudato, se non
della propria originalità e del proprio pregio creativo,
quantomeno dell’impossibilità di essere riprodotto ed in
ciò, e solo in questo senso, assolutamente non giuridico,
perde l’“aura” che permea l’opera unica.