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lo scambio comunicativo fra i dipendenti e quindi nel rafforzarne il grado di identificazione e
presentandone un esempio pratico di realizzazione (nel gruppo Pirelli).
L’Employer Branding esterno è, invece, il focus del capitolo 4, in cui verranno presentati, da
un lato, alcuni strumenti di indagine e di raccolta di informazioni utili per comprendere quale
sia l’immagine percepita dell’azienda sul mercato del lavoro, dall’altro, una serie di strumenti
operativi per creare o rafforzarne il brand.
Sempre in tema di Employer Branding esterno, nel capitolo 5 si tratterà di un modo nuovo di
fare recruitment, presentandone, attraverso un’indagine condotta tra le grandi imprese che già
si sono tecnologicamente adeguate, i vantaggi e gli svantaggi in termini di costi, tempi di
realizzazione e funzionalità: il web-recruitment (o e-cruitment)
Infine, riprendendo il discorso aperto nel capitolo 3, nell’ultimo capitolo verrà presentato il
gruppo Pirelli in tutte le sue attività produttive. L’attenzione verrà rivolta, in particolare, alle
politiche adottate nella gestione delle risorse umane e agli orientamenti strategici (e
tecnologici) seguiti negli ultimi tempi nella realizzazione di un branding più forte sul mercato
interno ed esterno del lavoro.
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Capitolo 1
Il mercato interno ed esterno del lavoro:
verso un’analisi integrata
1.1 Introduzione
I mercati interni del lavoro sono divenuti un argomento di grande momento negli anni ’70 e
’80. L’interesse è giunto da diverse parti: dagli economisti istituzionalisti coinvolti nel
dibattito della segmentazione del mercato del lavoro (Doeringer e Piore, 1971; Osterman,
1984), dai neo-istituzionalisti della tradizione neoclassica e da alcuni Marxisti interessati alla
teoria dei costi di transazione (Williamson, 1975; Bowles, 1985), dai sociologi e dagli
economisti impegnati nell’analisi dei processi organizzazitivi del lavoro (Friedman, 1978;
Burawoy, 1979).
All’espressione "mercato interno del lavoro" si possono attribuire diversi significati. Il più
stringente collega i mercati interni del lavoro ad una specifica forma organizzativa,
caratterizzata da scale di mobilità interna con accesso limitato, offerta ai dipendenti di
prospettive di sicurezza delle posizioni occupate e retribuzioni mediamente più elevate di
quelle che si possono trovare sul mercato esterno. Una definizione più debole, associata ai
modelli "insider-outsider", si riferisce, invece, a sistemi occupazionali che tendono
semplicemente a proteggere i dipendenti dalle condizioni del mercato esterno del lavoro e a
fornire loro condizioni d'impiego migliori. Fatte valide queste assunzioni, a livello empirico
l’esistenza o meno dei mercati interni del lavoro sarebbe perciò misurabile in termini di livelli
retributivi, tipi e frequenza di promozioni, grado di sicurezza del posto di lavoro e sensibilità
della retribuzione a fattori interni ed esterni (Blanchflower and Oswald, 1988).
In tutta questa letteratura spesso si sostiene che le imprese possono essere classificate lungo
uno spettro relativo al grado d'internalizzazione dei sistemi occupazionali, ma più
frequentemente si è proceduto a dividere il mondo aziendale tra organizzazioni che operano
con un sistema interno di formazione della forza-lavoro e organizzazioni che utilizzano
strategie di gestione delle risorse umane condizionate da fattori di mercato esterni. Questa
dicotomia è un punto saldo nella letteratura del mercato duale del lavoro (Atkinson, 1985),
così come nelle teorie neo-istituzionaliste, dove si distingue tra imprese che usano alte
retribuzioni per ridurre il turnover dei dipendenti e imprese che invece basano la retribuzione
sulla base dei salari-opportunità esterni.
Lo spostamento dall’approccio market-oriented che ha dominato il dibattito teorico negli anni
’60, ponendo enfasi sulle teorie del capitale umano, a un approccio focalizzato sull’impresa
(anni ’70 e ’80) ha rappresentato un incredibile passo avanti negli studi del mercato del
lavoro, ma ugualmente non ha fornito un corretto quadro d'analisi della questione. Ancora
sussistono problemi di teorizzazione delle imprese e delle loro norme e procedure
organizzative e, allo stesso tempo, le interconnessioni tra imprese e ambiente in cui si
muovono sembrano ampiamente trascurate. Nella letteratura più recente s'individuano almeno
tre principali categorie di problemi.
La prima è la propensione nelle indagini economiche ad assumere coerenza tra i sistemi
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occupazionali delle imprese e i loro effettivi fabbisogni. L’attenzione si focalizza, in altre
parole, su come le imprese si muovono per rendere compatibili le politiche nella sfera delle
assunzioni, i bisogni produttivi e i loro vincoli finanziari, e non sulle continue tensioni esitenti
tra queste diverse dimensioni dell’organizzazione. Per chiarire questo aspetto, basti pensare
che le diversità nelle politiche occupazionali non riflettono solamente differenze nelle skill
richieste ma, in realtà, sono ampiamente determinate anche da differenze nei vincoli finanziari
delle imprese o dalle stesse azioni delle forze sindacali (Rubery, 1988).
Il secondo limite dell’approccio firm-oriented sta nel trascurare l’influenza delle condizioni
esterne di mercato sulle politiche interne dell’impresa. Una prima evidenza in questo senso è
stata messa in luce dai dibattiti negli anni ’80 sulla flessibilità del lavoro, quando gli
spostamenti delle imprese verso una strategia centro-periferia furono interpretati come una
necessità interna di maggiore flessibilità funzionale e numerica (Atkinson, 1985): studi
successivi sul mercato del lavoro hanno, invece, suggerito che tali spostamenti di strategia
erano più propriamente interpretabili come una risposta delle imprese al cambiamento delle
condizioni esterne del mercato stesso.
Il terzo limite consiste nel trascurare l’effetto cumulativo ed aggregato delle politiche delle
imprese sull’organizzazione dei mercati del lavoro. Negli anni si è teso a limitare l’analisi del
ruolo delle istituzioni nello strutturare i mercati del lavoro alle operazioni specifiche interne,
mentre l’impatto di questi sistemi a livello aggregato non è mai stato realmente indagato.
Queste critiche alle indagini sui mercati interni del lavoro spingono a suggerire sviluppi degli
studi economici lungo tre direttrici: a) un approccio più sofisticato ai fattori che condizionano
le politiche occupazionali, che tenga conto dei conflitti e delle tensioni che scaturiscono nella
formulazione delle politiche aziendali in fatto di lavoro; b) una maggiore integrazione dei
fattori interni ed esterni che influiscono sulle politiche aziendali a livello micro-economico; e
infine, c) lo sviluppo di un’analisi integrata a livello micro e macro dell’organizzazione dei
mercati del lavoro.
1.2 I mercati interno ed esterno del lavoro: un quadro
analitico
Un’analisi coerente e consistente di come si strutturano i mercati del lavoro richiede,
innanzitutto, considerazioni sugli incentivi a ‘internalizzare la forza-lavoro’; in secondo
luogo, un’indagine sui vincoli legislativi alle politiche aziendali in fatto di strategie
occupazionali; infine, un’analisi delle interrelazioni tra politiche aziendali e ambiente esterno.
1.2.1 Incentivi delle imprese a "internalizzare" il lavoro
L’esistenza di una serie di differenti spiegazioni ai mercati interni del lavoro ha posto
attenzione sul fatto che, in contrasto con le prime teorie mono-fattoriali, gli incentivi e le
pressioni delle imprese a ‘internalizzare la forza-lavoro’ sono, in realtà, multi-dimensionali.
Questi incentivi possono essere divisi in tre categorie: quelli associati, a livello
microeconomico, al lavoro come fattore della produzione; quelli riconducibili al sistema
competitivo; quelli legati al sistema produttivo. Le considerazioni su ciascuna di queste
questioni rivelano una serie di ragioni per cui, ceteris paribus, la maggior parte delle imprese
dovrebbe verosimilmente continuare a impiegare la forza-lavoro in uso, e cioè a internalizzare
i propri fabbisogni di capitale umano anziché rivolgersi all’esterno.
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1.2.2 Il lavoro come fattore produttivo
La necessità di ottenere ritorni tangibili dagli investimenti in formazione e sviluppo è stata da
sempre considerata il principale fattore d’internalizzazione del lavoro, giustificando la scelta
spesso onerosa di fornire maggiori garanzie ai dipendenti con skills fondamentali per l’attività
svolta dall’azienda (Oi, 1962; Becker, 1964).
L’imperativo d'internalizzare è stato, invece, più di recente legato alla necessità di controllare
e gestire la motivazione, le informazioni e le conoscenze possedute dai lavoratori. I neo-
istituzionalisti à la Williamson (1975) hanno rilevato l'interesse delle organizzazioni non solo
a trattenere le skills al loro interno ma anche ad assicurare che la conoscenza e tali skills siano
propriamente utilizzate nel loro interesse. I percorsi di carriera e l’opportunità di alti guadagni
sono considerati efficaci strumenti-tampone per i comportamenti opportunistici dei lavoratori,
latori di "conoscenza idiosincratica".
I problemi della motivazione sono stati tuttavia estesi anche ai lavoratori dotati di skills non
fondamentali per l’impresa ma che forniscono all’azienda almeno un certo livello di
commitment (vd. le teorie neoclassiche e Marxiste). Le imprese affrontano diversi costi nel
tentativo di assicurare che gli accordi contratti col dipendente vengano rispettati, sia
verificando l’impegno prestato sia assumendo e licenziando.
I sistemi di controllo casuali e periodici, che spesso le aziende pongono in essere, funzionano
solamente se i dipendenti si trovano nella situazione in cui subirebbero gravi danni se scovati
ad operare in modo opportunistico o negligente nei confronti dell’azienda: in altre parole, se
l’azienda offre retribuzioni, condizioni lavorative e percorsi di carriera che è impossibile
trovare all’esterno.
Il dibattito sulla gestione delle risorse umane ha riguardato in modo diretto gli strumenti di
controllo e motivazione dei dipendenti ma l’attenzione si è posta in modo particolare su come
aumentare il potenziale produttivo della forza-lavoro, una volta assicurato attraverso
appropriate tecniche di management il commitment agli obiettivi aziendali.
Rimane, altresì, questione di dibattito aperta il fatto che lealtà ed impegno siano fattori
controllabili attraverso gli stili di management. I problemi emergono almeno a due livelli:
molti dubbi rimangono, infatti, sulla forza che i cambiamenti manageriali abbiano nel
condizionare il comportamento e le attitudini dei dipendenti, e sul fatto che i cambiamenti
stessi della politica di management siano, in qualche modo, da essi percepibili.
Nell’analisi del ruolo del lavoro come fattore produttivo va considerata un’ultima questione: il
lavoro è l’unico fattore che si auto-riproduce. Questo fatto dà modo: a) alle imprese, di poter
"sfruttare" la forza-lavoro, nel senso di non retribuire il lavoro svolto in base agli sforzi
sostenuti e al livello di skill apportate; b) ai lavoratori, di coalizzarsi per migliorare le
condizioni contrattuali sotto le quali sono impiegati. La nozione di mercato del lavoro interno
si è sviluppata sull’assunto che, in assenza di uno specifico sistema che fornisca un
trattamento preferenziale, in termini di retribuzioni e avanzamenti di carriera, ai lavoratori già
occupati le imprese si troverebbero ad affrontare un’offerta di lavoro relativamente instabile e
ingestibile.
Il limite di questo approccio è che esso sovrastima sia il potere dei singoli lavoratori sul
mercato esterno del lavoro, sia la loro disponibilità a cambiare occupazione; se il lavoro
scarseggiasse e i lavoratori avessero la tendenza, ceteris paribus, a mantenere il posto che
attualmente occupano, allora le imprese sarebbero in grado di ottenere stbilità nella forza-
lavoro con una politica retributiva non propriamente favorevole ai dipendenti e con sistemi
occupazionali informali. Il problema della negligenza del dipendente, in questo caso, sarebbe
contrastato semplicemente dall’assenza d'alternative valide per chi lavora.
Il quadro appena delineato suggerisce una lunga serie d'ipotesi, correlate alle caratteristiche
del lavoro come fattore produttivo, secondo le quali le imprese dovrebbero desiderare un
mercato interno del lavoro: ottenere ritorni dagli investimenti in formazione, assicurare un
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certo livello di impegno, motivare la forza lavoro, aumentare la produttività per migliorare le
perfomances dell’organizzazione, andare incontro alle esigenze dei lavoratori e ridurre la
probabilità di sviluppo di forti ingerenze sindacali. Questa serie di motivazioni, confrontata
con le teorie mono-fattoriali della precedente letteratura sull’argomento, suggerisce che gli
incentivi a internalizzare il mercato del lavoro sono generalizzabili e comunemente avvertiti,
piuttosto che specifici di determinate tipologie di impresa.
Ad ogni modo, uno dei meriti della letteratura sulla segmentazione dei mercati è stato quello
di identificare una varietà di sistemi produttivi e competitivi, in contrasto con l’approccio
"black box" dell’organizzazione industriale e con l’assunzione stessa che le strategie
competitive possano essere adeguatamente spiegate attraverso la minimizzazione dei costi. Le
relazioni tra incentivi ad internalizzare il lavoro e le caratteristiche della produzione e dei
sistemi competitivi in cui le imprese si muovono va dunque analizzata più a fondo.
1.2.3 Le condizioni competitive
La letteratura sul mercato duale del lavoro ha evidenziato il bisogno di condizioni di mercato
stabili, associate a sistemi di produzione di massa, come requisito necessario per realizzare un
mercato del lavoro interno (Berger and Piore, 1980). Gli studi successivi hanno posto
l'accento sull’importanza che assumono le risorse umane nella strategia competitiva di
un’impresa in condizioni di mercato comunemente denominate post-Fordiste, dal momento
che le imprese richiedono capitale umano con competenze sempre più specifiche per
sviluppare prodotti e processi innovativi e confidano nel commitment di tutti i dipendenti per
assicurare sul mercato elevati standard qualitativi (Best, 1990; Hirst e Zeitlin, 1989).
Riconoscere il ruolo delle risorse umane nel determinare il vantaggio competitivo specifico di
un'impresa (o la sua posizione di nicchia) rivela l’inadeguatezza dell’approccio duale fino ad
ora delineato.
L’avanzamento di una visione sistemica dei processi competitivi, dove le imprese non
competono semplicemente sul prezzo, ha spalancato lo spettro delle tipologie di imprese che
possono competere in modo efficace ed efficiente sui medesimi segmenti di mercato (Rubery
et alii, 1987). In contrasto con la teoria duale, non è più possibile dividere l’universo
aziendale tra le imprese che devono e quelle che non devono internalizzare il lavoro in nome
della competizione. Piuttosto, risulta verosimile che, ceteris paribus, molte imprese trovino
più vantaggioso internalizzare i sistemi occupazionali anziché ricorre di continuo al mercato,
tolta naturalmente la possibilità, che a volte si dà, di traslare all’esterno gli oneri derivanti da
certi ingenti investimenti in formazione del personale.
1.2.4 Le condizioni produttive
Riassumendo quanto detto finora, i vantaggi derivanti da una forza di lavoro stabile sembrano
essere tanto più grandi quanto più la formazione da fornire ai dipendenti è specifica
dell’impresa interessata, quanto più è grande la varietà dei compiti da imparare, quanto più è
cumulativa la conoscenza dei compiti e dei processi, quanto più sono importanti fattori come
la qualità, l’affidabilità e l’innovazione nei processi produttivi rispetto alla minimizzazione
dei costi, quanto più è grande l’impatto delle relazioni personali all’interno dell’impresa sul
grado del successo competitivo, e infine quanto più sono consistenti i costi di monitoraggio
della performance e dell’impegno sul lavoro.
Le imprese si differenziano molto nelle strategie di internalizzazione attuate per accrescere
l’impegno o le skills dei dipendenti, tuttavia lo spettro delle condizioni che forniscono loro
sicurezza e fiducia suggerisce che tali differenze sono tutte orientate verso una convergenza
piuttosto che una divergenza implementativa.
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Avere stabilito un comune bisogno di forza-lavoro stabile non implica necessariamente che
tutte le imprese siano capaci di perseguire questa condizione o, comunque, di riuscire ad
ottenerla attraverso la politica tradizionale delle alte retribuzioni e delle promozioni frequenti.
In realtà, a fronte di fabbisogni simili esistono grandissime differenze nelle politiche
occupazionali delle imprese. La spiegazione della notevole divergenza tra politiche e
fabbisogni richiede innanzitutto un’analisi dei vincoli che gravano sulle imprese
nell’implementazione dei loro programmi, e, in secondo luogo, considerazioni su come le
imprese possano sviluppare politiche assai diverse per soddisfare bisogni similari.
1.3 I vincoli sulle politiche occupazionali delle imprese
I problemi che le imprese affrontano nello sviluppare politiche occupazionali vanno
raggruppati in due categorie: quella dei vincoli finanziari e quella dei vincoli organizzativi.
1.3.1 Condizioni finanziarie
Le politiche occupazionali delle imprese variano nella misura in cui devono generare profitti
di breve o di lungo termine. Se per l'azienda la condizione necessaria per rimanere in vita è
massimizzare i profitti di breve, allora preoccupazioni come la perdita di skills dovuta ad alti
tassi di turnover avranno relativamente poco peso nelle politiche aziendali. I vincoli finanziari
condizionano sia la capacità dell'impresa di pagare alti salari, sia la capacità di fornire
garanzie sulla sicurezza del posto di lavoro. L'abilità manageriale di sviluppare politiche
occupazionali coerenti dipende quindi dalla posizione finanziaria dell'impresa nel breve e nel
lungo periodo (Hakim, 1990).
1.3.2 Fattori organizzativi
I vincoli allo sviluppo di sistemi di mercato interni del lavoro sorgono sia dalle caratteristiche
strutturali delle organizzazioni, sia dalle politiche e dalle strategie perseguite all'interno delle
organizzazioni stesse. In parole semplici, la dimensione dell'organizzazione determina la
possibilità di fornire avanzamenti di carriera.
Le piccole imprese affrontano quindi grandi difficoltà ad internalizzare il lavoro attraverso
l'offerta di opportunità di carriera, qualunque sia il loro bisogno specifico in termini di skill
richieste. La dimensione efficace di un'organizzazione non è comunque indipendente dalla
strategia manageriale implementata. Le imprese che operano con un sistema di controllo
gestionale decentrato di norma sono in grado di fornire maggiori opportunità di carriera
rispetto a chi utilizza politiche centralizzate. La scelta di centralizzare o meno
l'organizzazione non sembra, comunque, condizionata in modo preponderante dalle scelte di
gestione delle risorse umane (Marchington e Parker, 1990), cosicché il sistema organizzativo
interno sembra agire come un vero e proprio vincolo sulle politiche occupazionali delle
imprese.
Le caratteristiche dei diversi stili di management sembrano conre anche la capacità delle
imprese di sviluppare rapporti lavorativi di lunga durata. La procrastinazione di politiche
sostanzialmente opportunistiche riduce inevitabilmente il commitment dei dipendenti e la loro
percezione di occupare una posizione stabile all'interno dell'organizzazione.
D'altra parte, per una organizzazione la scelta di sostituire un sistema occupazionale con un
altro comporta di norma costi spropositati e spiega la prevalenza di comportamenti
opportunistici. Espansioni o contrazioni improvvise della domanda possono avere, infatti,
effetti notevoli sulla scelta di ricorrere all'uno o all'altro mercato del lavoro: una contrazione
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può, ad esempio, condurre un'impresa che ha una politica occupazionale stabile ma non dotata
di promozioni interne a coprire i propri fabbisogni con dipendenti già in organico.
Queste considerazioni suggeriscono che le scelte delle imprese in fatto di politiche
occupazionali non possono essere prese come indicatori assoluti dello stile di management
che si attuerebbe nello stato d'equilibrio. Sarebbe, quindi, più appropriato considerare i
mercati del lavoro interno come "risposte organizzative adattive ad un ambiente in continuo
mutamento" (Bills, 1987).
Il tentativo di classificare le imprese potrebbe quindi essere considerato, di primo acchito,
un'operazione troppo statica e deterministica. Ciononostante, si osserva che proprio le imprese
maggiormente burocratizzate, e in particolare quelle con sistemi altamente articolati di regole
e procedure organizzative, sono quelle che mantengono verosimilmente un sistema di mercato
occupazionale interno, limitando quindi l'opportunismo da parte dell'impresa stessa.
Risulta, perciò, difficile categorizzare le imprese sul fronte delle politiche occupazionali e
comprendere quanto gli stessi sistemi adottati all'interno delle organizzazioni vincolino le
strutture nelle proprie scelte. I rapidi cambiamenti nelle politiche occupazionali sono costosi e
spesso controproducenti, col fatto che solo le politiche aziendali attive da diverso tempo
vengono percepite come reali ed effettive; d'altra parte, è anche vero che le imprese sono
tenute a rispondere in modo pragmatico agli imprevisti, come, ad esempio, un'espansione o
una contrazione della domanda di lavoro. In più, le imprese devono saper reagire alle
condizioni che si presentano nell'ambiente esterno, ivi incluso il mercato del lavoro.
1.4 Le organizzazioni, le politiche occupazionali e il
mercato del lavoro esterno
Il mercato esterno del lavoro può influenzare la misura in cui le imprese necessitano
d'internalizzare i propri sistemi occupazionali e il tipo di strategia che permetterà loro di
ottenere i propri obiettivi. Il primo condizionamento sul mercato interno deriva dalle tipologie
di sistemi di formazione in uso. Se esistono istituzioni a livello nazionale, locale o settoriale
in grado di fornire gruppi di lavoratori mediamente competenti, allora le imprese potrebbero
preferire assumere individui già formati piuttosto che formarli a proprie spese. D'altra parte, è
anche vero che le imprese possono optare per i tradizionali investimenti in formazione se
sentono l'esigenza di fornire ai propri dipendenti competenze specifiche e necessarie allo
svolgimento del proprio business (Marsden, 1986; Osterman, 1984).
Le condizioni del mercato del lavoro sono quindi importanti nel determinare quanto le
imprese debbano fornire in termini di formazione interna, decisione comunque influenzata
non solo dalla tecnologia ma anche dalla politica manageriale e dalle istituzioni operanti sul
mercato del lavoro.
Scegliere tra mercato interno e mercato esterno sarà anche una decisione determinata anche
dalle politiche occupazionali delle altre imprese presenti sul mercato.
La mobilità dei lavoratori potrebbe scomparire del tutto solo nel caso in cui tutte le imprese
concordassero fra loro di non rubarsi i dipendenti: dove, infatti, prevale un mercato del lavoro
esterno, il modo più semplice per fare carriera è spostarsi verso imprese che offrano
condizioni economiche migliori. Il principale vincolo alla mobilità è rappresentato soltanto
dal grado di specificità delle skills possedute dai lavoratori, cioè da quanto sono specifiche di
una determinata impresa piuttosto che liberamente trasferibili (Dunlop, 1957).
Anche la misura in cui le imprese si trovano a dover internalizzare i costi di una recessione o
di una variazione nella domanda dipende dalle condizioni del mercato esterno del lavoro. Se,
per via delle scarse opportunità d'impiego, la probabilità di perdere dipendenti si rivela bassa,
allora risulterà davvero improbabile che l'impresa sia disposta ad offrire condizioni di lavoro
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migliori, persino a quei dipendenti che possiedono skills importanti ai fini del business
aziendale. D’altra parte, la convivenza sul mercato di gruppi privilegiati e svantaggiati,
fenomeno conosciuto nel mondo del lavoro col nome di "segmentazione dell'offerta", pone le
imprese di fronte a vincoli assai diversi nel determinare le proprie strategie occupazionali. In
questo caso, se la stabilità della forza-lavoro è un obiettivo desiderabile, allora lo sforzo
minimo richiesto all'impresa è di fornire condizioni di impiego migliori (anche di poco) o più
stabili di quelle ottenibili sul mercato esterno del lavoro.
Le diversità fra gruppi in termini di salari-opportunità forniscono persino alle imprese con
basse politiche retributive la possibilità di internalizzare la propria forza-lavoro. L'esistenza
nel mercato del lavoro di gruppi penalizzati è, comunque, la conseguenza di più importanti
fattori sociali, che portano certamente discriminazioni all'interno del mercato del lavoro ma
che si estendono all'intero sistema sociale. Ad ogni modo, lo svantaggio risulta rafforzato
dalle politiche stesse dei datori di lavoro. Tutte le strategie delle imprese in ambito di
assunzione, formazione e sviluppo implicano selezione e discriminazione. Ogni singola
impresa è in grado di usufruire dell'effetto cumulativo delle azioni imprenditoriali sul mercato
del lavoro, e quindi anche di utilizzare i gruppi penalizzati per fornire stabilità e impegno
anche alle organizzazioni che mancano dei requisiti economici e istituzionali per costruire un
sistema occupazionale interno, fatto di alti salari e di buone prospettive di carriera.
Quest'analisi suggerisce che la segmentazione del mercato del lavoro può essere, per le
imprese, un modo di evitare i temuti problemi di divergenza tra le condizioni produttive - in
termini di forza lavoro seria e qualificata - e le condizioni organizzative e finanziarie interne.
Inoltre, essa suggerisce che l'esistenza o meno di sistemi di mercato occupazionali interni non
può essere letta senza tenere conto di un'analisi comparata dei livelli retributivi, della
sicurezza del posto di lavoro o delle possibilità di carriera. Quello che conta qui, in sostanza,
non è il livello attuale dei benefits occupazionali, bensì il rapporto con le opportunità che un
lavoratore può trovare sul mercato esterno.
Naturalmente, per l'impresa la libertà di cui si è parlato va a ridursi quanto più essa si trova
costretta a rispettare determinati standard e regole nelle proprie strategie occupazionali.
Le imposizioni di settore in ambito di formazione o contrattazione collettiva riducono lo
spettro d'azione delle imprese in tema di sistemi occupazionali implementabili. A livello
d'impresa, la contrattazione collettiva o l'uso di specifici sistemi di management, come la
valutazione della performance, potrebbero costringere a prestare più attenzione ai contenuti
"soft" del lavoro, come le skill richieste, piuttosto che alle opportunità esterne di lavoro.
Alcune ricerche hanno rilevato che esistono differenze notevoli tra imprese nel tipo di
politiche occupazionali applicate per determinati job-clusters, e che queste differenze non
sono spiegabili con la specificità del capitale umano delle imprese, ma sono modellate in
buona parte in funzione delle forze politiche e istituzionali interne ed esterne alle
organizzazioni (Baron et alii, 1986). Tuttavia, va da sé che la produzione e le relazioni sociali
all'interno dell'impresa impongono vincoli sulla possibilità del management di differenziare le
condizioni contrattuali per gruppi di lavoro similari, ma rimane alle imprese notevole libertà
nel determinare politiche occupazionali diversificate, per esempio, per orari di lavoro o ruoli
ricoperti.
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Capitolo 2
Il mercato interno del lavoro: il problema
dell’identificazione nell’impresa
2.1 Introduzione
Nell'ambito del dibattito sui mercati interni del lavoro assume grande importanza e
considerevoli implicazioni manageriali il concetto di identificazione nell'impresa. L’idea di
identificazione ha una storia recente nell’ambito della teoria organizzativa ed è tuttora in
continua evoluzione. Simon (l947; March e Simon, l958) fu il primo a coniare questo termine,
ma si concentrò più sulla spiegazione delle cause e degli effetti dell’identificazione con
l’organizzazione che sul suo significato concettuale, senza sviluppare in profondità uno
schema teorico esaustivo.
Di recente, i teorici dell’organizzazione hanno tentato di definire l’identificazione con
l’organizzazione in modo più preciso (Ashforth, Mael, l989; Dutton, Dukerich e Harquail,
l994) e persino di misurarla e studiarne le implicazioni empiriche (Mael, Ashforth, l992). Il
concetto di Tajfel (l972) di identità sociale (in pratica, “la consapevolezza dell’individuo di
appartenere a determinati gruppi sociali unità al significato emozionale o di valore che la
partecipazione al gruppo ha per l’individuo stesso”) costituisce il punto di partenza delle
teorie contemporanee dell’identificazione con l’organizzazione. Ciononostante, sembra non
esistere ancora una teoria ben sviluppata ed articolata ed un corpo di lavoro empirico dal
quale partire per interpretare il fenomeno.
2.2 II concetto di identificazione con l'organizzazione
Lo studio dell'identificazione si inserisce nel dibattito tra studiosi di management e di
organizzazione, secondo i quali una maggiore consapevolezza delle forze che orientano i
comportamenti individuali nell'organizzazione consentirebbe una migliore comprensione dei
processi organizzativi e più efficaci decisioni manageriali.
Da alcuni anni, infatti, il tema delle risorse umane è oggetto di grande interesse da parte di
studiosi e operatori, sulla base della convinzione che in situazioni di elevata incertezza le
performance organizzative sono più che tutto influenzate dalle azioni e decisioni prese in
autonomia dalle persone operanti nell'organizzazione. Questo punto di vista ha generato la
produzione di molta letteratura su competenze, motivazioni e tecniche gestionali che, se ha
avuto il merito di enfatizzare l'importanza del tema, non ha sempre contribuito a riordinare la
conoscenza o a perfezionare gli strumenti operativi. Persino la ricerca scientifica sul
comportamento delle persone nelle organizzazioni ha talora abdicato di fronte alle difficoltà
incontrate nella spiegazione di concetti così complessi.
Rimane tuttavia la forte convinzione che trattare il tema delle risorse umane in maniera
disgiunta dallo studio dell'organizzazione sia un approccio riduttivo e poco utile; l’analisi dei
comportamenti organizzativi deve essere necessariamente svolta all'interno di una teoria
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dell'organizzazione, al fine di evitare la produzione di schemi analitici troppo astratti o troppo
lontani dalle dinamiche d'impresa.
2.2.1 L'identificazione negli studi di organizzazione
L'identificazione con l'organizzazione, spesso etichettata come identificazione organizzativa,
viene frequentemente considerata nella letteratura manageriale come una delle principali
determinanti delle performance dell'impresa. L'idea alla base di tale prospettiva è che persone
molto identificate con l'impresa partecipino ai processi organizzativi con contributi
eccezionali, generando quindi performance altrettanto eccezionali.
L’analisi della letteratura evidenzia uno scenario in cui è possibile individuare un numero
ridotto di autori che, avendo studiato l'identificazione in profondità, abbiano suggerito
appropriati schemi analitici e risultati di ricerca. Tali studiosi sono idealmente distinguibili in
tre gruppi, utilizzando un criterio di aggregazione che consideri contemporaneamente le
affinità teoriche e l'ordine cronologico dei diversi lavori. Fra un primo gruppo possono essere
collocati Herbert Simon e James March. Il primo contributo sull'identificazione si deve,
infatti, a Simon che nell'opera Administrative Behavior (1947) dedica un intero capitolo a
questo tema, concentrandosi soprattutto a illustrarne l'importanza per le decisioni
organizzative.
Il lavoro di March e Simon evidenzia, tuttavia, due limiti notevoli. Anzitutto questi autori
hanno centrato il proprio sforzo sulla spiegazione dei processi di identificazione, senza però
suggerire una definizione di identificazione che consenta di posizionare il concetto nel più
ampio scenario del comportamento organizzativo; inoltre, la loro ricerca è del tutto priva di
una validazione empirica.
Il secondo gruppo di studiosi che si sono occupati di identificazione può essere individuato
raggruppando i contributi che si collocano tra il lavoro di Simon e la fine degli anni ‘80
(Foote, l95l; Kelman, l958; Brown, l969; Hall, Schneider, Nygren, l970; Lee, l97l; O'Reilly,
Chatman, l986).Queste ricerche hanno il merito di aver offerto una validazione empirica del
concetto di identificazione e di aver studiato alcune condizioni organizzative che possono
influenzarne l'intensità, anche se nessuna di esse si è spinta sufficientemente in profondità
nello spiegare cosa sia l'identificazione, confondendola spesso sul piano concettuale con altri
comportamenti o attitudini analoghi, ma comunque molto diversi.
Un terzo gruppo parte dagli studi di Mael (l988), che partendo dalla Teoria dell'Identità
Sociale - teoria sviluppatasi in Europa nell'area della psicologia cognitiva e della psicologia
sociale (Tajfel et alli, l97l; Tajfel, l982; Tajfel, Turner, l985; Turner, l975, l987) - e
sviluppandone alcuni concetti, ripropone l’idea che le persone costruiscono la propria identità
sulla base dei gruppi sociali cui appartengono. Il desiderio di una positiva valutazione di sé
spinge gli individui a cercare un maggior contatto con i gruppi di cui percepiscono caratteri
positivi e di conseguenza a identificarsi con questi. Dal punto di vista comportamentale,
l'intensità dell'identificazione di un individuo con un gruppo rappresenta un importante
antecedente dei suoi comportamenti sociali, spingendolo a cooperare e ad assumere attitudini
generalmente positive nei confronti degli altri componenti il gruppo e, contemporaneamente,
a discriminare gli individui che vengono percepiti come esterni al gruppo oggetto di
identificazione. La trasposizione di questa teoria in campo organizzativo suggerisce che le
persone facciano ampio uso della propria affiliazione all'organizzazione (vista come gruppo
sociale) e dei sottogruppi organizzativi a cui partecipano per costruire la propria identità e
siano sensibilmente influenzati da questo processo nei propri comportamenti
nell'organizzazione.
Il lavoro di Mael ha spinto molti ricercatori a riprendere in esame il concetto di
identificazione con l'organizzazione, al fine di giungere a una comprensione più profonda di
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questo processo, delle sue origini organizzative e delle sue conseguenze comportamentali.
Tra tutti i contributi segnati, i più significativi sono stati quelli di Ashforth e Mael (l989) e di
Dutton, Dukerich e Harquail (l994). Il primo, pubblicato sulla "Academy of Management
Review" nel l989, presenta un’importante sistematizzazione dell’identificazione, applicando
la Social Identity Theory all’organizzazione; il secondo, pubblicato su “Administrative
Science Quarterly” nel l994, propone invece uno schema completo dell’identificazione che,
oltre a precisarne la natura, ne ipotizza anche i collegamenti con alcuni antecedenti.
Per quanto riguarda le evidenze empiriche, Mael e Ashforth (l992) e Dukerich et alii (l995)
hanno tentato di confermare mediante studi empirici le ipotesi di Ashforth e Mael (l989) e di
Dutton et alii (l994). Anche queste indagini, sebbene utili sul piano dell’esperienza,
presentano ancora alcune limitazioni per quanto riguarda le misure e i metodi statistici
utilizzati; l’identificazione infatti non viene utilizzata direttamente, ma viene osservata
attraverso alcuni comportamenti individuali ad essa collegati, mentre lo studio delle relazioni
tra i diversi concetti si basa sull’utilizzo di regressioni, un metodo che non consente la
correzione degli errori di misura.
Ad ogni modo, l’evidenza che le persone costruiscano la propria identità sociale anche (o
soprattutto) attraverso l’organizzazione di lavoro suscita riflessioni stimolanti, in quanto la
comprensione dei cambiamenti indotti da eventi quali la ridefinizione dei sistemi produttivi o
l’innovazione tecnologica potrebbe essere facilitata da una maggior consapevolezza di come
l’organizzazione del lavoro influenzi l’identità delle persone che vi lavorano. Inoltre, il tema è
altrettanto rilevante dal punto di vista della comprensione dei processi organizzativi; se
effettivamente le persone si identificano con l’organizzazione in cui lavorano è necessario
capire come questo fatto influenzi il loro comportamento e, mediatamente, i processi
organizzativi, studiando anche la desiderabilità (per usare le parole di Simon) di tale
identificazione. L'individuazione degli aspetti che influenzano l'intensità dell'identificazione
con l'organizzazione potrebbe consentire di prevedere tali processi, offrendo anche utili spunti
per I' azione manageriale.
Altri contributi, dal taglio più squisitamente aziendale, sono venuti in tempi assai diversi da
importanti studiosi dell’organizzazione.
In questo quadro, già il fondatore dell'economia aziendale, Gino Zappa, considerò il rapporto
tra organizzazione e controllo dei comportamenti dei dipendenti (Zappa, l927, l957),
argomento che è stato successivamente sviluppato anche dagli studiosi che ne hanno raccolto
l'eredità. Nel corso degli anni successivi, infatti, il tema dei comportamenti delle persone
nell'organizzazione ha assunto importanza sempre crescente, soprattutto con lo svilupparsi
degli studi di organizzazione aziendale.
In particolare, hanno ricevuto notevole attenzione da parte degli studiosi (Rugiadini, l979;
Airoldi, l980) i sistemi operativi (sistemi di pianificazione, programmazione e controllo,
sistemi di valutazione dei risultati, di retribuzione e carriera, sistemi di ricerca, selezione,
inserimento, formazione del personale, sistemi informativi, di comunicazione e di decisione),
nella convinzione che questi concorrano a determinare i comportamenti organizzativi
individuali e di gruppo (Airoldi, l980); minor attenzione, invece, è stata dedicata allo studio
delle decisioni e delle azioni degli individui nell'organizzazione, un tema molto più studiato in
ambiente anglosassone.
Nella sua opera Lavoro e Risparmio, Masini (l970) definisce il lavoro come la primigenia
manifestazione dell'attività economica; tale manifestazione ha «carattere personale, ma
secondo la condizione essenziale della persona umana di essere parte della famiglia e di altre
società» (ivi, p. 4). Tale visione suggerisce che le associazioni umane finalizzate a un qualche
bene comune dei partecipanti si costituiscano in istituti. «Le persone che hanno un vincolo
primario nel comporre continuamente la vita di un istituto di norma tendono a costituire un
gruppo nel senso della Sociologia e della Psicologia, un organismo personale e una comunità
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di interessi (società) anche negli aspetti dell'Organizzazione del lavoro intesa come vasto
capitolo dell'Economia di azienda. Un gruppo negli aspetti sociali (fatti propri anche dalla
dottrina delle relazioni umane di azienda) si vuole presenti "intima associazione e
cooperazione"».
La teoria di Masini introduce indirettamente il tema dell'identità sociale delle persone
nell'organizzazione attraverso il valore attribuito al lavoro e considerando i processi di
socializzazione nel gruppo. Infatti, Masini sostiene che il lavoro rappresenta una delle
principali manifestazioni della dimensione umana, una visione che - al di la dei diversi schemi
esplicativi - è molto coerente con l'idea che le persone costruiscono la propria identità
nell'organizzazione di lavoro; allo stesso modo, la considerazione dei processi di
socializzazione all'interno del gruppo apre la strada allo studio delle conseguenze
dell'identificazione.
Il secondo autore che considera il ruolo dell'identificazione dal punto di vista dell'economia
aziendale è Airoldi (l980). Egli sostiene che le persone esprimono nell'organizzazione il
fabbisogno di identità, stabilita e sviluppo. Per quanto riguarda l'identità, Airoldi afferma che
«il punto centrale consiste nel correlare i gradi di produttività e soddisfazione individuali al
livello di identificazione psicologica dell'individuo con l'impresa e/o con il gruppo e/o con il
compito».
Airoldi definisce il fabbisogno di identità come «l'esigenza che l'impresa ponga in atto
condizioni organizzative che permettono ai prestatori di lavoro di: a) conoscere e dominare il
proprio ambito organizzativo; b) utilizzare le proprie capacità e conoscenze; c) mantenere i
propri valori personali». Nel seguito del suo trattato, Airoldi considera quali siano le scelte
organizzative che possono soddisfare questo fabbisogno in termini di struttura, meccanismi
operativi, stile di direzione.
Gli argomenti di Airoldi sottolineano con particolare enfasi l'importanza dell'identificazione
per l'economia aziendale in generale e per l'organizzazione aziendale in particolare. Egli
esplicita alcune delle idee che erano state proposte solo implicitamente da Masini e introduce
la discussione delle scelte progettuali che possono creare le condizioni in grado di soddisfare
il bisogno di identità degli individui.
2.2.2 L'identificazione con l'organizzazione e la gestione delle
risorse umane
Un tema che viene frequentemente sollevato dagli studiosi di management è la crescente
incertezza che caratterizza in maniera problematica la gestione delle organizzazioni. Questa
tendenza, influenzata da alcuni macro-cambiamenti nello scenario economico e sociale, ha
suggerito l'utilizzo di termini quali società post-industriale, economia post-manageriale o
post-fordismo.
Esiste un certo grado di accordo sul fatto che la gestione delle organizzazioni nel periodo
contemporaneo esprime livelli di complessità ai quali non si era abituati (e forse neppure
preparati). Dal punto di vista manageriale, dunque, è emersa una certa difficoltà a gestire le
imprese sulla base degli orientamenti utilizzati nel corso degli ultimi decenni.
In questo periodo di incertezze, in cui gli effetti della razionalità limitata si sono resi più
evidenti, la reazione più significativa è stata quella di sforzarsi di trovare gli strumenti per
rendere più flessibili e adattive le organizzazioni; l'accresciuta consapevolezza delle
incertezze ha suggerito di riporre minor fiducia alla razionalità deterministica propria di certi
orientamenti manageriali, spostando l'attenzione sull'azione delle persone.
La letteratura sulle risorse umane, riconducibile al filone di studi delle neo-relazioni umane,
ha prodotto una grande quantità di saggi che offrono suggerimenti e raccomandazioni ai
manager su come gestire con efficacia le persone e competere con successo. Spesso però, tali
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ricette non basano le raccomandazioni prescrittive su solide basi conoscitive per quanto
riguarda i processi organizzativi o i comportamenti delle persone che vi partecipano.
In questo senso, la consapevolezza dei processi di identificazione con l'organizzazione o con
sottogruppi organizzativi può consentire a chi agisce nell'organizzazione una migliore
comprensione dei processi organizzativi, così come può orientare alcune decisioni relative
agli strumenti manageriali da utilizzare. Il fatto che l'organizzazione rappresenti per gli
individui una fonte di identità non è un fatto da poco; su queste basi gli attori organizzativi
hanno l'opportunità di comprendere meglio i processi organizzativi e muoversi
nell'organizzazione con più agilità; inoltre, le forze che influenzano l'identificazione
potrebbero essere considerate nella progettazione e nella gestione dei sistemi operativi, a
partire dalla selezione del personale.
Utilizzando un linguaggio più vicino alla letteratura sul management delle imprese, se il grado
di identificazione dei dipendenti influenza l'intensità con cui essi tendono a realizzare gli
obiettivi organizzativi e a collaborare con i propri colleghi, è opportuno individuare le leve
per intervenire proficuamente su questi processi. Questo effetto motivazionale è infatti
diverso dalla classica "motivazione a produrre" tradizionalmente perseguita dalle imprese:
l'identificazione spinge le persone ad atteggiamenti imprenditoriali e proattivi, propri di
organizzazioni in cui il controllo gerarchico perde importanza per lasciare spazio all'iniziativa
delle persone. La fisionomia delle imprese postindustriali, infatti, richiede un nuovo modo di
intendere il ruolo dei dipendenti: non più subordinati, ma collaboratori, cioè persone che
utilizzano la propria professionalità per il conseguimento degli obiettivi dell'organizzazione,
indipendentemente da ciò che la gerarchia riesce a pianificare e controllare, utilizzando le
classiche tecniche manageriali. A questo proposito, gli studi sull'esperienza di alcune imprese
eccellenti dimostrano come il coinvolgimento delle persone rappresenti una risorsa strategica
per il raggiungimento di un importante vantaggio competitivo (Salvemini, l992). Allo stesso
tempo, le difficoltà di progettazione organizzativa riscontrate negli ultimi anni, sia dal punto
di vista operativo che per quanto riguarda la modellizzazione, sottolineano la necessità di
nuovi meccanismi di integrazione della struttura; il coordinamento interno di organizzazioni
complesse, molto articolate ed estremamente informali, può essere notevolmente agevolato
dall'utilizzo di strumenti nuovi quale il management dell'identità.
La comprensione e la consapevolezza di come il processo di identificazione organizzativa
modelli il rapporto tra gli individui e la loro organizzazione di lavoro rappresenta un elemento
fondamentale per capire il comportamento del personale nelle imprese e agire sulle variabili
che, mentre favoriscono il raggiungimento di risultati economici più elevati, allo stesso tempo
incrementano il livello di soddisfazione e di benessere psicologico dei lavoratori (Masini,
l978; Rugiadini, l979).
2.3. I fattori che intervengono nei processi
identificativi
I percorsi conoscitivi per comprendere le forze che influenzano l'intensità dell'identificazione
possono essere vari. March e Simon (l958) hanno posto particolare enfasi sulle relazioni
sociali nell'organizzazione. Altri ricercatori (Foote, l95l; Kelman, l958; Brown, l969; Hall,
Schneider, Nygren, l970; Lee, l97l; O'Reilly, Chatman, l986) , pur riferendosi a un concetto di
identificazione diverso dai suddetti, hanno studiato altri antecedenti organizzativi
dell'identificazione.
Gli studi sulla motivazione al lavoro hanno individuato varie forze che in modi differenti
influiscono sensibilmente sull'esperienza organizzativa dell'individuo e delle quali sarebbe
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interessante indagare l'effetto sull'identificazione; a questo proposito si pensi all'importanza
del contenuto della mansione di cui ha parlato Herzberg (l966) o al ruolo del leader secondo
gli studi svolti negli anni Sessanta e Settanta all'Ohio State University o alle modalità con cui
vengono definiti gli obiettivi (Locke, l968, l976).
March e Simon (l958) individuano i seguenti cinque fattori che influenzano l'identificazione
con un gruppo organizzativo: il grado con cui gli obiettivi sono percepiti come condivisi, la
frequenza delle interazioni tra l'individuo e il gruppo, il numero di bisogni individuali
soddisfatti nel gruppo, l'entità della concorrenza tra i membri del gruppo e l'individuo e il
prestigio percepito del gruppo.
Anche se March e Simon non sviluppano molto in profondità il tema, si tratta evidentemente
di percezioni individuali; queste percezioni riguardano in primo luogo l'esperienza diretta che
l'organizational member fa dell'organizzazione e, secondariamente, le sue rappresentazioni di
come questa è vista e valutata dagli outsiders. Condivisione degli obiettivi, frequenza delle
interazioni, bisogni soddisfatti e concorrenza interna sono riconducibili all'esperienza
personale, mentre il prestigio percepito è da collegarsi alle valutazioni esterne.
Partendo da queste basi e tentando di semplificare lo schema esplicativo, Ashforth e Mael
(l989), Dutton, Dukerich e Harquail (l994) hanno considerato due antecedenti
all'identificazione con l'organizzazione: l'attrattività dell'identità organizzativa percepita e
l'attrattività dell'immagine esterna percepita. In prima approssimazione si può quindi
affermare che l'intensità dell'identificazione con l'organizzazione dipende dal grado di
attrattività che alcune rappresentazioni dell'organizzazione hanno per il concetto di sé
dell'individuo. Si tratta delle percezioni dell'identità dell'organizzazione e delle percezioni
della sua immagine esterna. Queste percezioni (che derivano dal processo di confronto
sociale) sono attrattive per un individuo se il fatto di partecipare a quell'organizzazione
contribuisce a incrementare anzitutto la sua autostima, ma anche il suo senso di distintività e
di coerenza (Dutton et alii, l994).
Dutton et alii (l994) e Bergami (l994) precisano anche la natura dell'identità organizzativa
percepita e dell'immagine esterna percepita, definendo queste percezioni con il termine di
immagini organizzative. Le immagini organizzative sono “immagini mentali”
dell'organizzazione (Dutton et alii , l994; Bergami, Dutton, l995), ove un'immagine mentale è
definita come una immagine della memoria e dell'immaginazione (Goodman, l990), distinta
sia da immagini materiali, sia da immagini ottiche, non sono necessariamente visiva, in
quanto essa può derivare da uno o più stimoli sensoriali.
Le immagini mentali non sono rappresentazioni analitiche ed esaustive di un qualche oggetto
o situazione, in quanto in molti casi perdono alcune informazioni. Tuttavia esse sono molto
significative a livello individuale, in quanto non necessitano di alcuna elaborazione, sono
immediate e vengono usate più spesso di altre rappresentazioni. Le immagini sono differenti
da altre rappresentazioni mentali studiate dagli psicologi cognitivi, in quanto non si basano su
parole o proposizioni.
Spesso l'enfasi viene posta su rappresentazioni verbali, in quanto se chiediamo a una persona
di raccontare qualcosa, questa utilizzerà delle parole e non delle immagini; le rappresentazioni
verbali sono dunque un artefatto che viene utilizzato per riportare informazioni che non sono
necessariamente parole, ma possono essere visuali o legate a qualche altro senso (Bugdski,
l986).
Le immagini mentali esistono anche in assenza dello stimolo originale e sono spesso collegate
a emozioni. Quando un'esperienza crea un'immagine nella mente di un individuo, questa
immagine può essere richiamata volontariamente oppure può essere evocata per la presenza di
qualche causa esogena. Le immagini influenzano la nostra relazione con altri oggetti anche
quando non le richiamiamo volontariamente.