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terroristici, che al contempo possono aumentare il numero dei loro
affiliati servendosi del reclutamento via Internet. I governi non sono
più i soli a disporre di certe informazioni e cercare di nasconderle
sarebbe per loro controproducente. Inoltre, mentre il processo di
globalizzazione riduce la distanza esistente tra centro e periferie, le
attuali tecniche di comunicazione accrescono la visibilità di queste
ultime e danno voce alle loro esigenze. Per questa ragione è sempre
più importante che il potere venga esercitato tenendo conto delle
preferenze altrui, oggi più che in passato.
Nye concepisce il mondo come una scacchiera a tre dimensioni -
militari, economiche e transnazionali - delle quali si deve tener conto
contemporaneamente per poter vincere la partita. Gli Stati Uniti
detengono il primato assoluto a livello militare, lo condividono con un
ristretto numero di attori in ambito economico, ma non esercitano un
potere unipolare nel settore dei problemi transnazionali, dove questo
risulta diviso tra una miriade di attori.
E’ in tale contesto che il soft power svolge un ruolo fondamentale
perché, se usato in modo appropriato, esso può aumentare le
possibilità di riuscita delle politiche statali in tutte le dimensioni del
potere. Una sua mancanza o un cattivo uso possono, al contrario,
tradursi in risultati negativi anche in campo militare ed economico,
come dimostra l’azione unilaterale in Iraq nel 2003. Lungi dallo
sconfiggere il terrorismo, questa ha provocato un calo di popolarità
degli Stati Uniti, non solo nei Paesi islamici ma anche all’interno di
Stati tradizionalmente alleati e ha comportato costi maggiori per il
governo americano, che si sarebbero potuti ridurre con il ricorso ad
una politica multilaterale. Un’ulteriore conseguenza è stata la
diminuzione delle esportazioni verso i Paesi mediorientali.
Tra i Paesi che invece hanno sostenuto l’azione statunitense ve ne
sono alcuni dell’Europa orientale e questo dimostrerebbe
l’importanza, nel lungo periodo, di una politica basata sul soft power,
dato il ruolo di rilievo che l’America ha svolto nel loro processo di
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democratizzazione, sia volutamente che attraverso l’esportazione della
sua cultura e degli stili di vita.
Data l’importanza del soft power, su cosa è basata la capacità di
attrattiva di un Paese? Si tratta innanzitutto di individuare dei valori e
di saperli rappresentare credibilmente, in modo tale che gli altri siano
portati ad aspirare alla loro realizzazione. Per questa ragione il soft
power non è direttamente proporzionale alle dimensioni né
all’importanza di uno Stato, come dimostra la capacità di attrattiva di
cui i Paesi scandinavi godono per le loro polit iche umanitarie e sociali.
Anche piccoli Stati possono quindi determinare politiche basate su
una strategia di diffusione dei propri valori, a condizione che questi
siano percepiti come universalistici.
Il semplice possesso di valori non è sufficiente: occorre
perseguirli in maniera concreta e prestare attenzione a come vengono
messi in pratica nel contesto nazionale: può un Paese che denuncia
l’apartheid all’estero esercitare una politica di segregazione razziale
all’interno dei suoi confini e continuare ad essere credibile?
Infine, anche in presenza di politiche coerenti ed efficaci, non è
detto che i valori siano ammirati ed interiorizzati da altri. La loro
ricezione dipende dal contesto, a livello spaziale e temporale. Infatti le
politiche cambiano nel tempo, mentre in alcuni Paesi un dato modello
culturale potrebbe produrre repulsione invece che attrazione.
Si tratta di un limite del soft power, spesso evidenziato per sminuirne
l’importanza ed evidenziare invece i vantaggi del potere militare. Non
a caso Robert Kagan, convinto sostenitore dell’hard power, ritiene che
la teoria del potere soft presenti parecchi punti deboli, mentre Nye non
condivide la sua tesi, in base alla quale “gli Stati Uniti vengono da
Marte e l’Europa da Venere” (Cfr. SIMON, Radio Npr, 2002).
Tuttavia, si tratta di un limite relativo: se è vero che in un Paese
islamico, in cui esista già un diffuso antiamericanismo, è più difficile
che le politiche o il modello culturale americano riscuotano simpatie,
è altrettanto vero che le reazioni sono differenziate. Spesso, infatti,
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risulta opportuno scindere il punto di vista dei Governi da quello
dell’opinione pubblica.
Nye sottolinea come il reale conflitto nei Paesi islamici non
consista tanto in uno scontro di civiltà, bensì in una lotta, all’interno
della “società civile”, tra esponenti estremisti e moderati. L’esercizio
del soft power è controproducente nei confronti dei primi, ma può
rivelarsi utile per influenzare i moderati e, nel lungo periodo, la stessa
politica del governo, costretto a prendere in considerazione i
cambiamenti che avvengono nell’opinione pubblica.
L’atteggiamento dei governi introduce un ulteriore spunto di
riflessione: il soft power si esercita più facilmente e con migliori
risultati nelle democrazie, in cui il potere è diffuso, piuttosto che nelle
autocrazie. Inoltre le democrazie condividono alcuni valori, che
contribuiscono a creare “isole di pace” e a rendere meno ricorrente
l’impiego dell’hard power nei loro rapporti reciproci. Barbara Spinelli
ha definito democrazia e diritti umani “armi di attrazione di massa”.
Tuttavia, almeno il 10% degli Stati non garantisce libertà di stampa ed
espressione: in questi casi l’informazione può davvero rappresentare
un potere effettivo?
Altri detrattori sostengono che il soft power non permette
l’esercizio di un controllo attivo, vale a dire che i processi di
imitazione ed attrazione non sarebbero sufficienti nel determinare gli
esiti delle politiche. E’ infatti possibile che tali fattori non bastino, ma
senz’altro sono necessari: aumentano le possibilità di raggiungere i
risultati attesi e possono quindi essere un efficace complemento
all’uso di altri poteri.
Ancora, si sostiene che la cultura popolare, potenziale veicolo di soft
power, sia accolta con favore in quei Paesi in cui già si apprezzano
valori simili. Secondo Nye il fenomeno è più complesso e la misura in
cui si esercita attrazione ed essa sortisce l’effetto desiderato non
dipende dall’affinità di contesto con il destinatario, bensì dal modo in
cui la cultura viene destrutturata e ricontestualizzata.
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L’uso del soft power non è poi considerato utile per il conseguimento
di obiettivi specifici, perché si ritiene che la “popolarità” di uno Stato
abbia ripercussioni più indirette e di portata generale.
Il valore del soft power non può essere misurato unicamente in
base al criterio della popolarità di un Paese. E’ vero che questa forma
di potere si rivela più efficace nell’influenzare gli obiettivi di portata
generale, soprattutto quelli “di ambiente”, ma è stata proprio la
mancanza di attrazione per le politiche americane a determinare il
mancato appoggio di Cile e Messico alla risoluzione ONU che ne
avrebbe legittimato l’ingresso in guerra, obiettivo, questo, concreto e
specifico.
Un’ulteriore critica, a mio avviso più marginale, è quella che mette in
discussione il valore dei sondaggi. Si sostiene in pratica che la
popolarità di un Paese, misurata con strumenti statistici, sia incerta e
non rispecchi fedelmente la realtà dei fatti. I sondaggi sono certo
approssimativi ma, come rileva Nye, “di una buona approssimazione”
e, in ultima analisi, il soft power non coincide con il mero concetto di
popolarità.
Infine, la preoccupazione maggiore legata all’uso del potere soft
deriva dall’impossibilità, da parte dei governi, di esercitare un
controllo assoluto sulle fonti di attrazione.
Le politiche nazionali e la politica estera di uno Stato rappresentano
solo una componente del soft power, non potendo oggi prescindere
dall’azione di altri organi non governativi o, addirittura, di singoli
individui. La loro azione può essere complementare e, in ultima
analisi, coincidere con gli obiettivi del governo. Anche quando ciò
non si verifica, non è detto che l’assenza di controllo sia di per sé
negativa: i film di Hollywood hanno contribuito ad aumentare
l’apprezzamento verso i valori americani anche quando questo non era
un loro obiettivo specifico, semplicemente mostrando ad altri Paesi
uno stile di vita diverso e “appetibile”.
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Prima di considerare le fonti del soft power e le sue realizzazioni
nella pratica, con riferimento specifico alla politica estera americana,
occorre analizzarlo in relazione all’altra forma di potere: l’hard power.
In che misura i due aspetti sono connessi? In cosa invece si
differenziano? Approfondiremo questo confronto nel capitolo IV, ma
è importante analizzare alcuni aspetti fondamentali.
Il soft power è, in genere, più lento dell’hard power nel
produrre i risultati desiderati ma esistono notevoli eccezioni, perché
talvolta la diffusione di informazioni può generare risultati con grande
rapidità. L’hard power, invece, è di rapido impiego, ma il rischio è
quello di realizzare soluzioni “parziali” dei problemi. Ad esempio
l’attacco all’Afghanistan ha permesso di sconfiggere il regime
talebano, ma non ha eliminato la minaccia di Al Qaeda.
Il soft power di un Paese non è direttamente proporzionale alle
sue risorse di hard power: non si tratta di imporre un’idea con l’uso
della forza e, di conseguenza, la qualità e quantità di armi a
disposizione non è rilevante. Il Vaticano, per esempio, pur non
possedendo forze armate, esercita una notevole attrazione sulla
comunità internazionale.
In alcuni casi, tuttavia, l’hard power riesce a creare dei “miti di
invincibilità” che possono essere molto efficaci nel convincere altri
Stati ad allearsi con il più forte, ma necessita comunque di un lato
“soft”, nella misura in cui gli alleati si sentano minacciati nei loro
interessi e temano di essere soggetti ad un dominio, piuttosto che
sentirsi parte di una coalizione.
Nel secondo conflitto iracheno gli Stati Uniti non hanno prestato
attenzione al soft power e questa mancanza ha avuto conseguenze
negative sul piano militare: basti pensare al rifiuto della Turchia di far
transitare le truppe americane sul suo territorio. Le alleanze
continuano ad essere determinate dagli interessi in gioco, ma l’uso o la
mancanza del soft power possono determinare livelli maggiori o
minori di cooperazione.
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Insomma, hard e soft power sono in grado di ostacolarsi o favorirsi a
vicenda ma la combinazione ideale consiste in un equilibrio tra i due
elementi, unica possibilità di “esercizio di un potere intelligente”.
2. Le fonti del soft power: cultura, valori e politica estera.
Nye elenca tre principali fonti di soft power: la cultura, i valori (nella
cui definizione sono comprese anche le politiche nazionali) e la
politica estera di un Paese.
La cultura è una fonte piuttosto controversa: non genera effetti
uniformi perché può influenzare in modi contraddittori le diverse
componenti all’interno di un Paese, né è immutabile perché viene
condizionata anche da tendenze di mercato, indipendenti dalla
dimensione politica. Inoltre lo stesso “contenitore” cultura non è
omogeneo: è infatti possibile distinguere una cultura “alta” e una
popolare o di massa, con conseguenze contrastanti per il soft power
persino all’interno di uno stesso Stato.
Nel caso degli Stati Uniti, la cultura “alta” rappresenta una
notevole fonte di soft power, che si realizza principalmente attraverso
gli scambi culturali. Essi ebbero un’influenza notevole all’epoca della
Guerra fredda, tanto che il governo sovietico richiese agli Stati Uniti
un accordo per limitarne il numero. Oggi gli scambi sono ridotti,
rispetto al passato, a causa delle politiche che l’America ha adottato in
materia di visti di ingresso dopo l’11 settembre: emerge in questo caso
il problema della coerenza tra i diversi livelli del potere e delle scelte
governative, in mancanza della quale il soft power rischia di ridursi.
Inoltre, la cultura “alta”, per definizione, interessa principalmente
le élites di un Paese e spesso non è in grado di influenzare la
maggioranza dell’opinione pubblica di cui i governi, se democratici,
dovrebbero tener conto. Entra in gioco la componente popolare,
ancora più controversa nel favorire o ostacolare l’esercizio di
attrattiva.
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La cultura popolare americana è stata spesso oggetto di critiche ma ha
svolto anche essa un ruolo fondamentale nel porre fine alla Guerra
fredda, veicolando una serie di messaggi, più o meno subliminali o
volontari, che hanno contribuito al “cambiamento delle menti”. Anche
oggi può valere il detto “Hollywood arriva più lontano di Harvard
(SANDBURG, 1961).
I film americani, così come gli spot televisivi o i grandi eventi
sportivi possono rappresentare una fonte di sostegno per la politica e
l’economia e avere conseguenze importanti nella loro qualità di
strumento di informazione oltre che di intrattenimento. Il confine tra
queste due dimensioni è oggi meno netto. L’informazione inoltre
contribuisce al mutamento politico e alla creazione di punti di vista
diversi, come rivela il successo dell’emittente Al Jazeera nel fornire
una prospettiva particolare degli eventi iracheni.
Persino il cibo può diventare una fonte di soft power, con la sua
capacità di essere simbolo di una realtà sottostante: mentre nei Paesi
arabi si lancia la Mecca Cola per contrastare la più nota bevanda
“made in Usa”, una famiglia indiana dichiara di recarsi da
McDonald’s per “portare a casa una fetta di America” (NYE 2005, p.
34).
Infine, se la cultura popolare incontra ostilità nel breve periodo,
non è detto che altrettanto si verifichi in seguito. Il ruolo del soft
power incide proprio su questo aspetto, si inserisce nel vuoto lasciato
dall’ambivalenza della cultura, dal suo non essere immutabile. In altri
termini il soft power non coincide con la cultura, ma con la capacità di
renderla attraente ed accettabile. Infatti il potere soft varia nel tempo
non solo in base alla capacità di ricezione del destinatario, ma anche a
seconda dell’uso che ne viene fatto da parte del mittente.
Nel caso di una diffusa ostilità verso un Paese, in che misura la
sua cultura contribuisce ad alimentarla?
Prendendo ad esempio l’antiamericanismo, Nye distingue l’avversione
determinata da politiche impopolari da quella motivata da un rifiuto
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della società, dei suoi valori e della sua cultura. A questi due tipi si
aggiunge un antiamericanismo strutturale, che è legato alle dimensioni
della potenza americana e che genera risentimento nei Paesi più
deboli.
Al di là delle motivazioni di singoli gruppi (ad esempio alcuni
intellettuali di sinistra che ne disprezzano la dimensione capitalista
esasperata), la cultura americana viene dunque contestata in quanto
simbolo di modernità e potenziale minaccia per le altre culture. Pur
rappresentandone soltanto una componente, essa viene identificata con
la globalizzazione e tale visione è spesso strumentalizzata da quei
Paesi che sono incapaci di rispondere ai cambiamenti della modernità.
Secondo Nye, questa visione è una semplificazione, non sufficiente a
spiegare i diffusi sentimenti di ostilità nei Paesi arabi. Benché il
Medio Oriente rappresenti un caso particolare all’interno della sua
trattazione, anche in contesti diversi l’ostilità è determinata, oltre che
dal timore della cultura moderna, dai valori e dalle politiche nazionali
che uno Stato persegue.
Nye definisce il Medio Oriente come un’area non modernizzata
ma dotata di mezzi di comunicazione moderni, orientati ad un
approccio antiamericano. Secondo l’autore non è facile applicare in un
contesto simile un approccio politico quale quello adottato dagli Stati
Uniti nell’Europa del secondo dopoguerra, ma la condivisione di
alcuni valori e il desiderio degli esponenti moderati di fruire dei
benefici derivanti dal commercio e dalla globalizzazione lasciano
comunque un margine di azione per il soft power.
L’uso della forza non si è dimostrato utile per esportare la democrazia:
al contrario potrebbe rivelarsi efficace un’azione che dimostri come
sia possibile conciliare democrazia e cultura locale. Occorre far leva
sulle risorse già esistenti (collaborare con i media arabi, con individui
o gruppi piuttosto che con i governi) ma anche incrementarle laddove
risultino insufficienti. Per esempio, Radio Voice of America è
ascoltata dal 2% della popolazione nei Paesi islamici, mentre la stessa
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e Radio Free Europe, durante la Guerra fredda, raggiungevano
nell’Europa orientale il 70% di ascolti.
La seconda fonte del soft power è rappresentata dai valori, a patto
che questi non siano soltanto proclamati in una Costituzione, ma
vengano anche messi in pratica in modo universalistico e senza
ipocrisia. Quest’ultima, infatti, al pari di valori adottati in modo
diverso all’interno e all’esterno di un Paese (secondo un approccio
“due pesi due misure”) svuota il soft power di significato e lo rende
inefficace.
Il potere politico risiede oggi anzitutto nella capacità di trovare e
diffondere informazioni credibili. Da questo punto di vista i governi
che dispongono di spazi pubblici molto aperti e produttivi, di
molteplici strumenti di comunicazione e di controcomunicazione, si
trovano in una posizione di vantaggio, non sufficiente tuttavia per
garantire buoni risultat i. La rivoluzione dell’informazione ha infatti
determinato una sovrabbondanza di messaggi tale da provocarne una
svalutazione relativa: vince chi è in grado di filtrare le informazioni
per distinguere quelle rilevanti da quelle inutili. Il governo non è più
l’unica fonte di informazione, costretto com’è a confrontarsi con una
molteplicità di attori (ONG, aziende, mezzi di comunicazione
indipendenti): basti pensare alla “competizione” con la Cnn nella
prima guerra del Golfo.
Il pubblico, disponendo di fonti diverse, è in grado di distinguere
molto più facilmente la propaganda dalle informazioni rilevanti e di
screditare la politica del governo come ipocrita. E’ quel che è
accaduto in Iraq, nel momento in cui il governo americano non è stato
in grado di dimostrarsi coerente con i valori in riferimento ai quali era
stato legittimato l’ingresso in guerra: la mancata scoperta di armi di
distruzione di massa ha prodotto un calo di consensi nell’opinione
pubblica americana ed internazionale.