4 CAPITOLO PRIMO
LA NORMATIVA PREVIGENTE
1. Il vecchio art. 2621 n. 1 c.c.
Prima della riforma introdotta dal D.lgs. 61/2002 la previgente fattispecie criminosa di false
comunicazioni sociali era disciplinata dall’art. 2621 c.c. n. 1 ed era prevista esclusivamente la
forma delittuosa
1
. Rispetto alla fattispecie riformata era strutturata con profonde differenze tanto
sul piano dell' elemento materiale quanto su quello dell'elemento psicologico, nel delineare i
quali il dato testuale peccava di un eccesso di sintesi che ebbe notevoli conseguenze in termini di
contrasti interpretativi sia dottrinali che giurisprudenziali. Rispetto all’elemento oggettivo, la
norma si limitava a prendere in considerazione l’ esposizione di fatti non rispondenti al vero
sulla costituzione e sulle condizioni economiche della società, o, alternativamente, il
nascondimento in tutto o in parte di fatti concernenti le condizioni medesime.
Rispetto all’elemento soggettivo, la norma era caratterizzata da una sintesi ancor più
accentuata, limitandosi a condensare quest’ultimo elemento nell’unico – e tutt’altro che univoco
– termine “fraudolentemente”.
Ulteriori differenze tra vecchia e nuova normativa concernono i soggetti agenti: la vecchia
norma vi ricomprendeva anche i promotori e i soci fondatori. Si possono infine riscontrare
marcate differenze per quanto riguarda l’aspetto sanzionatorio e il regime di procedibilità.
Prima di procedere ad un esame della nuova normativa sulle false comunicazioni sociali, è
dunque opportuno esaminare la disciplina previgente, per poter meglio cogliere quale sia stata
l’effettiva portata delle innovazioni introdotte dalla riforma del 2002 sulla disciplina del reato in
oggetto.
1
Così recitava il vecchio art. 2621 c.c. n .1:
“Salvo che il fatto costituisca reato più grave, sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da
€ 1.032 a € 10.329:
1) i promotori, i soci fondatori, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali nelle
relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali, fraudolentemente espongono fatti non rispondenti al vero
sulla costituzione o sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le
condizioni medesime”.
5 2. L’elemento oggettivo.
L’elemento oggettivo della fattispecie, nella vecchia formulazione dell’art 2621 n. 1 c.c., era
espresso, come abbiamo visto, nei seguenti termini: “...i quali nelle relazioni, nei bilanci o in
altre comunicazioni sociali, (fraudolentemente) espongono fatti non rispondenti al vero sulla
costituzione o sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti
concernenti le condizioni medesime”.
Rispetto alla fattispecie riformata – come si approfondirà più avanti – la formulazione
dell’abrogato art. 2621 c.c. n. 1 era molto più stringata nel descrivere l’elemento materiale della
fattispecie.
La condotta era prevista in duplice forma: commissiva ed omissiva.
Per quanto riguarda l’oggetto del falso, il testo della norma si limitava a richiamare i “fatti”
concernenti le condizioni economiche della società, senza altro specificare. Questo eccesso di
sintesi del testo normativo in discorso costituì la premessa fondamentale per lo sviluppo, in seno
alla dottrina e alla giurisprudenza, di accesi dibattiti e di divergenze interpretative in ordine
all’oggetto del falso (con riferimento alla possibilità di includervi o meno, oltre i fatti in senso
stretto, anche le valutazioni) e in ordine ai confini da attribuire al concetto di “altre
comunicazioni sociali”.
62.1 La condotta del soggetto agente.
L’abrogato art. 2621 n. 1 c.c., come visto, prevedeva anzitutto una condotta commissiva (o
attiva) consistente nell’ esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero sulla costituzione o
sulle condizioni economiche della società.
Ma la vecchia formulazione della norma prevedeva anche un’ipotesi di condotta consistente
nel nascondimento dei suddetti fatti. Tale espressione aveva fatto dubitare della natura
dell’illecito, che, a giudizio della prevalente dottrina, si caratterizzava per essere un reato
omissivo proprio
2
. Secondo tale impostazione, tale modalità della condotta poteva costituire
esclusivamente una falsità in omittendo, consistente nel non compimento di un’azione doverosa.
Secondo altra parte della dottrina
3
, al contrario, la precedente incriminazione non puniva
l’omissione delle comunicazioni tout court, bensì la comunicazione non conforme, in tutto o in
parte: e cioè l’omissione che si risolveva in una falsa informazione in ordine ai fatti oggetto della
comunicazione. Dunque il nascondimento si realizzava anche con un comportamento positivo e
cioè mediante l’informazione e non con la semplice omissione dell’informazione medesima. Se
ne deduceva che l’ipotesi omissiva penalmente rilevante andava più rettamente qualificata come
reato a condotta mista.
Questo ultimo indirizzo interpretativo era quello seguito dalla Suprema Corte
4
, secondo cui la
figura delittuosa ex art. 2621 n. 1 c.c., in rapporto alle due modalità alternative di realizzazione
dell’illecito, si risolveva in un reato di pura azione nell’ipotesi della esposizione non veritiera di
fatti mentre si qualificava, invece, nell’ipotesi del nascondimento, come delitto a condotta mista:
attiva, con riferimento alla comunicazione sociale, nella quale il nascondimento confluiva;
omissiva, con riferimento alle carenze della medesima rispetto al quadro informativo che era
legittimo pretendere dal suo autore.
2
Su questo ordine di idee cfr. ANTOLISEI; FOFFANI.
3
In tal senso, cfr. PEDRAZZI; ALIBRANDI; NAPOLEONI.
4
Ad ulteriore conferma che l’omessa redazione o mancata presentazione del bilancio tout court non potevano
integrare l’illecito penale, un’ulteriore pronuncia della Cassazione precisò che “le modalità di consumazione del
reato stesso […] postulano un’attività in senso strettamente positivo, rivolta alla formazione di un atto che venga
materialmente ad esistenza; pertanto, la condotta assolutamente omissiva intesa a nascondere i fatti concernenti le
condizioni economiche di una società – in assenza di relazioni, bilanci, comunicazioni sociali – compresa la
mancata presentazione dei bilanci annuali, comunque finalizzata, è irrilevante ai fini dell’integrazione del reato”.
72.2 Oggetto del falso: i fatti e le valutazioni.
L’ulteriore dato testuale sul quale è opportuno soffermarsi nella lettura della norma previgente
è il termine “fatti”. In dottrina era pacifico che con questo termine la norma volesse
ricomprendere tutti i dati, gli accadimenti o le evenienze manifestati a terzi attraverso il bilancio
o le altre comunicazioni sociali. Oggetto di contrasto e di acceso dibattito era invece la questione
se, nel suddetto termine, potessero includersi anche le valutazioni. Il problema si poneva
soprattutto con riguardo al bilancio, nel cui ambito l’effettiva incidenza sul conto degli elementi
attivi e passivi dell’impresa dipende, come noto, dalla stima operata dall’organo gestorio, ma
riguardava anche qualsiasi documento contabile con le medesime caratteristiche.
Una parte della dottrina propendeva per la tesi secondo la quale il principio di stretta legalità e
la sua funzione di garanzia sarebbero stati intaccati dalla possibilità di ricondurre le valutazioni
nell’orbita semantica dei fatti e, perciò, negava espressamente tale riconducibilità. I sostenitori di
questa tesi dottrinale argomentavano in base al fatto che le valutazioni consistono in
apprezzamenti o giudizi a carattere eminentemente soggettivo per nulla assimilabili ai dati
oggettivi della realtà esteriore nei quali invece si sostanziano i fatti. Secondo tale impostazione
5
,
alla nozione di “fatti” afferiva soltanto tutto ciò che – collocandosi nel presente o nel passato –
era percepibile attraverso i sensi, mentre le valutazioni – che contenevano previsioni su
accadimenti futuri – non erano perciò mai di per sé predicabili di verità o falsità. Si aggiungeva,
poi, un’ulteriore considerazione secondo cui il legislatore aveva espressamente incriminato
talune condotte valutative ove ritenuto necessario
6
. La mancanza di un’espressa previsione
normativa nell’art. 2621 n. 1 c.c. era perciò intesa come una consapevole e volontaria scelta di
non incriminazione da parte del legislatore.
Secondo la dottrina prevalente, invece, la formulazione letterale della norma non costituiva
ostacolo alla rilevanza penale delle false valutazioni, giacché il termine “fatti” si prestava ad
includervi non solo gli elementi obiettivi della realtà esteriore, bensì anche i fatti psichici intesi
come accadimenti attinenti alla vita interiore del dichiarante. Questa tesi dottrinale aveva il suo
fondamento su un’interpretazione teleologica della fattispecie, secondo la quale il legislatore,
mosso da preoccupazioni di natura politico-criminale, non poteva non essersi riferito anche alle
5
Tra i sostenitori di tale impostazione: ANTOLISEI, CRESPI, NUVOLONE.
6
L’art. 371 c.p. e l’abrogato art. 2629 c.c., nei quali si punivano “i pareri e le interpretazioni mendaci” ovvero le
“valutazioni esagerate”.
8valutazioni nel momento in cui indicava il bilancio come oggetto di una falsità penalmente
rilevante, posto che le stesse ne rappresentavano la componente qualificante e più caratteristica
7
.
La giurisprudenza penale, dal canto suo, soltanto di rado aveva ritenuto di seguire la tesi
minoritaria, secondo la quale il falso doveva avere necessariamente ad oggetto fatti e non mere
valutazioni. Secondo questo indirizzo giurisprudenziale la tutela aveva per oggetto “non un
giudizio economico relativo alla società, ma l’aspetto documentale delle comunicazioni sociali,
circa il quale soltanto è ravvisabile un affidamento ragionevole dei destinatari, soci o terzi che
siano”
8
.
La giurisprudenza prevalente sia di legittimità
9
che di merito
10
, invece, si era ripetutamente
espressa a favore della rilevanza penale delle valutazioni di bilancio.
Questa giurisprudenza, certa della rilevanza penale delle valutazioni, circoscriveva in via
interpretativa la falsità alle sole ipotesi in cui le valutazioni rappresentassero in modo difforme
dal vero i fatti che ne costituivano la base ovvero in cui emergesse che le valutazioni medesime,
così come ufficialmente esposte, non rispettavano quei valori individuabili attraverso i “corretti
principi contabili”. In tali casi la falsità era conseguenza della totale arbitrarietà delle valutazioni.
Estremamente significativa e di grande utilità per l’approfondimento sul punto è una sentenza
della Corte d’Appello di Roma
11
.
7
Tra i sostenitori di questa impostazione, cfr. MUSCO; NORDIO; NAPOLEONI; CARACCIOLI; FURIA; TAGLIERINI;
CATENACCI.
8
Cass., sez. V, 14 dicembre 1994, POZZO, in Cass. Pen., 1995, 2695.
9
Cass., sez. V, 18 maggio 2000: si era affermato che “in tema di false comunicazioni sociali…, nell’espressione
“fatti non rispondenti al vero” contenuta nella norma incriminatrice, vanno ricomprese le stime sul valore di entità
economiche non precisamente calcolabili; invero…, anche la stima o valutazione deve essere considerata attività
fattuale”. Ancora, Cass., sez. V, 5 gennaio 1995: “…è sussumibile entro il paradigma sanzionatorio dell’art. 2621
n. 1 c.c. anche il falso in valutazioni di bilancio, in quanto non solo le singole componenti dell’attivo e del passivo,
ma anche le loro valutazioni riguardano le condizioni economiche della società, essendo entrambi tali elementi
necessari per stabilire la verità o falsità del bilancio”.
10
C. Appello Napoli, 15 dicembre 1988: “…Sebbene le valutazioni non rientrino precisamente nella categoria
dogmatica dei fatti, le stesse meritano comunque un identico trattamento al fine dei delitti di cui agli artt. 2621, n. 1,
c.c. e 223, 2° comma, n. 1, l. fall., dal momento che anche il senso comune attribuisce la qualifica di falso a un
giudizio contrario a canoni universali di verità, nella specie identificabili nei criteri legali di valutazione delle
attività e passività da iscrivere nel bilancio societario”.
11
Sez. I, 14 ottobre 1981, nella cui parte motiva si legge: “…E’ certo, quindi, che il falso ipotizzato dall’art.
2621, n. 1, c.c., come tutti i falsi documentali, può riguardare soltanto le condizioni economiche passate o presenti
della società… “Fatti”, quindi, intesi come dati della realtà obiettiva…, nella cui accezione parte della dottrina,
dilatandone il concetto, ha, però, ricompresso anche le valutazioni da taluno intesi come fatti interiori o
avvenimenti della vita psichica del dichiarante, che comunque consistono in giudizi di valore rimessi
all’apprezzamento del dichiarante stesso. La cui discrezionalità trova, almeno per quanto concerne la formazione
dei bilanci e del conto dei profitti e delle perdite e per la stima delle poste in essi contenute , un limite legale di
verità in forza degli artt. 2424, 2425, 2425-bis c.c., che dettano i relativi criteri informatori… Le surrichiamate
norme del codice civile che…dettano i criteri di valutazione delle singole voci, istituendo parametri sufficientemente
precisi per la verifica delle valutazioni stesse sul piano della verità, sembrano accreditare la tesi che non solo i fatti,
ma anche le valutazioni, seppur entro certi limiti, possono costituire oggetto di falsità punibile ai sensi dell’art.
2621 c.c. […] non vanno di regola ricomprese le ipotesi di erronea valutazione delle attività e passività dell’ente, in
quanto tali valutazioni comportano necessariamente un apprezzamento discrezionale, ma tale valutazione non deve