5
Il quadro teorico di riferimento si riallaccia ad una serie di analisi sulle forme di
costruzione della conoscenza sociale nel senso comune, riadattato al contesto specifico di
indagine, che riguarda una “cerchia sociale” determinata, gli insegnanti. Si è quindi fatto
riferimento al fenomeno delle rappresentazioni sociali così come sono proposte da Serge
Moscovici (1989) e applicate in campo sociologico nello studio del “senso comune” dei
“pensatori dilettanti” da Pina Lalli (1995; 2003a; 2003b). Le rappresentazioni sociali della
Resistenza sono del resto già state oggetto di altri studi. Nel 1997, ad esempio, il
LANDIS (Baiesi et al. 1997) ha condotto un’indagine fra i giovani, pur utilizzando un
approccio metodologico che si differenzia in parte da quello adottato in questa ricerca.
Un altro importante punto di riferimento è stato il celebre saggio di Alfred Schütz sulla
distribuzione sociale della conoscenza (Schütz 1979; Lalli 2001).
Quello che segue è il percorso scelto per illustrare la ricerca.
Nel Capitolo 1 si ripercorre a grandi linee l’evoluzione del racconto e della memoria
della Resistenza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai giorni nostri e si introduce il
tema che costituisce l’interrogativo di questo lavoro, l’uso pubblico della storia, con
attenzione alle sue declinazioni sulla stampa, in televisione e negli altri media.
Nel Capitolo 2 viene presentato il metodo con cui è stata realizzata la ricerca con
riferimento anche alla scelta del tipo di campione intervistato mediante questionario e alle
sue caratteristiche.
Nel Capitolo 3 si espongono e si commentano i dati quantitativi emersi relativamente
all’inserimento degli intervistati all’interno di differenti gruppi e contesti comunicativi e,
nel dettaglio, alle loro abitudini di fruizione mediatica, con particolare attenzione ai
contenuti di argomento storico o storiografico.
Nel Capitolo 4, la parte più analitica del lavoro, si presentano le riflessioni relative ai
dati qualitativi emersi attraverso le domande aperte e due items presenti nel questionario
volti ad indagare alcuni aspetti di ancoraggio delle rappresentazioni sociali della
Resistenza.
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Le Conclusioni infine presentano alcune riflessioni e considerazioni ispirate dall’analisi
condotta nei Capitoli 3 e 4 e cercano di arricchire con nuovi spunti l’interrogativo da cui
la ricerca era partita.
Alla Bibliografia segue una sezione di Allegati che comprende dettagli sul
campionamento, il testo completo del questionario somministrato, corredato dalle
relative frequenze di risposta, e alcune tabelle riferite al Capitolo 4.
7
Capitolo 1 - Resistenza e uso pubblico della storia
Una democrazia che non ha memoria critica del proprio
passato, si dice a ragione che è destinata ad una vita
popolata di fantasmi e agitata da incubi, che quindi non
può avere né pace né forza.
(Chiarini 2005 p.114)
1.1 La memoria della Resistenza
«La Resistenza non gode, di questi tempi, di buona stampa». Così lo storico Nicola
Gallerano (1999 p. 109) commentava anni fa lo stato del dibattito pubblico sulle vicende
che hanno segnato la storia del nostro paese nel biennio 1943-1945. Una lettura positiva
della Resistenza sembrava «iscrivere d’ufficio i suoi difensori in uno spazio residuale,
nostalgico, incapace di produrre senso e consenso» o addirittura «nel novero di coloro
che sono per la divisione nazionale e vogliono tenere desti i conflitti sanguinosi del
passato» (ibidem p.109). La Resistenza del resto è sempre stata un termine polisemico,
anche se solo recentemente questa connotazione si è accentuata al punto da farla
sembrare apertamente «un incrocio di fratture e processi, ciascuno dei quali presenta una
propria logica e comporta proprie conseguenze, materiali e simboliche» (Chiarini 2002 p.
22).
Come ricorda Peppino Ortoleva (1995), «temi come la seconda guerra mondiale o la
Resistenza, sono oggetto del “discorso” di numerose istituzioni, ognuna delle quali
fornisce la sua interpretazione della storia:
- la storia ufficiale della scuola e delle commemorazioni, che si avvale di alcuni mass
media in occasioni particolari;
- la storia-ricerca, che ha sede non solo nelle Università ma anche in istituzioni
specifiche, ad esempio gli Istituti Storici della Resistenza, e che è condizionata da
sempre sia dalle scadenze rituali consuete degli anniversari, sia dai dibattiti politici;
8
- la storia privata, tramandata in varie forme e capace di riemergere nelle più varie
circostanze (…);
- la storia praticata da alcuni media che funge in larga parte da luogo di incontro e di
circolazione tra tutte le precedenti, o (…) da centrifuga» (ibidem pp. 77-78).
I discorsi di ciascuna istituzione non sono ovviamente tutti ugualmente monolitici e
partecipano ad «un continuo gioco di scambi e di conflitti, non solo sui contenuti e sulle
forme da dare al sapere storico, ma anche sul “che cosa è” storia» (ivi p. 78).
Ortoleva prova a ripercorrere le fasi di questo gioco individuando nel periodo che va
dall’immediato dopo guerra sino ai primi anni Sessanta il prevalere della “memoria
privata”, seguito nel ventennio successivo prima dal sorgere di una storia ufficiale e poi
dall’emergere di una “controstoria” che vi si oppone. Effettivamente solo nel 1965 alle
celebrazioni ufficiali del 25 aprile iniziano a presenziare le autorità governative «con
l’intento politico di sottolineare l’unità resistenziale su tematiche antifasciste molto
blande, lasciando in ombra la conflittualità della lotta di liberazione» (Bertacchi, Lajolo
2003 p.60). Le stesse stragi nazifasciste, la cui memoria è stata sino ad allora custodita nel
privato delle popolazioni colpite, ottiene solo più tardi il riconoscimento ufficiale. E se
negli anni seguenti si arriva pure a superare la fase episodica della celebrazione della
ricorrenza civile a vantaggio di un lavoro di conoscenza storica di maggiore complessità e
di contestualizzazione nel lungo periodo, nello stesso tempo, per avviare la riforma
istituzionale si rende necessario “superare” la discriminante antifascista, “archiviando”
definitivamente le differenze tra fascismo e antifascismo. Ecco dunque l’origine del rilievo
assunto dal “revisionismo” storico e politico (ibidem). Il tutto esplode a partire dagli anni
Ottanta nei quali si assiste sui media, diventati il centro del sistema sociale della storia,
allo scontro serrato fra i diversi racconti che «non pretendono neppure di poter essere
ricondotti in unità» (Ortoleva 1995 p. 78). È questo il punto in cui il revisionismo “di
fase”, congiunturale, legato alla fase di transizione italiana successiva al crollo dei partiti
tradizionali del fronte antifascista, «ha intercettato la corrente tumultuosa del
revisionismo storiografico» (De Luna 2001a p.92). Il giudizio critico sulla Resistenza
9
poggia su accuse come le responsabilità per “la morte della patria”, la “violenza
comunista” mentre, con l’avvenuto sdoganamento dei neofascisti, si rendeva necessaria la
pacificazione tra fascisti e partigiani in nome di una ritrovata identità nazionale.
(Bertacchi, Lajolo 2003)
A questa periodizzazione se ne sovrappone un’altra, condivisa in parte, sebbene con
alcune differenze, con altri paesi come la Francia e la Germania, che evidenzia anzitutto il
fallimento dell’epurazione e le amnistie seguite dalla rottura precoce dell’unità politica
del fronte antifascista e l’insorgere di un nuovo fronte di divisione segnato
dall’anticomunismo. A questo segue il processo di legittimazione dell’antifascismo con
l’emergere di più memorie che si sono spesso presentate nella forma di un rimosso che
viene alla luce, attivate da vicende politiche o giudiziarie e diventate parte integrante del
discorso pubblico grazie ai media (Gallerano 1999 p. 81). E qui le due scansioni sembrano
sovrapporsi.
È dunque evidente che una rielaborazione ininterrotta ha investito la narrazione e la
trasmissione della memoria della Resistenza muovendosi attraverso il discorso pubblico e
la ricerca storica, a prescindere dalle arene comunicative in cui queste trovavano posto.
In particolare il binomio fascismo/antifascismo ha conosciuto una storia travagliata.
Secondo Forcella (1996) infatti l’antifascismo si è dimostrato già dall’origine «incapace di
farsi coscienza collettiva, di proporsi come asse ideologico della rinascita democratica del
paese» (ibidem p. 29). Ciononostante per molti anni della Resistenza è stata fornita una
ricostruzione agiografica che risultasse funzionale a questo processo di identificazione di
cui costituiva il nucleo centrale. Da parte delle forze politiche dell’“arco costituzionale”,
formate dai membri dei gruppi della lotta partigiana, ne è stata data una visione
ostentatamente unitaria che ha rischiato di farla «iscrivere nella galleria delle glorie patrie
alle quali si presta, quando lo si presta, un doveroso quanto distratto e frettoloso
omaggio» (Pavone 1995). La sinistra ad esempio se ne è servita per recintare l’area della
legalità e dell’etica repubblicana escludendo la destra fascista e «per rimediare su questo
terreno, almeno in parte, il forte deficit di legittimità e di potere coalizionale accusato sul
10
fronte opposto, presto divenuto predominante, dell’anticomunismo» (Chiarini 2006
p.140). L’immaginario si popolava così di narrazioni enfatiche: la Resistenza aveva lavato
l’onta dell'Italia fascista e alleata del nazismo ricongiungendosi idealmente con il
Risorgimento italiano di cui rappresentava il completamento (le brigate comuniste si
chiamavano del resto “Garibaldi”) (Gribaudi 2005). Il centro democristiano aveva invece
sostenuto un’immagine della Resistenza “di popolo” per avvalorare il principio della “lotta
agli opposti estremismi” a baluardo della sopravvivenza delle istituzioni democratiche
(Chiarini 2006). In questo racconto i resistenti cattolici risultavano essersi distinti per un
maggiore rispetto per i beni e l'incolumità delle popolazioni oltre che più moderati coi
nemici, in particolare osteggiando le vendetta contro fascisti e collaborazionisti
all’indomani del 25 aprile. Quest’ultimo aspetto venne ancor più enfatizzato dopo la fine
dei governi di unità nazionale, quando i cattolici si descrissero come pacificatori e
mediatori nella lotta fratricida che i comunisti avevano fomentato. Come figure
dell’immaginario, diffuso nella capillare rete delle istituzioni ecclesiali, c’erano i morti
per salvare i civili dalle rappresaglie e i sacerdoti che avevano tentato mediazioni fra
occupanti e popolazione. In questa chiave di lettura si contrapponeva il solidarismo
riconciliatorio religioso tipico dell’Italia cattolica alla lotta di classe rivoluzionaria dei
comunisti (Gribaudi 2005). Era questa oltretutto una maniera per rimuovere anche il
ricordo delle compromissioni del mondo cattolico con il fascismo (Pavone 1995). Dal
canto suo, la destra antifascista forniva della Resistenza un’interpretazione moderata,
militar-patriottica. Tutti gli aspetti radicali e innovativi venivano così confinati fra gli
eccessi e la faziosità dei comunisti. È quest’ultima una visione che nel corso del tempo è
scivolata verso il totale disconoscimento del peso militare della guerra partigiana (ibidem).
Già negli anni cinquanta, con il consolidamento del discorso pubblico cattolico e
l’estromissione dei partigiani e dei partiti di sinistra, l’antifascismo era stato messo in
secondo piano insieme all'immagine combattente, che sarebbe tornata alla ribalta solo
negli anni Sessanta (gli anni del centro-sinistra). La narrazione ufficiale della resistenza in
questi anni si monumentalizzava in una rappresentazione pubblica le cui caratteristiche
erano: la centralità del maschio combattente partigiano contrapposta alla marginalità della
popolazione civile; la negazione di frammenti di storia che rimanevano individuali e
11
nascosti, custoditi dalle memorie private (ad esempio gli stupri e la violenza
dell'occupazione alleata). Questa narrazione ha suscitato risentimenti e insoddisfazioni
dando luogo a processi di ricostruzione della memoria in cui aspetti del discorso pubblico
si mischiavano a memorie private secondo le dinamiche più varie (Gribaudi 2005).
È evidente dunque che la questione di una “memoria condivisa” non ha trovato spazio nel
corso della “Prima Repubblica” dove era sì auspicata un’ampia popolarizzazione
dell’antifascismo militante, ma non abbastanza per originare una “memoria condivisa”.
«Non solo perché era un’opportunità evidentemente negata in via pregiudiziale ai
neofascisti, ma anche perché non era formulata in una versione irenica di orizzonte
democratico conquistato, sì, all’inevitabile costo di una sanguinosa e lacerante lotta di
liberazione, ma comunque alla fine offerto quale patrimonio comune, terreno di esercizio
della democrazia e, come tale, promotore di processi inclusivi» (Chiarini 2006 p.140).
Sempre Chiarini (2005) riconosce un’importante frattura fra le due “memorie” principali
della Resistenza, provenienti entrambe dal fronte antifascista: una declinazione impolitica
(la memoria “grigia”) e l’altra iper-politica (la memoria “rossa”) (ibidem).
A partire dagli anni Settanta poi ognuna delle “vulgate” di cui abbiamo detto si è
strutturata in “feudi interpretativi”, con tanto di archivi, istituti di ricerca e personale
scientifico «raccolti intorno agli eroi eponimi (Gramsci, Sturzo, Nenni, Einaudi, La
Malfa) delle diverse tradizioni politiche e delle varie culture politiche» (De Luna 2000 p.
446).
Gli anni Ottanta vedono, come si è detto, l’emergere sui media di tesi storiografiche
“revisioniste” che mettono in discussione il mito della Resistenza e l’antifascismo
imputandogli, tra l’altro, di aver minato le radici tradizionali di patria e famiglia. Queste
nuove interpretazioni, veicolate, rielaborate e diffuse dai media (lo si vedrà in dettaglio
nel paragrafo 1.2) non hanno però la solidità delle “vulgate” che si erano venute a creare
attorno a Stato, Chiesa o Partiti (De Luna 2001a). D’altra parte la storiografia di
ispirazione antifascista ha reagito con stupore alla sua avanzata, quasi non ne avessero
colto la maturazione, probabilmente a causa di una sorta di “trionfalismo antifascista e
12
resistenziale”, che aveva ostacolato un'analisi aperta delle «compromissioni della società
italiana con il fascismo, della corresponsabilità dell'Italia per la seconda guerra mondiale,
dei limiti della rottura del 1945, una resa di conti con il passato, capace di guardare fino
in fondo alle responsabilità delle classi dirigenti di questo paese e ai limiti imposti al
processo di rinnovamento dopo il fascismo» (Collotti 2000a pp. XV-XVI).
In quegli anni comunque viene allo scoperto il “conflitto di memorie”, che risulta ancora
in corso, non solo tra chi si riconosceva in quella tradizione e chi invece la rifiutava ma
anche all’interno dello stesso campo antifascista (Gallerano 1999 p. 293).
Oggi, secondo Gallerano (1999), la principale contrapposizione sembra essere fra
“memoria” e “oblio”. A sinistra sembrano stare i difensori del passato, col suo fardello di
ferite e verità; a destra, quelli dell’oblio in nome della “pacificazione” e del superamento
del passato. Con un paradossale scambio delle parti si sarebbe affermata l’opinione che «la
Sinistra abbia ceduto alla Destra il desiderio e l’impegno a rompere e cambiare, che
storicamente l’aveva contraddistinta» (ibidem p. 106). Ma questa sarebbe solo una facile
razionalizzazione ad uso mediatico perché in realtà il conflitto in corso non è tra memoria
e oblio ma «tra memorie e oblii diversi, che si propongono di dare sostanza morale e
culturale agli orientamenti civili e politici del nostro tempo» (ivi p. 106).
Non è chiaro ancora quale sarà l’esito del conflitto per la memoria. Secondo Marcello
Flores (1998) non è auspicabile che si traduca nella ricerca di una storia “unanime”, dal
momento che questa rappresenta «il terreno più fertile perché la verità non venga più
ricercata, nelle sue concrete e possibili esemplificazioni, a vantaggio di una “vera”
interpretazione che trovi tutti d’accordo» (ibidem p. 210). Né verosimilmente si potrà
arrivare alla condivisione della stessa memoria da parte dei combattenti delle opposte
trincee o alla parificazione, per altro da molti caldeggiata, delle ragioni per le quali si sono
combattuti. Ciononostante Flores segnala come negli ultimi anni si è sempre più spesso
dato spazio alla memoria dei protagonisti di allora, «tutti intenti a rivendicare la giustezza
del proprio comportamento e a trasformare quello in interpretazione storica» (ibidem p.
211).
13
Parrebbe, come fra gli altri sostiene Chiarini (2005), che l’unica strada percorribile per
arrivare ad una memoria condivisa sia quella di integrare la lotta di liberazione nel
continuum della storia nazionale in quanto passaggio decisivo di riconquista della libertà e
della democrazia e di emancipare la Resistenza e l’antifascismo dalla connotazione di
“ideologia” portatrice di un progetto politico di parte, per farne un’esperienza storica e
l’orizzonte di valori di ogni democratico. «Solo se saprà offrirsi come portato di
un’identità democratica “aperta”, capace cioè di integrare chiunque accetti il risultato
conseguito di una democrazia operante, la memoria sarà condivisa» (ibidem p. 119).
1.2 L’uso pubblico della storia
La storia, specie quella contemporanea, è un soggetto molto frequentato oggi da stampa,
tv e dalla galassia mediatica al completo. Se per la tv è facile, per quanto riduttivo,
spiegare questo successo della storia («Storia superstar: cinque ore in tv»
2
titolava un
commento di Aldo Grasso sul Corriere della Sera, qualche anno fa) con la disponibilità a
basso costo di una mole di materiale d’archivio pronto per essere montato e rimontato
all’infinito, per gli altri media le motivazioni sono meno immediate da cogliere.
La questione è ulteriormente complicata da un evidente paradosso, messo in luce per
primo da Nicola Gallerano (1995b), per cui nel presente convivono, apparentemente in
contraddizione, «un accentuato e diffuso sradicamento dal passato da un lato;
un’ipertrofia dei riferimenti storici nel discorso pubblico dall’altro» (ibidem p. 25).
Anche ammettendo che tutto questo parlare e scrivere di storia si traduca in nient’altro
che “rumore di fondo”, chiacchiericcio per addetti ai lavori, completamente slegato dalla
realtà, resta il fatto che questo è un fenomeno che ormai si protrae da anni e non accenna
ad attenuarsi, come ci si sarebbe attesi da una moda passeggera o da un’improvvisa
infatuazione. Di questo, che d’ora in avanti verrà chiamato uso pubblico della storia, in Italia
si parla infatti già da almeno il 1987, anno in cui all’interno della raccolta di saggi curata
2
Aldo Grasso - “Storia superstar: cinque ore in tv” - Il Corriere della Sera - 11/7/1997
14
da Gian Enrico Rusconi Germania: un passato che non passa. Il crimini nazisti e l'identità
tedesca
3
, è comparso il saggio di Jurgen Habermas, intitolato appunto “L’uso pubblico
della storia”. Il tema è stato introdotto da Habermas a proposito del dibattito etico-
politico sul passato, un contesto che coinvolge direttamente memoria, identità individuali
e collettive, giudizi politici sul presente e sul futuro, innescato nel campo della sfera
pubblica dai mass media. Fra questo e il lavoro storiografico specialistico il fossato
sarebbe profondo, in particolare per quanto concerne la netta differenza fra gli obbiettivi
- scientifici per la storia specialistica, etico-politici per quella sui media - ma anche nella
metodologia - laddove l’indagine scientifica adotta “la terza persona” mentre i media (e i
molti altri attori impegnati nell’uso pubblico della storia all’interno della sfera pubblica
come scuole, musei, associazioni, partiti) offrono letture irrimediabilmente “di parte”,
«facile preda di strumentalizzazioni, usi maldestri e acritici di fonti scarse e poco
attendibili, esami frettolosi dei contesti» (De Luna 2001a p. 73). Una lettura che, per
giunta, «ha il limite di fondo di non sviluppare vere potenzialità della ragione
comunicativa, ma di ridursi a consumo culturale» (Ricuperati 2001 p. 704).
Da quando però, a partire dal convegno IRSIFAR del 1993 promosso da Nicola Gallerano
- il primo storico ad affrontare in maniera sistematica del tema dell’uso pubblico della storia
in Italia - è cresciuto l’interesse attorno alla questione, ci si è resi conto che l’approccio
Habermasiano andava rivisto e arricchito.
Anzitutto, sebbene negli ultimi decenni il fenomeno avesse raggiunto un’intensità
particolare, l’uso pubblico della storia è nato con la storia come attività conoscitiva ed ha
assunto la maggior parte dei caratteri peculiari che oggi gli riconosciamo, (multimedialità
e politicizzazione del passato in funzione del conflitto politico presente) negli anni Venti e
Trenta, con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa elettronici (Gallerano
1995b). È stato allora che si è delineata quell’arena, che Ortoleva (1995) ha definito il
“sistema sociale della storia”, «fatta di tante istituzioni diverse ma interdipendenti e mai
3
Rusconi G.E. 1987 Germania: un passato che non passa. Il crimini nazisti e l'identità tedesca
3
Torino: Einaudi.
15
rigidamente separabili, dalla famiglia alla scuola, dall’università ai diversi settori
dell’industria culturale» (ibidem p. 67).
È emersa poi con sempre maggior chiarezza l’inconsistenza della presunta distinzione fra
storia scientifica e uso pubblico della storia sui media. Se da un lato gli storici sono da tempo
coinvolti sulla scena mediatica, basti pensare ad esempio alla figura di Renzo De Felice,
dall’altro, con non pochi fastidi da parte della comunità scientifica, risultava evidente che
«la moderna comunicazione avesse cambiato o stesse modificando, insieme all’identità e
alla memoria collettiva, anche la ricerca storica e la diffusione dei suoi risultati» (Flores
1998 p. 208).
Insistendo inoltre nella colpevolizzazione del mezzo quale causa del progressivo
appiattimento sul presente della prospettiva storica, in una chiave politicizzata che
considera la storia solo sulla base dell’elemento ideologico, si rischiava di celare le non
poche opportunità che i mezzi di comunicazione di massa offrivano alla storia per
superare la ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Come ha evidenziato infatti Giovanni
De Luna
4
, la storia è da sempre soggetta all’“occhiuta sorveglianza del potere”.
L’irruzione dei media nel dibattito sulla storia ha avviato un processo di democratizzazione
della conoscenza storica illuminando una molteplicità di “luoghi di elaborazione e
costituzione della memoria storica e dell’identità collettiva”. Non solo, «gli stessi media
appaiono totalmente inseriti in un sistema di discorsi sul passato in cui confluisce una
vastissima tipologia di strumenti, dalle opere scientifiche ai pamphlet politici, tutti “agenti
di storia”, in grado di informare lo “spirito del loro tempo”» (Del Luna 1993 p. 4).
Nicola Gallerano (1995b) è arrivato a dire che «storia e uso pubblico della storia sono la
stessa cosa» dal momento che «l’utilità pubblica della storia è la sua giustificazione
originaria» (ibidem p. 22).
Agli storici del resto non è sfuggito che l’uso pubblico della storia non dipende unicamente
dalle possibilità tecniche offerte dai media ma è in fase con l’andamento della vita politica,
4
In riferimento però a Ferro M, 1985 - L’histoire sous surveillance - Paris: Calmann-Lévy.
16
conoscendo picchi in corrispondenza dei momenti di trasformazione o di discontinuità
storica, in cui cioè emerge la necessità di collocare diversamente il presente rispetto al
passato (Gallerano 1995a). Se si pensa ad oggi, è chiaro che gli sconvolgimenti avviatisi
nel 1989 hanno suscitato una riscrittura impaziente del passato ad opera dei più diversi
soggetti, «tanto più impaziente quanto meno una storiografia degna del nome era in grado
di offrire instant-books e ricette miracolose per leggere un mutamento vissuto come
epocale» (ibidem p. 7). Tuttavia i contenuti dei recenti dibattiti sul Novecento non sono
una novità ma attingono dai termini del dibattito interno della comunità scientifica che
precede il 1989 (ibidem).
Come già accennato, all’uso pubblico della storia partecipano «non solo i media, ciascuno
con una sua specificità (giornalismo, radio, tv, cinema, teatro, fotografia, pubblicità, ecc.)
ma anche le arti e la letteratura; luoghi come la scuola, i musei storici, i monumenti e gli
spazi urbani, oltre che le istituzioni formalizzate (associazioni culturali, partiti, gruppi
religiosi, etnici e culturali, ecc.) e i soggetti economico-finanziari che con obbiettivi più o
meno partigiani si impegnano a promuovere una lettura del passato polemica nei
confronti del senso comune o storiografico, a partire dalla memoria del gruppo
rispettivo» (Gallerano 1995 p. 17). Le interpretazioni del passato fornite dai vari attori
impegnati nell’uso pubblico della storia sono infatti teste a «modificarne radicalmente altre,
da loro sentite come parziali e celebrative di processi storici di grande rilievo identitario e
forte adesione emozionale e valoriale per individui, gruppi, parti politiche e ideologiche,
collettività nazionali o transnazionali» (Vaudagna 2002 p. 329). È questo un aspetto su cui
si ritornerà perché significativo del particolare rapporto che si è creato fra uso pubblico
della storia e “revisionismo”.
Sebbene larga parte nelle manifestazioni più visibili e discusse dell’uso pubblico della storia
vedano protagonisti esponenti del mondo politico, è bene precisare che va tenuto distinto
dal suo uso politico in senso stretto, specie se manipolatorio. Nei media e altrove ci sono
«manifestazioni dell’uso pubblico della storia non così intenzionalmente mirate, che offrono
puro intrattenimento e evasione; e ci sono infine usi del passato che coinvolgono
17
direttamente memoria, identità individuali e collettive e hanno (…) tutt’altro significato
e potenzialità liberatorie» (Gallerano 1995 p. 28).
Non esistono tuttavia confini netti e gerarchie tra gli storici di professione e gli altri
produttori di storia, tra ricerca scientifica e divulgazione: «vi sono piuttosto
contaminazioni e conflitti e un complesso sistema di scambi» (ibidem p. 9). In Italia in
particolare è comune che i giornalisti scrivano di storia, in modo non sempre inferiore a
quello degli storici di professione sostiene Ortoleva (1995), al punto che la distinzione fra
ricerca scientifica e mercato editoriale si fa labile (De Luna 2001a). D’altra parte la
“contiguità linguistica” consente ai media di “dare la parola” agli storici senza mediazioni
da parte dei giornalisti mentre la relativa apertura della storia contemporanea all’accesso
di soggetti che hanno alle spalle diversi percorsi formativi consente ai giornalisti di “farsi
storici” (Ortoleva 1995).
Una simile impostazione diverge da quella ritenuta prevalente fra gli storici, che sarebbe
di rifiuto a priori e pregiudiziale oppure di vigilanza e correzione delle distorsioni o degli
errori nell’uso pubblico della storia (Gallerano 1995). È del resto dimostrabile che molte
delle polemiche giornalistiche degli ultimi anni abbiano visto protagonisti proprio gli
storici di professione (Del Luna 1993). I media e la comunità scientifica si sono infatti
intrecciati al punto che i primi ne sono diventati l’infrastruttura di base, sostituendosi in
questo ai circuiti accademici e istituzionali. Accantonati remore metodologiche e
snobismo intellettuale, il numero dei professori di storia contemporanea accreditati come
opinion makers nella carta stampata e nella televisione o come leader nei partiti è andato
crescendo e l’editoria ha conosciuto un vero e proprio boom nella saggistica. Del resto,
come sottolinea De Luna (2001a), persino per discutere e comunicare con gli altri
colleghi lo storico, non potendo contare che su un limitato numero di “luoghi interni” alla
professione, è costretto ad utilizzare mezzi “esterni”, i media appunto. Ad esempio,
l’impatto pubblico delle tesi storiografiche di Renzo De Felice, autore di una
monumentale biografia del duce, è avvenuto principalmente attraverso opere divulgative
(1975, 1995) o negli interventi come opinionista quasi politico comparsi sulla stampa o
ancora in tv, dove il suo paradigma ha influenzato molta della produzione Rai.