4
esse negli anni ’50 furono protagoniste di operazioni di
ammodernamento e di propulsione dell’economia italiana
(piano siderurgico, ENI
1
) , non si può certo dire che
contribuirono mai ad indirizzare verso obiettivi
pubblicamente definiti lo sviluppo economico italiano
globalmente inteso.
Scelte politiche di ordine interno e opzioni di
politica internazionale contribuirono, incontrandosi, a
creare il quadro di riferimento in parte vecchio e in parte
nuovo, allo sviluppo “spontaneo” delle forze produttive
capitalistiche nel dopoguerra. La liberalizzazione del
commercio internazionale guidata dagli Stati Uniti (di cui
Bretton Woods
2
, Piano Marshall
3
, liberalizzazione degli
scambi in sede OECE
4
, sono alcune delle prime tappe,
tutte concatenate) e la particolare situazione del mercato
del lavoro caratterizzata da un’ampia disponibilità di
mano d’opera per le imprese industriali a causa degli
squilibri e dei dualismi storici dell’economia italiana ed in
primo luogo dell’esistenza di un settore agricolo molto
esteso ed a scarsa produttività furono gli elementi, pur non
unici e da intendere e valutare nel loro stretto rapporto,
1
Ente Nazionale Idrocarburi, fondato nel 1953.
2
A Bretton Woods, località del New Hampshire (USA), si
svolse, nel 1944, la Conferenza che portò alla creazione della Banca
Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale.
3
Piano statunitense per la ricostruzione dell'Europa dopo la
seconda guerra mondiale che prende il nome dal Segretario di Stato
George Marshall.
4
Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea,
istituita il 16 aprile 1948 come organizzazione permanente destinata a
controllare la distribuzione degli aiuti americani del Piano Marshall.
5
che permisero all’Italia di raggiungere tassi di sviluppo tra
i più alti dell’occidente
5
.
Tra l’espansione delle esportazioni italiane e i bassi
livelli salariali (relativamente ai paesi concorrenti) vi è
infatti la stessa relazione che esiste tra il generale aumento
degli scambi tra i paesi industrializzati determinatosi
proprio in seguito all’apertura delle frontiere e il basso
costo relativo delle materie prime, che rappresenta
un’altra novità centrale dell’economia del secondo
dopoguerra. Senza la liberalizzazione degli scambi il
basso potere d’acquisto dei paesi produttori di materie
prime avrebbe rappresentato un freno allo sviluppo
dell’industria occidentale
6
. D’altra parte il basso costo
delle materie prime è un fattore fondamentale che
permette più alti livelli di accumulazione. Così per l’Italia
la grande dilatazione delle possibilità di esportazione (non
dovuta, come vedremo, solo al liberoscambismo in sé)
compensa la scarsità della domanda interna e i bassi salari
consentono la conquista di ampi spazi di competitività.
Se la sintetica considerazione storica degli elementi
e del contesto fondamentale in cui prende avvio la crescita
economica del dopoguerra non appare sufficiente a fornire
giudizi tassativi, si può ricorrere ad alcuni dati empirici
che derivano da studi “ex post” sulle caratteristiche dello
sviluppo produttivo italiano. Da alcune ricerche analitiche
risulta dunque innanzitutto che i tassi di crescita registrati
non derivano tanto dalla estensione della base produttiva,
5
Cfr. M. D’Antonio, “Sviluppo e crisi del capitalismo
italiano 1951-1972”, De Donato, 1973, pp.177-192.
6
Cfr. A. Shonfield, “Il capitalismo moderno”, Etas Kompas,
1965, pp.29-34.
6
quanto dalla maggiore produttività di quella esistente
7
. Un
altro dato da porre in rilevo è come in Italia, rispetto al
tasso di sviluppo del PNL
8
degli anni ’50, ha avuto luogo
un tasso di investimenti particolarmente basso, tra i più
bassi del mondo occidentale, come risulta dalla seguente
tabella
9
:
paese
Investimento
in % del PNL
Coefficiente marginale
di capitale*
Tasso di
crescita
Medie annuali dal 1950 al 1960
Belgio
Danimarca
Francia
Germania
Italia
Paesi Bassi
Norvegia
Svezia
Regno Unito
Canada
Stati Uniti
16,5
18,1
19,1
24
20,8
24,2
26,4
21,3
15,4
24,8
19,1
5,7
5,5
4,3
3,2
3,5
5
7,5
6,5
5,9
6,4
5,8
2,5
5
4,2
5,9
6,7
3,9
3,4
4
2,1
1,8
2,3
*Rapporto tra il tasso di investimento espresso in percentuale
del PNL e il tasso di sviluppo della produzione totale
Se queste risultanze sono considerate assieme, se ne
ricava che l’aumento del tasso di sviluppo e della
produttività saranno dunque dati in maniera prevalente o
7
Cfr. G. Are, “Industria e politica in Italia”, Laterza, pp.28-
29.
8
Il PNL (Prodotto nazionale lordo) si ottiene dal PIL
(Prodotto Interno Lordo) aggiungendovi il reddito percepito da
soggetti residenti nel paese per investimenti all’estero e sottraendovi il
reddito percepito nel paese da soggetti non residenti.
9
M.Niveau, “Storia dei fatti economici contemporanei”,
Mursia 1972, p. 342.
7
da una più efficiente organizzazione del lavoro aziendale
o da un aumento del costo del lavoro (nella sua parte
salario) minore dell’aumento della produttività, sempre
relativamente ai paesi concorrenti. Ora, mentre il primo
fattore è presente da un certo momento in poi (seconda
metà degli anni cinquanta), il secondo è una caratteristica
costante per tutto il periodo dello sviluppo accelerato.
Il fatto che le esportazioni siano state il settore
trainante della crescita economica italiana non significa
che esse furono sufficienti ad apportare avanzi negli
scambi con l’estero: la bilancia commerciale fu infatti
sempre o quasi sempre passiva
10
. Turismo ed esportazione
di forza lavoro (emigrazione) sono stati i comparti decisivi
del saldo delle partite correnti. Ciò dunque vuol dire che,
per questo verso, gli effetti positivi derivanti dai settori
trainanti e dotati di competitività internazionale furono
minori degli effetti negativi derivanti dalla permanenza di
settori arretrati, marginali e con scarsa produttività.
Il tipo di sviluppo italiano del dopoguerra non si
basava solo sulla divaricazione delle distanze tra industria
e agricoltura e tra parte e parte del territorio nazionale, ma
suscitava e approfondiva squilibri e dualismi anche
all’interno della struttura industriale, relativamente alla
aggiornamento tecnologico e alla composizione
merceologica. In questo quadro si delinea meglio la
posizione assunta dall’Italia nella divisione internazionale
10
Cfr. “La politica economica italiana 1945-1975.
Orientamenti e proposte dei comunisti.”, pubblicazione a cura del
Partito Comunista Italiano, 1975, in particolare le tabelle allegate.
Secondo questa pubblicazione i deficit risultano variare da un minimo
di 63 miliardi di lire (1968) ad un massimo di 6931 miliardi (1974).
M. D’Antonio, cit. tabella a p. 202, riporta invece le medie degli
avanzi commerciali dei periodi 1964-1967 e 1968-1972.
8
del lavoro. Le industrie che “tirano”, le industrie
esportatrici, si rivolgono a mercati di paesi che non solo
hanno raggiunto un livello di industrializzazione superiore
a quello italiano, ma che, in molti casi, beneficiano delle
politiche di dilatazione della spesa pubblica e dei livelli di
consumo interno
11
. In questi mercati in forte sviluppo
l’Italia trova spazi di competitività. E lo fa producendo
beni di consumo adeguati a quei livelli di vita e cioè beni
di consumo durevoli e voluttuari e con rami d’industria a
livello medio di innovazione tecnologica, meccanico,
trasporti ecc. L’Italia si inserisce così nel campo di quei
consumi e di quelle produzioni che costituiscono, nel
dopoguerra, il fattore propulsivo di tutto il sistema
capitalistico nel suo insieme. A questo proposito è forse
opportuno introdurre sin d’ora elementi di indagine
sociologica sul contenuto e sui limiti che un tale tipo di
sviluppo possiede (cioè sulla “società dei consumi”),
dando una definizione, non valutativa, di cosa significa
affermare che l’Italia ha avuto uno sviluppo “distorto”,
espressione ricorrente nei critici di tale sviluppo. Si può
dire che tale sviluppo è risultato “distorto”
sostanzialmente da due punti di vista: per le non
sufficienti autonomia e forza (rispetto alle possibilità) nel
campo del soddisfacimento dei bisogni “primari” , nel
senso che vengono “prima” di altri, come l’alimentazione,
le abitazioni, l’istruzione e per lo scarso possesso degli
strumenti culturali e tecnici che permettono di avviare
processi di ammodernamento e di conversione produttiva
al servizio di piani di sviluppo nazionale.
La crescita italiana presentava comunque, più
direttamente, alcuni squilibri più fondamentali ed alcune
11
Cfr. M. D’Antonio, cit., pp.177-192
9
più intime contraddizioni. Un’espansione del mercato
interno, anche solo per le ripercussioni che sui salari
avrebbero avuto le modificazioni nel mercato del lavoro
dovuto allo sviluppo delle industrie esportatrici, non
avrebbe dilatato a sufficienza la domanda di beni di
consumo durevoli, più adatti a società con standard di
vita più elevati. Essa avrebbe d’altro canto causato
fenomeni inflazionistici e squilibri con l’estero proprio per
la ristrettezza e la scarsa produttività dei settori collocati
in una posizione marginale, come l’agricoltura e l’edilizia.
Queste contraddizioni e questi effetti esplosero in effetti in
virtù dell’intervento soggettivo della classe operaia che,
con i rinnovi contrattuali del 1962 e poi di nuovo con
quelli del 1969, impose aumenti salariali superiori
all’aumento della produttività
12
. Segni nella stessa
direzione si erano avuti peraltro anche antecedentemente
al 1962, proprio a causa del raggiungimento di uno stato
di quasi piena occupazione e della conformazione
qualitativa del mercato del lavoro in Italia. In quelle
occasioni, il ricorso ad una politica monetaria restrittiva e
alla deflazione corrispose alla volontà di rilanciare il
meccanismo esistente senza considerarne gli squilibri
interni. Lo strumento deflazionistico era in altri paesi da
tempo sottoposto a critica per la sua inadeguatezza di
fronte alle novità dell’economia moderna: rigidità verso il
basso del costo del lavoro anche in fase recessiva, troppo
elevata depressione della domanda interna, maggiore
incidenza dei costi fissi e quindi aumento dei costi per
unità di prodotto in presenza di una diminuzione della
produzione. In Italia la particolare insistenza sull’uso di
12
L.Barca, “Gli anni sessanta: alle origini della crisi”, in
“Critica Marxista”, n.6/1974, in particolare pp. 9-15.
10
questo strumento ha però una precisa corrispondenza con
il suo modello economico specifico e con il ruolo che in
esso hanno le esportazioni. La deflazione infatti dovrebbe
deprimere i costi interni, riportare su livelli più accettabili
i salari e favorire così nuovi margini di competitività
all’estero.
E’ evidente, comunque, che agendo nel modo
appena richiamato, non si torna semplicemente al punto di
partenza, ma le contraddizioni tendono a riformarsi a
livello più alto. E difatti la crescita degli anni successivi
al 1964 mostra segni di accentuazione delle caratteristiche
peculiari dello sviluppo precedente: nel biennio 1964-
1965 la domanda estera contribuì all’aumento della
domanda complessiva addirittura nella misura del 92,5%,
rispetto al 23% del 1959-1962, per poi mantenersi su
livelli superiori anche negli anni 1966-1968 (27,5%)
13
. Gli
investimenti, già modesti negli anni cinquanta, rispetto
alla crescita del Reddito nazionale lordo, flettono
ulteriormente passando dal 20,1% del reddito nel periodo
1954-1958 e dal 22,2% nel periodo 1959-1963, al 19,5%
tra il 1964 e il 1968
14
. Il risultato di tutto questo è una
riduzione del tasso di sviluppo, che passa da una media
annua pari al 5,8% del RNL nel periodo 1951-1963, con
una punta massima del periodo pari al 8,3% nel 1963, ad
una media annua del 4,8% nel periodo 1964-1967
15.
I dati macroeconomici confermavano dunque
l’affiorare di mutamenti irreversibili nella struttura
economica italiana, che affievolivano l’elemento che fino
13
A. Salsano, “Il neocapitalismo. Progetti e ideologie”, in
“Storia d’Italia”, Einaudi, 1973, vol.5°, tomo 1°, p.897.
14
Vedi nota n.8
15
Cfr. M.D’Antonio, cit., tabella a pag. 154