6
ma anzi ne temerà la risposta, poiché ben conosce cosa accade agli “infami”, a
quelli che tradiscono la “famigghia”.
Ecco che la figura del pentito, oggi chiamato collaboratore di giustizia,
diventa una figura complessa da gestire sotto molti punti di vista.
Egli, infatti, con la sua scelta di collaborare, cambierà la sua esistenza per
sempre, e, suo malgrado, stravolgerà la vita delle persone che gli sono accanto.
Infatti il nucleo familiare del pentito subirà una serie di stravolgimenti
radicali: sdradicamento obbligatorio con tutto il precedente mondo (casa, scuola,
amicizie, lavoro, ecc..), con un’incertezza del proprio futuro.
Senza contare la minaccia sempre incombente di possibili rappresaglie da
parte del clan.
Essi diventano fantasmi che sopravvivono alla loro esistenza. La necessità,
da parte del legislatore, di tutelare sia il pentito sia il suo nucleo familiare, diventa
indispensabile proprio per raggiungere i risultati sperati.
È facile capire, quindi, che non può esistere una seria tutela del pentito
senza un’idonea tutela dei suoi affetti.
7
CAPITOLO 1
MAFIA E PENTITISMO: LE ORIGINI
1.1 Analisi del pentitismo: riscontri storici
Per molto tempo si è pensato alla figura del collaboratore di giustizia, uscito
dall’organizzazione mafiosa, come ad una figura stigmatizzata più da un modello
generalizzato, per nulla attinente alla realtà, che ad una figura molto più vera e
complessa, spesso contraddittoria, creando non poche ambiguità.
Spesso l’uso indistinto della terminologia “pentito” e “pentitismo” ha
portato più ad un giudizio “morale e sociale” che alla considerazione del ruolo e
del contributo fornito dal collaboratore nelle aule giudiziarie. “Le enfatizzazioni
dei media e la scarsa conoscenza della storia della mafia non aiutano a
comprendere il fenomeno del pentitismo”.(
1
)
La figura del pentito, infatti, si può dire che sia sempre esistita nella storia
della mafia, anche se ha assunto caratteristiche e ruoli differenti nel corso del
tempo (informatori, confidenti, testimoni e pentiti veri e propri). Basta leggere una
sentenza ottocentesca o dei primi anni del Novecento per ritrovare ampie tracce di
informazioni derivanti da rapporti di polizia “che ogni poliziotto nel corso di
innumerevoli dibattimenti attribuisce a fonti attendibili degne di piena fiducia ma
di cui non voglio né posso rivelare la natura”.(
2
)
Sin dalla seconda metà dell’Ottocento abbiamo, attraverso le fonti, una
dettagliata descrizione delle attività di gruppi criminali presenti in diverse aree
della Sicilia. Importanti processi avevano rivelato la presenza, all’interno dei
1
S. Lupo: Storia della Mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1996, pag. 251.
2
S. Lupo: Storia della Mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1996, pag. 69-70.
8
cosiddetti “tenebrosi sodalizi”(
3
) (primissime forme di associazionismo mafioso),
di un’organizzazione basata su dei veri e propri codici comportamentali: come
l’omertà, la vendetta, giuramenti per entrare a far parte della “società”, rituali di
affiliazione. Ed è proprio con l’omertà che si identifica l’esatto modello di
comportamento del vero mafioso, “l’omu chi parra assai cu la so stissa vucca si
disterra” (l’uomo che parla molto si rovina con la sua stessa bocca) recita un
antico proverbio siciliano.
Uno dei primi mafiosi “ca parra” è Salvatore D’Amico di Bagheria, già
condannato per omicidio e detenuto nel carcere palermitano, affiliato alla setta
degli Stuppagghiari, che descrisse la cerimonia del giuramento; rivelò quanto
sapeva alla polizia e - cosa insolita all’epoca - si disse pronto a confermare le
accuse pubblicamente. Ma non riuscì a prestare la propria testimonianza nel corso
del processo contro gli Stuppagghiari tenutosi a Palermo nel maggio del 1878, in
quanto venne assassinato un mese prima.(
4
)
Quasi contemporaneamente a D’Amico ci fu anche un altro mafioso, di
nome Rosario La Mantia di Monreale, pregiudicato per rapina, che di ritorno
dall’America si dichiarò disposto a rivelare informazioni utili riguardanti il
processo alla cosca Amoroso. I fratelli Amoroso facevano parte di
un’associazione di malfattori; già arrestati nel 1874 erano stati rimessi in libertà
per insufficienza d’indizi(
5
). Le rivelazioni di La Mantia diedero impulso a nuove
indagini; egli collaborò per un paio d’anni con gli inquirenti, riferendo notizie
apprese durante il suo soggiorno negli Stati Uniti da Salvatore Marino,
appartenente alla cosca degli Stuppagghiari ed emigrato oltreoceano per sfuggire
3
Fra i più noti ricordiamo: la setta degli Stuppagghiari a Monreale, la fratellanza a Favara e nella
provincia di Agrigento, i Fratuzzi a Bagheria, l’Oblonica a Girgenti, la Scattatiora di Sciacca, la
Fontana Nuova di Misilmeri, quella dello Zubbio a Villabate, dei Pugnalatori a Palermo, gli
Sparatori a Messina e la setta dello Scaglione a Castrogiovanni.
4
Ai funerali del pentito D’Amico non partecipò nessuno dei suoi parenti. Tuttavia le sue
dichiarazioni furono ritenute veritiere dalla Corte di Assise di Palermo, che condannò 12 dei 18
imputati. Successivamente la Corte di Cassazione annullò il processo e lo assegnò all’Assise di
Catanzaro, dove tutti gli imputati vennero assolti.
5
I fratelli Amoroso vennero riconosciuti colpevoli al processo celebratosi a Palermo nel settembre-
ottobre 1883 e furono condannati a gravi pene.
9
all’arresto, ma al momento del processo non si presentò: espatriò - probabilmente
con l’aiuto della questura - proprio nel momento in cui avrebbe dovuto
testimoniare.
Anche nel processo per l’omicidio di Emanuele Notarbartolo, appartenente
ad una delle più importanti famiglie aristocratiche siciliane, esponente della
Destra Storica, già sindaco di Palermo, nonché direttore del Banco di Sicilia,
assassinato il 1° febbraio 1893, informatori, delatori, testimoni e voce pubblica,
furono i principali protagonisti durante la celebrazione del processo. Il delitto
Notarbartolo viene, però, considerato come il primo “delitto eccellente”
consumato dalla mafia, dove però, per la prima volta, fa la sua comparsa la mano
politica. Individuati gli esecutori materiali dell’omicidio, indizi di colpevolezza
portarono a considerare l’onorevole Raffaele Palizzolo come possibile mandante,
suscitando un grande clamore nell’opinione pubblica nazionale. L’emergenza
“mafia” si impose, per la prima volta, in Italia.
Nel corso dei processi celebrati a Milano, Bologna e Firenze sfilarono
centinaia di testimoni provenienti dalla Sicilia “vestiti in strane fogge, che si
esprimono in un idioma reso comprensibile solo da interpreti nominati dai
magistrati”.(
6
)
Ma rispetto ai processi contro gli Stuppagghiari e gli Amoroso, il processo
Notarbartolo segnò “un enorme progresso per la concatenazione logica dei fatti,
per la scomparsa delle più evidenti aporie nella costruzione dell’accusa in casi di
mafia”(
7
). In questo processo, come in quello contro gli Amoroso, alla domanda
rivolta dai giudici a testimoni e imputati: «Che cos’è la mafia?», la risposta era
spesso del seguente tenore: «Non so che significa». Molti, ovviamente,
sostenevano di non sapere cosa la parola mafia volesse indicare.
Il 31 luglio 1902, la Corte di Assise di Bologna condannò a trent’anni di
reclusione Palizzolo e Giuseppe Fontana, esponente della cosca di Villabate,
indicato come presunto esecutore dell’omicidio Notarbartolo. Ma la Cassazione
6
S. Lupo: Storia della Mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1996, pag. 104.
7
S. Lupo: Storia della Mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1996, pag. 139.
10
per vizio di forma annullò la sentenza, ordinando la ripetizione del processo che
ebbe luogo a Firenze.(
8
)
Erano passati molti anni dal delitto, la partecipazione dell’opinione pubblica
era ormai un ricordo. Le prove «cascavano ad una ad una per terra come le
pietruzze di un mosaico scomposto», scriverà in seguito il figlio nel suo libro di
memorie(
9
). Un importante nuovo testimone, Matteo Filippello(
10
) venne
convocato dalla parte civile, ma qualche giorno prima della data prevista per la
sua deposizione fu trovato impiccato. Ovviamente, ne seguì un’assoluzione
generale per insufficienza di prove: il 23 luglio 1904 il caso Notarbartolo venne
ufficialmente chiuso e Palizzolo ritornò a Palermo dove venne accolto come un
trionfatore.
Sicuramente un’importante descrizione della struttura criminale mafiosa in
Sicilia è contenuta nel Rapporto Sangiorgi, dal nome del questore palermitano che
lo firmò, comprendente 485 pagine scritte fra il novembre 1898 e il febbraio del
1900. L’autore di questo documento, grazie alle informazioni confidenziali
ricevute da persone addentro alle cose di mafia, aveva raccolto tutti gli elementi
necessari per trascinare in giudizio gli esponenti di un’associazione di malfattori
che funestava l’agro palermitano. Il gruppo Giammona - fra i protagonisti
dell’inchiesta - accusava il rivale Siino di essere gittate con la questura: “Lo so
che la causa della persecuzione a tanti figli di madri è quell’infamone e sbirro di
Francesco Siino urlava un mafioso appena arrestato”(
11
). Come nel processo agli
Amoroso e agli Stuppagghiari, anche in questo caso troviamo la figura
dell’informatore: la “fonte attendibile”, ma anonima, che guida le autorità nel
8
La vicenda giudiziaria riguardante l’assassinio di Notarbartolo duro oltre dieci anni (1893-1904).
Diverse furono le fasi del processo: nella prima fase (1893-1898) le indagini rimasero di basso
profilo; nella seconda fase (1898-1899) la Corte di Assise di Milano accusò apertamente Palizzolo;
nella terza fase (1900-1903) il processo si svolse a Bologna e vide la condanna di Palizzolo a
trent’anni di carcere; nella quarta fase (1903-1904) il processo si celebrò nuovamente presso la
Corte di Assise di Firenze, e il Palizzolo ottenne la piena assoluzione.
9
S. Lupo: Storia della Mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1996, pag. 132.
10
Matteo Filippello, esponente della cosca di Villabate, era stato indicato insieme a Giuseppe
Fontana come presunto autore dell’omicidio di Notarbartolo. Ma i sospetti contro Filippello
caddero da subito.
11
S. Lupo: Storia della Mafia dalle origini ai nostri giorni Donzelli, Roma 1996, pag. 119.
11
delineare il contesto, la struttura del sodalizio, capi e gregari. Ma la tesi
accusatoria dell’esistenza di un’unica organizzazione criminale, nella quale
confluivano tutti i mafiosi della Conca d’Oro “oltre a non ricevere conferma in
sede giudiziaria per mancanza di prove, fu anche rifiutata in sede di dibattito
teorico generale”(
12
). Il processo per associazione a delinquere che si celebrò nel
1901 si concluse con molte assoluzioni e poche condanne: “In assenza di un
pentito disposto a testimoniare in giudizio - sostiene lo storico Salvatore Lupo - la
realtà associativa della mafia rimane impossibile da dimostrare”.(
13
)
Nel primo ventennio del Novecento, ci fu un consolidamento dei circuiti
criminali in Sicilia. “Gli inizi del secolo vedono così i reticoli mafiosi consolidarsi
e ammodernarsi secondo un processo che non è certo indolore, realizzato di solito
con aspre lotte e l’eliminazione di chi, legato a vecchi equilibri, si opponeva ai
rapidi mutamenti introdotti da figure emergenti”.(
14
)
Mafie “nuove” si alternano alle “vecchie” in un processo continuo di
rinnovamento.
Durante l’età giolittiana la mafia godeva di «un’informale legittimazione»,
per effetto della politica perseguita da uno Stato nazionale sensibile alle richieste
dei notabili locali(
15
). Le cosche mafìose erano in grado di controllare i voti
elettorali e di riversarli sui candidati “amici degli amici”, ottenendo in cambio
massima libertà sia negli affari che nelle attività delittuose.
Contro la mafia - che si era rafforzata durante la Prima guerra Mondiale(
16
) -
nel 1925 Benito Mussolini dichiarò guerra totale, incaricando il prefetto di
Palermo, Cesare Mori, e il procuratore generale del re presso il Tribunale di
Palermo, Luigi Giampietro. Nella storia della mafia l’opera del prefetto Mori
12
Renda: Storia della Mafia. Come. dove, quando, Sigma Edizioni, Palermo, 1997, pag. 184.
13
S. Lupo: Storia della Mafia dalle origini ai nostri giorni, Donzelli, Roma 1996, pag. 117.
14
P. Pezzino: Una certa reciprocità di favori. Mafia e modernizzazione violenta nella Sicilia
postunitaria, Franco Angeli, Milano, 1990, pag. 174.
15
G. C. Marino: Storia della Mafia, Newton&Compton editori, Roma, 2000, pag. 94.
16
Per la mafia la guerra era stata un buon affare per l’apertura di nuove possibilità di lucro. Finita
la guerra, la mafia si ritrovò un maggiore potere economico e più capacità di controllo sul
territorio.
12
costituisce una tappa fondamentale; attraverso un’attività di repressione “per tutto
il ventennio fascista risultarono spezzati i rapporti mafia, politica e istituzioni e
reso impraticabile il controllo mafioso del territorio”.(
17
)
Furono colpiti professionisti, sindaci e grossi gabellotti. Lo stesso Vito
Cascio Ferro, il patriarca noto per il caso Petrosino, non sfuggì a una lunga pena
detentiva. Alcuni dei principali boss riemergeranno poi nel dopoguerra (Vizzini,
Genco Russo e Volpe), molti fuggiranno negli Stati Uniti e altri, infine, non
troveranno eredi.(
18
)
Con i poteri quasi dittatoriali di cui disponeva, il prefetto Mori procedette
all’arresto di migliaia di malavitosi. Allo stesso tempo, tra comizi e
manifestazioni di propaganda nelle piazze e nelle scuole “inaugurò la pratica di
mobilitare l’opinione pubblica e soprattutto i giovani nell’impegno antimafia”(
19
).
Sotto la spinta dei successi, il prefetto si circondò di notabili mafiosi, aristocratici
e gabellotti che gli offrirono la loro collaborazione. A Frizzi, il grande gabellotto
Epifanio Gristina fu tra i primi caporioni del fascismo locale. “Mori e il fascismo
ebbero così modo di usufruire di un’ondata di dolente trasformismo ovvero di una
crescente corrente di pentiti per convenienza e necessità”.(
20
)
Nel luglio 1937 la confessione resa dal medico militare Melchiorre Allegra,
uomo d’onore di Castelvetrano, assume particolare rilevanza in quanto fornisce,
nel corso di un voluminoso verbale, un’accurata descrizione dell’associazione
“che era proprio quella che in Sicilia si chiamava “mafia” da molti conosciuta in
maniera, però, assai vaga perché nessuno, tolti quelli che vi appartenevano,
potevano con sicurezza attestarne l’esistenza”. Allegra rivelò che il mafioso e suo
amico Giulio D’Agate, dopo averlo invitato in un magazzino di agrumi, gli
17
Renda Storia della Mafia. Come. dove, quando, Sigma Edizioni, Palermo, 1997, pag. 225. A
riguardo scrive lo storico S. Lupo: «Tra eccessi terroristici, condanne di innocenti, persecuzioni
politiche, il questore Mori e l’inquisitore Giampietro incontrano e battono duramente la mafia»
(Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1996, p. 191).
18
Tra i circa 500 mafiosi fuggiti negli Stati Uniti ritroveremo molti dei futuri capi di Cosa Nostra,
da Joe Bonanno, a Joe Masseria, da Carlo Gambino al trafficante Frank Coppola.
19
G.C. Marino: Storia della Mafia, Newton&Compton editori, Roma, 2000, pag. 130.
20
G.C. Marino: Storia della Mafia, Newton&Compton editori, Roma, 2000, pag. 133.
13
avrebbe tenuto, assieme ad altri mafiosi, un discorso per dimostrargli la stima che
essi avevano nei suoi confronti; questi gli spiegarono che essi appartenevano a
un’associazione molto potente, la quale comprendeva molta gente di tutte le
categorie sociali, e che gli associati erano distribuiti in famiglie, ciascuna
presieduta da un capo. Se la famiglia era molto numerosa veniva a sua volta
distribuita in decine, cioè un gruppo di dieci uomini presieduto da un capo decina.
“A questo punto venni interpellato - prosegue il racconto di Allegra - se accettavo
di far parte della mafia. Io capii che ero già stato messo a parte di troppi segreti,
anche di quelli riguardanti l’attività criminosa, e che non potevo non accettare se
volevo uscire vivo da quella riunione. Quindi accettai, dichiarandomi addirittura
entusiasta dell’offerta che mi si faceva. Di poi si diede luogo al rito”(
21
). Emerse,
quindi, l’esistenza di una vasta organizzazione criminale, con una propria struttura
ordinata gerarchicamente, con proprie norme interne, con specifici rituali
d’iniziazione, giuramenti e con “ramificazioni potenti, non solo in Sicilia, ma
anche in Tunisia, nelle Americhe, in qualche centro del continente e in qualche
altro centro estero”. La sua confessione, fra l’altro, resa prima ai carabinieri di
Castelvetrano e poi alla polizia di Alcamo, venne confermata anche in sede
giudiziaria.
Aldilà, comunque, dell’azione repressiva del prefetto Mori, durante il
ventennio fascista, si celebrarono molti processi grazie alla presenza di testimoni
d’accusa, si susseguirono condanne, ma la gran parte della repressione passò
ancora per provvedimenti di polizia come il confino.
L’aspetto che maggiormente colpisce in tutto questo excursus storico è che i
rapporti tra lo Stato e la Mafia sono stati pervasi da luci ed ombre, anche per la
presenza ed il ruolo di soggetti che, con le loro informazioni/delazioni,
rappresentavano primitive forme di collaborazionismo. Emerge che lo Stato, fin
dalla comparsa delle prime forme di mafia, abbia avuto atteggiamenti alterni, con
forti repressioni da una parte controbilanciati da vere e proprie “dimenticanze”
21
G. Montalbano: Mafia, Politica e Storia, Scuola Tipografica “Boccone del povero”, Palermo,
1982, pag. 145-146.
14
dall’altra. Spesso accadeva che molte delle spiate venivano assunte in sede
processuale come vere e proprie prove, pur rimanendo nell’ambito
dell’anonimato. Emblematiche sono le vicende sopra riportate di rappresentanti
dell’autorità dello Stato che si rivolgono al capomafia o al delatore di turno per
arrestare un latitante o per risolvere, di volta in volta, le controversie che
nascevano.
Possiamo affermare che lo Stato, all’inizio, non ha saputo riconoscere il
fenomeno MAFIA come una vera e propria organizzazione criminale. Allo stesso
modo non ha saputo valutare l’importanza e la valenza del pentitismo.