PREFAZIONE
Da una riflessione di Josè Cassiolato:
“ Il Brasile ha sofferto una lunga crisi economica negli ultimi venticinque anni. Questa
non è una crisi derivante dall’ incapacità tecnica, perché già abbiamo fatto molto
progresso senza avere un’elevata conoscenza economica e tecnologica. Non è una crisi
dovuta al caos internazionale, perché abbiamo raggiunto un livello di sviluppo in un
mondo in preda alle depressioni e alle guerre. Non è una crisi di governabilità, perché
lo sviluppo nasce in un’epoca piena di conflitti e di antagonismo politico.
Questa è una crisi di “fede”; di mancanza di comprensione nella capacità di intendere
i problemi e di capire come è possibile risolverli, anche se le decisioni possono essere
in contrasto con quelle usualmente intraprese o accettate.
Oggi, la mancanza di fede in noi stessi dipende dal basso livello di autostima del
popolo brasiliano. Questa si è perduta negli ultimi quindici anni per cause di natura sia
economica che sociale, per l’inefficacia di politiche neoliberali che non sono state in
grado di promuovere l’espansione del lavoro e della spesa sociale.
Il basso livello di autostima raggiunto, non ci sarebbe stato se il Paese non avesse
perduto, con il passare del tempo, parte della sua identità culturale. I valori culturali e
le caratteristiche sociali proprie di ogni popolo, da un certo momento in poi non sono
state più rispettate da quei Paesi che già da tempo dominavano la scena internazionale.
L’influenza estera, soprattutto quella di Stati Uniti e Europa, tra la fine degli anni venti
e gli anni sessanta ha invaso l’intero paese sudamericano, sopprimendo le radici
culturali locali considerate ormai troppo lontane dal modello di sviluppo occidentale.
Cosi, le differenze culturali del popolo brasiliano venivano viste come deviazioni “di
carattere”, come una sorta di “arcaismo istituzionale”, di “clientelismo politico”, di
“mancanza di civiltà” o addirittura come sinonimo di “uomini dalla ragione non
sviluppata”.
L’appellativo di “inferiore” proviene dalla cultura attuale, quella che definisce le
differenze culturali in “superiore” e “inferiore”, senza rendersi conto che in realtà si
tratta solo di diversità. E’ la vulnerabilità ideologica del popolo brasiliano che fa
abbassare ancora di più il livello di autostima.
La vulnerabilità ideologica è causata dalla valorizzazione delle referenze straniere
rispetto quelle nazionali, cosi che la soluzione ai problemi del sottosviluppo viene vista
dai politici ed intellettuali in modelli stranieri.
Oggi però le cose sembrano cambiate; non si guarda più solo all’“estero”, ma si
guarda in noi stessi e la scoperta di essere diversi da quel modello occidentale esterno
non significa essere peggio. Questo cambiamento è frutto del movimento modernista e
del pensiero di grandi personaggi come Sèrgio Buarque o Gilberto Freire che hanno
contribuito ad accrescere la cultura brasiliana soprattutto quella popolare; non a caso
in questi anni la musica brasiliana è uscita “dal cortile familiare” ed ha iniziato ad
essere suonata nel “teatro municipale”; il samba è divenuto florido e la musica
“capira”
1
ha integrato lo spirito interiore delle grandi città.
L’industrializzazione si potenzia e con essa si eleva la fiducia in noi stessi, nelle nostre
capacità; grandi opere di urbanizzazione e di edilizia hanno preso piede, si
costruiscono nuove città come Brasilia, Capitale Federale e il gioco del calcio è
divenuto il più forte e conosciuto in tutto il mondo; in ogni cosa c’e qualcosa di buono.
Eravamo lontani ormai da quegli anni ’20 dominati dalla dittatura militare che aveva
perseguitato e censurato gran parte degli intellettuali e degli artisti; ma anche dopo che
la democrazia fu restaurata, questa si dimostrò insufficiente ad indicare al popolo la
via del cammino: il potere politico privo di energie si trovò a convivere con una grave e
lunga crisi economica, ci sono stati presidenti che non hanno concluso il loro mandato
ed altri che per mancanza di proposte e progetti hanno soddisfatto la volontà degli
organismi finanziari multilaterali come la Banca Mondiale o il FMI, senza
preoccuparsi delle vere esigenze del popolo.
Eppure questa, ancora oggi, sembra l’unica soluzione possibile anche se diversi autori
brasiliani parlano di soluzioni diverse, come quella di istituire modelli politici-
1
Espressione tipica popolare che significa che gli uomini suonano la musica dei campi, della natura, dell’amore impossibile, della
foresta.
istituzionali importati costruiti apposta per il Paese, che però appaiono privi di
credibilità e garanzie sufficienti.
Al di là di tutto, crediamo che invece ci siano altre soluzioni proprie del nostro Paese
diverse da quelle importate. Innanzitutto è necessario riscoprire la “fede”. A livello
pratico, possiamo pensare che le politiche per gli APL abbiano un “effetto collaterale”
molto positivo; perché si basano principalmente sulla cooperazione tra gli agenti locali
e sulla rete di conoscenza che si sviluppa nel loro interno. Non a caso, secondo la
letteratura teorica, il successo degli APL si fonda su questi due fattori.
In questo modo, con l’esperienza degli APL, possiamo imparare che lo sviluppo
dipende principalmente dalle decisioni prese internamente, che vengono dalle persone
che credono in loro stessi e nella collettività, che si sono organizzate e che cooperano
per il raggiungimento dei benefici comuni. Possiamo imparare che l’agire insieme è
meglio ed è più efficace dell’agire individuale che è motivato solo dall’egoismo;
possiamo imparare che vale molto di più la fede in noi stessi che le esperienze
importate dagli altri paesi.
Il Brasile è un paese con un potenziale enorme; il mercato interno effettivo con le sue
risorse agricole, minerarie ed industriali, unito ad un forte dinamismo culturale, è in
grado facilmente di generare consensi politici e l’ammirazione spontanea di gran parte
del mondo, fattori che insieme rappresentano la fonte di quei ricorsi diplomatici
generatori del successo strategico. Non dimentichiamo che il Brasile è uno dei più
grandi paesi al mondo per territorio, popolazione ed esportazione di valori culturali
quali musica e cinema.
Solo in casi specifici il Paese si potrebbe trovare in situazioni marginali di sviluppo,
perché potenzialmente sono fin troppe le ricchezze di cui esso dispone.
Se si ha un buon livello di autostima, non è possibile pensare a situazioni economiche e
sociali mediocri come quelle avutesi negli ultimi venti anni; perché il raggiungimento
di un obbiettivo simile è dovuto solo dalla combinazione di due fattori, quali fragilità
del paese a livello internazionale e poca fiducia in se stessi.
Il fatto che nei paesi come il Brasile ancora non è presente uno sviluppo paragonabile a
quello delle grandi potenze mondiali, è dipeso anche da una teoria economica che ha
“poco senso della realtà”, che risulta per gran parte subordinata a quella dei paesi
maggiormente industrializzati e che per di più ha un ruolo marginale, priva di consensi
da parte dell’opinione pubblica.
Per questo, prima di studiare “lo sviluppo” occorre studiare la storia e la totalità, per
poi studiarne i particolari e solo per ultimo procedere alla loro unione (soluzione).
Occorre quindi, integrare “lo sviluppo” con la macroeconomia, economia regionale e
scienze sociali, perché l’applicabilità di una teoria nel contesto pratico dipende dalla
qualità del processo di sintesi e dall’analisi critica che ne consegue, in quanto un
“paese sottosviluppato” non è soltanto un oggetto di studio scientifico, ma una
“necessità pratica”.
INTRODUZIONE
“ Se la regola fondamentale del discorso
teorico è l’adeguamento descrittivo o
rappresentativo, la regola fondamentale
del discorso pratico è l’azione,
realizzazione o soddisfazione dei desideri,
necessità e propositi umani. Se ci sono delle
ragioni reali (cause) per le credenze o le
azioni, non dobbiamo confonderci su queste
perché se abbiamo raggiunto la verità,
possiamo raggiungere la soddisfazione ”
Bhaskar (1978)
L’obbiettivo che mi sono posta nella trattazione di questo tema, è cercare di
argomentare lo sviluppo nazionale e regionale di un Paese come il Brasile caratterizzato
da un enorme potenziale di crescita, discutendone con quella libertà e chiarezza in grado
di spiegare le nuove proposte e le politiche governative fino ad ora intraprese. La
necessità di un’analisi empirica fenomenica, come quella degli APLs, richiede allo
stesso momento un processo di sintesi e divisione: il ruolo delle agglomerazioni
produttive, di piccole e medie imprese nello sviluppo nazionale, ha bisogno di essere
affrontato senza restrizioni, perché la ricerca di soluzioni adeguate ad un problema
concreto richiede il rapporto di connessione tra questo e il tutto, analizzato sotto diversi
punti di vista. Queste sembrano delle proposizioni ovvie, che a volte però vengono
sottovalutate sia dagli studiosi di teoria economica quanto dagli operatori pubblici, che
cadono nella tentazione di proteggersi dietro un’analisi meno globale e più specifica,
per non stimolare quegli animi “irrequieti” capaci di sollevare le coscienze popolari e
rompere quel clima di “calma apparente” che domina le masse. In un contesto sociale
profondamente complesso e diversificato, caratterizzato da un sistema di equilibri socio-
economici precario, gli APLs possono avere un ruolo dominante nella prossima tappa
del processo di sviluppo. L’esperienza di alcuni di questi, mostra, infatti, che in alcune
aree del Paese la loro presenza è cosi importante che incide positivamente
13
sull’ambiente politico ed istituzionale: nelle città dove gli APLs supportano per la
maggior parte l’economia locale, le politiche adottate si mostrano più attente ai principi
e agli interessi comuni; là dove la politica è normalmente vista come una lotta fra
interessi contrastanti, nelle aree dominate dagli APLs appare invece orientata al dialogo
e all’unione delle forze sociali; non più fondata nella spaccatura “noi” e “loro”, ma sul
“tutto” o il “nulla”, a dimostrazione di una politica maggiormente repubblicana. Meglio
di chiunque altro, gli APLs sono il simbolo di questa nuova prospettiva, figlia di una
necessità interiore di consenso e di unione che è propria dell’organizzazione produttiva
degli APLs.
Questi sistemi produttivi nascono e vengono sostenuti dal locale, il quale è capace di
costituire i giusti punti di forza che poi generano vantaggi competitivi. Questi ultimi,
uniti all’azione cooperata degli agenti e alla maggiore facilità di manovra nelle azioni,
data dal perfezionamento tecnico e commerciale, favoriscono la formazione di un
processo di localizzazione maggiormente proporzionato; dove, per loro fortuna, le
piccole e medie imprese residenti in quel particolare territorio, riescono ad essere più
capaci di altre nella competizione internazionale, facendone di questa uno “star
system”. Le agglomerazioni di imprese che favoriscono la formazione di attività
cooperative e processi di diffusione di conoscenza, riscuotono maggiori vantaggi sia in
termini di sviluppo nazionale che regionale; lo sviluppo dell’area di insediamento
necessita della collaborazione di enti ed istituzioni locali, sia governative che non, per la
formazione di progetti ad alto contenuto partecipativo; oltre a questo, però, il successo
delle azioni intraprese e il raggiungimento degli obbiettivi preposti, dipendono dal
livello di prosperità del Brasile, dagli interessi e dal futuro del Paese. Ecco quindi che
affinché tutto questo sia possibile, occorre potenziare lo sviluppo degli APLs non solo
da un punto di vista tecnologico e produttivo, ma occorre convincere l’ideologia liberale
delle grandi imprese e delle multinazionali che oggi padroneggiano il contesto
economico-finanziario globale, a dare più spazio e maggiore autonomia al “locale”, nel
rispetto delle sue potenzialità economiche e della fitta rete di integrazioni social-
economiche-istituzionali che lo definiscono; e se pur ci si sta muovendo in tale
direzione, la strada da percorrere è ancora lunga tanto da costituire una delle maggiori
sfide del Paese.
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CAPITOLO I
Cluster o sistemi locali di produzione e innovazione: identificazione,
caratterizzazione e misure di appoggio.
1.1 Introduzione:
Da alcuni anni si sta sviluppando un dibattito che passa soprattutto attraverso i temi
della teoria dell’impresa, dell’economia industriale e dell’economia regionale sui fattori
che possono spiegare le elevate capacità competitive e di sviluppo mostrate da certi
insiemi d’imprese di non grandi dimensioni e territorialmente concentrate.
2
Una spiegazione anche in termini d’efficienza sembra in contraddizione con la
convinzione secondo cui solo imprese di “grandi” dimensioni possono, in genere,
appropriarsi in pieno dei vantaggi derivanti dalle economie di scala e di sviluppo; e
tuttavia la letteratura economica non è sprovvista di studi e contributi utilizzabili per
sostenere la prima ipotesi.
Dalle considerazioni di A.Smith sulla divisione del lavoro parte una linea di pensiero
che passa poi per A.Marshall, A.Young, fino ad arrivare ad un recente modello proposto
da N.Georgescu Roegan e adatto alle problematiche qui in esame; linea che tende a
dimostrare la possibilità di mettere in relazione certe economie di scala e di sviluppo
non alla dimensione di singole organizzazioni aziendali, ma alla dimensione produttiva
complessiva di sistemi d’imprese diverse, ove sia possibile e si attui un’opportuna
divisione del lavoro fra le stesse imprese.
Contributi più specifici articolano l’analisi ponendo l’attenzione anche sulle peculiarità
socio-territoriali mostrate da certi sistemi d’imprese di non grandi dimensioni. In questo
campo un punto di riferimento interessante può essere costituito dalle poco conosciute
considerazioni di Marshall sui caratteri d’efficienza di distretti industriali inglesi alla
fine del diciannovesimo secolo.
Naturalmente non sarebbero lecite meccaniche trasposizioni dell’analisi marshaliana e
semplicistiche interpretazioni, su questa base, della realtà degli attuali distretti
industriali. Questo sia per la distanza storica geografica degli oggetti trattati, sia per
l’ottica particolare seguita da Marshall che tende, come si è detto, a mettere in rilievo
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soprattutto i caratteri d’efficienza, vale a dire i vantaggi in termini di produttività di cui
godono le imprese che compongono certi distretti industriali.
In ogni caso le penetranti intuizioni che sostanziano queste analisi giustificano, ci pare,
il presente tentativo di riproposizione.
1.2 La concentrazione d’industrie specializzate in località “particolari” secondo
Marshall:
Alla fine del Libro dei “ Principles” si afferma esplicitamente che esempi rilevanti
dell’azione di economie esterne sono offerti da particolari agglomerazioni “ di parecchie
piccole imprese di natura simile”, dove è presente anche il tema della “concentrazione
d’industrie specializzate in località particolari”.
Il motivo di questa ripetuta attenzione può essere individuato nel fatto che il mondo,
parafrasando Newman, sembra a Marshall molto più competitivo di quanto non
implicherebbe una considerazione semplicistica (vale a dire apologetica dei vantaggi
della grande impresa) dei “rendimenti crescenti”; e distretti industriali, come quello
metallurgico di Sheffield, gli offrono esempi clamorosi di sistemi di piccole e medie
imprese altamente competitivi.
3
La riflessione di Marshall si appunta qui sulle interazioni interne ad un sistema
d’imprese (di non grandi dimensioni) spazialmente concentrate, e fra questo e una certa
popolazione, su un territorio d’insediamento (industriale e residenziale) comune e
relativamente ristretto.
Due precisazioni sono a questo punto necessarie: una di carattere “urbanistico” e l’altra
di carattere “settoriale”.
2
Ricordiamo solo due recenti contributi : G. Becattini , “ Dal settore industriale al distretto industriale” e alcune considerazioni su
“ Rivista di economia e politica territoriale”.
3
Si tenga comunque presente che Marshall riconosce che il modello fornito da tali distretti è praticabile solo in presenza di certe
condizioni tecnologiche e di mercato ; dall’ altro non limita le possibilità di sopravvivenza e di efficienza delle piccole e medie
imprese alla loro organizzazione in distretti , anche se questi presentano casi particolarmente importanti.
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1.3 Città manifatturiera e distretto industriale:
Marshall non usa i due termini come sinonimi. La differenza è illustrata in “Industry
and Trade”: “Quasi tutte le regioni industriali si sono accentrate in una o più grandi
città. Da principio ciascuna di tali grandi città è stata alla testa della tecnica
dell’industria come del commercio: e la maggior parte dei suoi abitanti è stata costituita
da artigiani. Dopo un certo tempo, le fabbriche, richiedendo più spazio di quanto si
potesse avere facilmente, dove il valore dei terreni era alto, si spostarono verso i
sobborghi della città; e nuove fabbriche crebbero in numero sempre maggiore nelle
regioni industriali circonvicine e nei paesi minori. Nel frattempo si svilupparono le
funzioni commerciali della città”. Ecco quindi che Marshall intende più precisamente
per distretto industriale “una figura industriale-socio-territoriale” simile a quella che,
recentemente, con riferimento alle modalità tipiche di sviluppo dell’industria leggera, è
stata denominata “campagna urbanizzata”.
La differenza tra “città manifatturiera” e “distretto industriale” risiede allora nel fatto
che la prima ha un’unità amministrativa abbastanza precisa, ha presumibilmente una
certa ricchezza di funzioni terziarie ed è territorialmente molto compatta; nel secondo in
genere i centri amministrativi sono plurimi, le funzioni terziarie spesso ridotte al
minimo, l’insediamento urbano ed industriale più allentato nello spazio.
Va in ogni caso notato che, ad un primo livello, l’analisi dei vantaggi della
“localizzazione dell’industria” procede in Marshall prescindendo dalla distinzione di cui
sopra; e ciò è giustificato dagli oggetti trattati, come si vedrà fra breve; ragion per cui si
può usare, rimanendo ad un certo livello d’astrazione e riferendosi ad un certo tipo di
fenomeni, un termine comune sia a proposito di “ città manifatturiera” che di “distretti
industriali”. Questo termine può essere quello stesso, in un certo senso più generico, di
“distretto industriale”. Qui di seguito sarà adottato quest’uso.
1.4 La specializzazione “settoriale”:
Ad un primo livello, nell’analisi marshaliana, il sistema produttivo di un distretto
industriale risulta caratterizzato da un insieme d’imprese specializzate in un certo
“settore” dell’industria manifatturiera.
4
Questa connotazione “monosettoriale” non
4
Va inoltre notato che in genere Marshall non distingue imprese e stabilimenti : il riferimento è a imprese che hanno sede nello
stesso luogo dell’ unico stabilimento. Questa supposizione è lecita solo nel caso delle piccole e medie imprese ed anche in questo
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deve però trarre in inganno: non si tratta dell’agglomerazione d’imprese
produttivamente identiche. In effetti, l’analisi dei vantaggi dell’agglomerazione in un’“
industria specializzata” si svolge in Marshall, anche se non esplicitamente, a vari livelli
(più o meno presenti nelle configurazioni reali): quello orizzontale, quando si tratta di
imprese poste su una stessa fase di un certo processo produttivo; quello verticale,
quando si tratta di imprese poste su più fasi collegate dallo stesso processo; laterale,
quando le imprese siano specializzate nella produzione di specie diverse di una stessa
classe di prodotti; diagonale, quando sia considerata l’agglomerazione di imprese di tipi
precedenti con imprese ausiliarie, di carattere industriale che di altra natura (imprese di
trasporto, finanziarie ecc.).
La riflessione di Marshall è volta soprattutto ad analizzare i caratteri di efficienza di
distretti “monosettoriale”; ciò costituisce l’oggetto del prossimo paragrafo. Ma non
mancano nei “Principles” e soprattutto in “Industry and Trade”, alcune osservazioni
connesse da una parte allo sviluppo delle grandi città manifatturiere e dei grandi distretti
industriali polisettoriali; dall’altra all’articolazione di aree industriali e commerciali
variamente caratterizzate, ma funzionalmente collegate all’interno di una figura
geografica più vasta, cioè “la regione industriale”.
1.5 Il radicamento socio-territoriale delle economie esterne nei distretti
specializzati della PMI industriale:
L’alto grado di produttività riscontrato nei DI di Lancashire da Marshall in termini di
economie esterne, che costituiscono lo strumento forse più celebre all’interno degli
studi di economia per un ragionamento sull’efficienza industriale in termini di rapporti
di interdipendenza fra imprese.
D’altra parte il concetto di economie esterne, applicato al distretto industriale, richiede
una qualificazione. Questo perché il distretto è un sistema industriale in cui le
connotazioni sociali e territoriali, date dall’agglomerazione delle imprese e dalla
sovrapposizione ad un fitto tessuto urbano, assumono un ruolo determinante ed evidente
nella comprensione della trama di interdipendenze che lega le imprese del sistema
stesso e che ne spiega i caratteri di efficienza.
caso solo fino ad un certo punto. Posto che Marshall concentra qui la sua attenzione prevalentemente sull’ agglomerazione spaziale
di piccole e medie imprese , questa supposizione sarà mantenuta nel seguito del discorso. Ricordiamo , infine , che in Marshall la
piccola impresa è posta in connessione con il “ piccolo imprenditore” che è capitalista , manager , direttore tecnico e commerciale
allo stesso tempo.
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Un concetto appropriato al caso può essere allora quello di economie esterne di
agglomerazione
5
con la quale si indicano le diminuzioni nei costi medi di produzione e
commercializzazione di un’impresa dipendenti, positivamente, dal livello cui è condotta
una certa produzione in un certo luogo. Dove va precisato che:
- Le riduzioni di costo in esame sono causate da aumenti di produttività; cioè non
si prendono in considerazione variazioni di prezzi dei fattori.
- Non si tratta necessariamente di “economie esterne all’impresa e interne
all’industria”, interne cioè all’insieme di imprese che su un certo territorio producono
una stessa “merce”.
- Le economie esterne di agglomerazione in Marshall non possono essere
considerate economie di scala nel senso letterale del termine ,e questo perché essendo
legate non solo a tecniche di produzione ma anche ad un ambiente socio-territoriale
sono caratterizzate da importanti “irreversibilità”.
- Le economie esterne di agglomerazione non sono adoperate per spiegare le
ragioni della formazione del nucleo originario di un distretto. Altri sono gli elementi
ricordati, seppure di sfuggita, da Marshall a tal proposito: condizioni fisiche, climatiche,
podologiche; disponibilità di materia prima, vie di comunicazione, città pre-industriali.
Solo in una fase concettualmente successiva le economie esterne di agglomerazione
potranno intervenire a caratterizzare il consolidamento e lo sviluppo del distretto.
L’analisi di Marshall può essere divisa in tre punti riguardanti: i vantaggi della
specializzazione, le economie di intermediazione, l’atmosfera industriale.
5
Il termine di “ economie di agglomerazione” risale al saggio di A. Weber , Theory of the location of industries , 1929. Weber
non parla di economie esterne , anche se la sua analisi sull’ agglomerazione sociale , che è data dalla stretta associazione di parecchi
stabilimenti , può certamente essere vista in termini del concetto di economie esterne di agglomerazione. Marshall non parla di tali
economie , ma si tratta solo di una questione terminologica , visto che la sua analisi di economie esterne , che si ottengono dalla
concentrazione di industrie specializzate in località particolari , è sicuramente riconducibile al concetto sopraindicato.
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1.6 Divisione del lavoro fra imprese ed agglomerazione:
Le economie esterne, ove si verifichino certe condizioni tecniche, permettono a un
sistema di imprese di non grandi dimensioni di godere dei vantaggi della produzione su
larga scala connessi alla prima utilizzazione di risorse specializzate. In effetti un sistema
integrato di imprese può acquisire tali economie di scala, ove il processo di produzione
sia “scomponibile” e le sue componenti siano opportunamente divise fra le imprese del
sistema stesso.
Le imprese di un sistema di tal genere possono trovarsi , almeno in parte, agglomerate
in particolari località; in queste si può dire quindi che “l’industria” gode dei vantaggi
della specializzazione.
Quello ora messo in evidenza è un elemento fondamentale nell’interpretazione dei
possibili caratteri di efficienza del sistema industriale di un distretto; ma non ci spiega
quali siano i vantaggi di una configurazione territorialmente concentrata di tale sistema.
Si potrebbe affermare che siamo nel campo delle economie esterne; ma non in quello
delle economie esterne di agglomerazione.
In “The Pure Theory” Marshall sembra essere dell’idea che la “disintegrazione” della
produzione in imprese diverse, possa conservare i vantaggi della larga scala solo se il
sistema di imprese mantiene la caratteristica della concentrazione spaziale propria, ed
anzi espressa al massimo grado, dalla grande impresa integrata: l’accento è posto
decisamente sulla “ vicinanza”. Ma non viene esplicitata la funzione della vicinanza: si
potrebbe pensare al contenimento dei costi di trasporto dei semilavorati. Nessuna
conferma si trova tuttavia nell’opera. Parlando in generale si può affermare che una
riduzione delle tariffe o dei noli del trasporto delle merci tende a far sì che ogni località
acquisti in più larga misura ad una certa distanza le cose di cui abbisogna, tendendo cosi
a concentrare industrie particolari in speciali località. E cioè, la diminuzione dei costi
unitari di trasporto favorisce i processi di specializzazione spaziale. Ma questo vuol dire
fra l’altro che fasi successive di un processo di produzione potranno essere svolte
convenientemente su larga scala (in fasi diverse); e quindi , d’altra parte, per spiegare
l’agglomerazione in una stessa area di fasi e componenti successive svolte su larga scala
(in quanto specializzate) problematico diventa il ricorso alla necessità di un
contenimento dei costi di trasporto dei semilavorati da una fase all’altra.
A dire il vero questo ragionamento vale pienamente solo se si ipotizzano sistemi di
trasporto non differenziati ed un’accessibilità uniforma sul territorio considerato.
Marshall però non approfondisce questo argomento. Rimane il fatto che l’esigenza di