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Electric, capiscono che le imprese, con le loro azioni, influenzano non soltanto gli
azionisti, ma anche la vita dei loro dipendenti, dei clienti e più in generale della
società in cui operano; risale al 1947 il primo codice etico d’impresa (da parte di
Johnson & Johnson).
Negli anni a cavallo tra il 1960 ed il 1980 la caduta dei profitti nei Paesi
industrializzati induce le imprese ad azionare strategie fortemente aggressive
attraverso l’avvio di speculazioni borsistico-finanziarie e la delocalizzazione
produttiva in mercati a basso costo e livello di regolazione/controllo al fine di
recuperare quote di mercato e controbilanciare le perdite. Le conseguenze di
questa nuova fase si traducono in una moltiplicazione di scandali finanziari, di
pratiche illegali (spesso anche disumane) nella gestione del personale e di danni
all’ambiente naturale.
Sia negli Stati Uniti che in Europa nel corso degli anni ’80, e soprattutto degli
anni ’90, emergono i limiti di tale impostazione, che non soltanto provoca danni
economici alle imprese, ma è sempre meno tollerata dai consumatori, che
nell’ottica della cittadinanza responsabile valutano anche socialmente i prodotti
offerti sul mercato. Le polemiche legate all’utilizzo del lavoro minorile, le
denunce di manipolazione transgenica, gli abusi di posizione dominante nei
confronti dei dipendenti, dei concorrenti e dei fornitori hanno creato seri danni
alla «brand equality» delle imprese colpevoli, con conseguenti ricadute negative
in termini di immagine e di profitto. Le degenerazioni accennate hanno indotto,
quindi, ad una riflessione profonda sull’importanza che la responsabilità sociale
assume nel governo delle aziende: indebolitasi l’idea che la logica d’impresa non
sia rappresentata dalla democrazia, ma dalla produzione di ricchezza, oggi sembra
ormai accertato che le organizzazioni più efficienti sono quelle con i dipendenti
meno infelici ed il clima più partecipativo
4
. Contemporaneamente, le aziende
statunitense saranno le prime a porsi il problema della valorizzazione e della
retention dei propri talenti, i quali appartengono a razze, religioni e background
diversi, introducendo così le basi del Diversity Management; il concetto alla base
del DM era, ed è tutt’ oggi, che un'azienda "multiculturale" possiede molta più
ricchezza, in termini di potenziale umano, di un'azienda "monoculturale".
Vi è stato poi un elemento ulteriore che ha favorito la diffusione della CSR,
soprattutto in Europa: infatti, negli anni ’90 il vecchio Continente si è
4
De Masi D., Il futuro del lavoro, Rizzoli, Milano, 1999
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caratterizzato di complessi fenomeni che portarono a profondi cambiamenti nelle
modalità di organizzazione e funzionamento delle aziende: la tendenza verso la
privatizzazione delle decisioni economiche rilevanti, ed al contempo la crisi del
modello classico di welfare state favorirono ulteriormente una
responsabilizzazione delle imprese rispetto alle questioni sociali emergenti.
Si iniziò, così, verso la fine degli anni ’90, a considerare il capitale umano
quale valore specifico e irripetibile di ciascuna impresa. Da questa consapevolezza
derivò l’incertezza di quale fosse la strategia orientata alla implementazione di un
set di politiche e di meccanismi di gestione del capitale umano; il dilemma, che
trovò soluzione nella valorizzazione del potenziale e delle attitudini detenute dalle
persone, faceva leva sulla loro motivazione e fu denominato ˝Putting people first˝,
in cu, più che mai, il Diversity Management e il CSR, risultarono essere una
strategia vincente, in questo senso.
L'efficace gestione delle risorse umane diventò negli anni un punto
fondamentale per la creazione di un reale e duraturo vantaggio competitivo del
successo della comunicazione organizzativa: in questo senso, è oggi cruciale per
le imprese, limitare da un lato il turn over al livello fisiologico - soprattutto per
alcune fasce critiche di lavoratori - al fine di consolidare l'apprendimento
organizzativo; dall'altro, identificare nuove modalità per sostenere le motivazioni
dei propri collaboratori e raccoglierne l'impegno e il consenso verso i valori e le
strategie aziendali.
Nell’epoca della globalizzazione dei mercati, del consumismo di massa, della
disoccupazione strutturale e della crisi dello stato sociale, infatti, non si può
eludere il tema dell’occupabilità di qualità, pena il rischio di uno squilibrio tra
capitale e lavoro, in termini economici (ossia di reddito) e sociali (ossia di status,
opportunità e diritti positivi); si rischia, come dimostrano molte realtà economiche
odierne (in particolar modo quelle dei nuovi paesi emergenti, soprattutto
dell’estremo Oriente e del Sud America), una crescita squilibrata, con situazioni di
crescente disagio (assoluto e relativo) per larghe fasce di popolazione. Uno
sviluppo sostenibile ed equilibrato nasce dalla capacità delle imprese di assumere
comportamenti etici, ridefinendo i rapporti con il mondo del lavoro su basi nuove,
che consentano all’azienda di perseguire maggiore qualità del prodotto e maggiori
profitti, ed ai lavoratori di vivere un ambiente di lavoro stimolante e rispettoso.
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Ad oggi, nonostante si siano fatti importanti passi in avanti per integrare e,
contemporaneamente, tutelare le persone affette da disabilità che vogliono trovare
una propria collocazione all’interno del contesto lavorativo, il binomio azienda-
disabile trova ancora notevoli difficoltà d’esistenza, sia dal punto di vista
legislativo, che dal punto di vista applicativo.
Il lavoro, intitolato “Comunicazione organizzativa e Dyversity Management.
L’inserimento mirato del disabile nel contesto aziendale” è stato realizzato al fine
di presentare, in un unico testo, tutta la documentazione in riferimento al binomio
azienda-disabile e opportunatamente argomentato. Pertanto, il progetto si presenta
organizzato in quattro sezioni.
Nella Prima Parte, dopo una attenta spiegazione di cosa sia il Dyversity
Management e quale sia stato il suo excursus storico, si è voluto far chiarezza sul
tema della disabilità, delineandone i punti cardine in relazione al caotico mondo
che contraddistingue l’assistenza in Italia, quali la valutazione e l’accertamento
della stessa, concentrandosi sull’entità numerica del fenomeno, attraverso una
precisa analisi dei dati ISTAT a riguardo.
La Seconda Parte è dedicata alle politiche d’inclusione dei disabili nelle
organizzazioni italiane, analizzate dal punto di vista normativo: nel tentativo di
rendere un quadro normativo italiano il più possibile chiarificatorio (esiste ancora
molta confusione riguardo al tema sulla disabilità legata al contesto organizzativo:
difatti, non è possibile, sia per il pubblico che per il privato, potersi orientare
adeguatamente in tale contesto) si è scelto di operare su due livelli: nel primo si è
voluto allargare il contesto di riferimento e di analizzare come il binomio azienda-
disabile venga affrontato a livello europeo e, dunque, come i vari Paesi della
Comunità, in modo tale, così, da riportare un quadro completo del fenomeno e
metterlo a confronto con le applicazioni italiane; il contesto italiano, difatti, è
stato affrontato in un secondo momento, effettuando un’analisi precisa e puntuale
dei contenuti della Legge 68/99, definita «Norme per il diritto al lavoro dei
disabili», così da poterne contestualizzare i contenuti.
La Terza Parte è, invece, dedicata sempre alle politiche d’inclusione dei
disabili nelle organizzazioni italiane, ma in questo caso sono prese in esame dal
punto di vista organizzativo: la sezione si apre con un’analisi teorica
dell’evoluzione dei mercati organizzativi e di come si presenta oggi il mercato del
lavoro a livello organizzativo – prendendo, dunque, in considerazione tematiche
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quali comunicazione organizzativa, comunicazione interna, la Responsabilità
Sociale d’Impresa -, per poter poi affrontare una teorizzazione il più possibile
puntuale dell’inserimento mirato del disabile nel contesto aziendale.
Nella sezione finale si è voluto riportare un esempio pratico dei concetti quali
etica d’impresa ed etica del lavoro attraverso il racconto di due esperienze
progettuali realizzate dall’Associazione Anima nel contesto romano, denominate
Progetto “Fuoriserie” e Progetto “Polo per l’inclusione sociale”; i suddetti lavori,
che per modalità di conduzione ed obiettivi posti rappresentano dei casi eccellenti
di inclusione mirata del disabile nell’ambito lavorativo, sono in grado di restituire
una concretizzazione effettiva del concetto di CSR, con particolare attenzione alla
triangolazione tra istituzioni, no profit ed imprese, declinata soprattutto in ambito
sociale, a sostegno di alcune fasce deboli della società (nel caso di specie, disabili
mentali).
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1 – DIVERSITY MANAGEMENT E DISABILITA’
1.1 Il Diversity management
Con il termine Diversity Management si intende «la valorizzazione delle
differenze»
5
o, meglio, «quel campo di studi che si interroga circa le diversità
individuali e la loro gestione manageriale»
6
.
1.1.1 Origini del Diversity management e l’evoluzione nella gestione delle
organizzazioni
La teoria del Diversity Management, di provenienza nordamericana e
anglossassone, nasce negli anni Settanta come modalità gestionale orientata a
conoscere e valorizzare, traendone beneficio, le differenze individuali che esistono
all’interno delle organizzazioni
7
; ma è solo nei primi anni novanta, negli Stati
Uniti, che trova un vero e proprio sviluppo: le aziende statunitense saranno le
prime a porsi il problema della valorizzazione e della retention dei propri talenti, i
quali appartengono a razze, religioni e background diversi. Il concetto alla base
del Diversity Management era, ed è tutt’oggi, che un'azienda "multiculturale"
possiede molta più ricchezza, in termini di potenziale umano, di un'azienda
"monoculturale".
5
www.executivesurf.com
6
Bombelli M.C., Finzi E., Oltre il collocamento obbligatorio. Valorizzazione professionale delle persone con
disabilità e produttività nel mondo del lavoro, Guerini e Associati, 2008
7
molteplici sono le definizioni disponibili di “diversity” (diversità) e di “gestione delle diversità” in un’ottica
di valorizzazione (diversity management) e non sempre le interpretazioni sono univoche. Il significato
attribuito allo stesso termine “diversità” oscilla dal rappresentare un tratto identitario sovraindividuale, che
connota un gruppo specifico (le donne, le minoranze etniche, i disabili, ecc.), all’essere un attributo
squisitamente individuale (in termini di genere, età, nazionalità, etnia, formazione, esperienza professionale,
comportamenti, atteggiamento verso il lavoro, potenzialità, apporto di contributo, ecc.). Gestire la diversità
significa riconoscere la disomogeneità e legittimare il valore della differenza non solo nei prodotti o nei
clienti, ma anche nelle persone che lavorano in un certo contesto organizzativo; significa, dunque, ottimizzare
la relazione tra risorse umane e organizzazione, dando alle persone la possibilità di esprimere le proprie
esigenze soggettive; in altri termini, progettare strumenti di gestione che consentano di accogliere le diversità
compatibili con l’organizzazione
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Nel corso degli anni '90 lo scenario competitivo si caratterizzò di complessi
fenomeni che portarono a profondi cambiamenti nelle modalità di organizzazione
e funzionamento delle aziende: l'aumento della competizione, la corsa
all'innovazione tecnologica, l'intensificazione dei processi di fusione e di
integrazione, la progressiva caduta dei tradizionali confini geografici e di settore,
la diversificazione delle esigenze e dei bisogni della clientela, il passaggio dalle
logiche di prodotto a quelle di servizio, sono solo alcuni dei fattori che portarono
le organizzazioni ad intraprendere importanti processi di cambiamento. Processi
che furono di natura differente, ma che guidarono il cambiamento verso un unico
modello organizzativo: un modello centrato sull'individuo, sulla persona come
fattore chiave per il suo successo competitivo. Dunque, il primo punto
determinante l’instaurazione del Diversity Management all’interno delle aziende
fu la spinta verso il cambiamento, con ha lo scopo di valorizzare e utilizzare
pienamente il contributo, unico, che ciascun dipendente può portare per il
raggiungimento degli obiettivi aziendali, e utile ad attrezzare al meglio
l'organizzazione di fronte alle sfide e all'incertezza provenienti dal mercato. La
seconda conseguenza, che seguì quasi immediatamente, fu la possibilità, per il
lavoratore, di sviluppare e applicare, all'interno dell'organizzazione, uno spettro
ampio e integrato di abilità e comportamenti che riflettono il suo genere, la sua
razza, la sua nazionalità, l'età, il background e l'esperienza
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.
Si iniziò, così, verso la fine degli anni ’90, a considerare il capitale umano
quale valore specifico e irripetibile di ciascuna impresa. Da questa consapevolezza
derivò l’incertezza di quale fosse la strategia orientata alla implementazione di un
set di politiche e di meccanismi di gestione del capitale umano; il dilemma, che
trovò soluzione nella valorizzazione del potenziale e delle attitudini detenute dalle
persone, faceva leva sulla loro motivazione e fu denominato ˝Putting people
first˝
9
, in cu, più che mai, il Diversity Management risultò essere una strategia
vincente, in questo senso.
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la competenza manageriale, individuale e organizzativa, che permette di realizzare un'efficace gestione delle
diversità può svilupparsi se viene a cadere il riferimento ad un unico paradigma di pensiero e di
comportamento, e sono contemporaneamente presenti e riconosciute qualità e orientamenti diversi.
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si distinguono due macro-categorie di differenze: 1) diversità primarie, sono quelle che fanno riferimento ad
elementi quali l'età, il genere, l'origine etnica, le competenze/caratteristiche mentali, che fanno parte di un
patrimonio innato dell'individuo e che non possono essere modificate; 2) diversità secondarie, fanno
riferimento, invece, ad elementi acquisiti nel tempo come, ad esempio, il background educativo, la situazione
familiare, la localizzazione geografica, il reddito, la religione, il ruolo organizzativo, l'esperienza
professionale. A differenza delle diversità primarie, nelle secondarie tali caratteristiche possono essere
modificate più volte o essere abbandonate nel corso del tempo. Soprattutto le cosiddette diversità secondarie,